giovedì 31 dicembre 2009

BUON 2010 A TUTTI!

La nuova Al Qaida e la risposta di Obama

Milano, Mauritania, Sati Uniti, Pakistan. I recenti fatti terroristici in tutto il mondo hanno riportato alla ribalta Al Qaida. Sembrava ormai un ricordo lontano se non nel tempo, per lo meno nello spazio, confinate in qualche angolo remoto le sue azioni paranoiche. Invece, eccola tra di noi. Di nuovo pronta a colpire e a seminare morte anche nelle nostre città. Queste azioni i hanno mostrato di nuovo sia la pericolosità e la determinatezza dei miliziani di Bin Laden che la fragilità dei nostri sistemi di sicurezza. E a questo punto sorge spontanea la domanda: qual'è il modo migliore per fermare il terrorismo? Quesito a cui può essere data una risposta solo se riusciamo a mettere a fuoco la domanda precedente: che tipo di minaccia rappresenta Al Qaida, che fini persegue e quali mezzi impiega per raggiungerli? Solo a questo punto potremmo riuscire a misurare l'efficacia delle contro misure utilizzate dai paesi occidentali e in primo luogo dagli Stati Uniti, il paese più attaccato, che assieme ad Israele porta il fardello maggiore della lotta contro l'etremismo totalitario di stampo islamista.

E qui ritorna un punto sempre aperto quando si parla del nuovo terrorismo: per contrastarlo è meglio utilizzare una strategia antiterroristica e quindi basata su azioni di polizia, magari accompagnata da raid punitivi, o al contrario è necessario considerare la sfida portata da Al Qaida un'azione di guerra e rispondere ad essa sul piano militare? Mentre la prima strada è quella preferita dai democratici americani e portata avanti da Clinton e – a parole – da Obama, la seconda è stata inaugurata da Bush jr. dopo quel tragico 11 settembre 2001.

L'antitesi tra le due soluzioni e la confusione tra le stesse sono a causa della duplicità della minaccia portata avanti da Bin Laden: l'epifenomeno, il mezzo scelto per raggiungere i propri scopi, il terrorismo appunto, e l'ambiente (i motivi storici culturali sociali religiosi) da cui il primo scaturisce. Ora la prospettiva cambia a seconda che il centro del discorso cada sul primo o sul secondo aspetto. Riguardo al primo punto, ma il discorso si può tranquillamente allargare ad ogni tipo di minaccia che utilizza la morte di civili innocenti, una precisazione deve essere fatta. La rete tecnologica di infrastrutture che supporta le società moderne è fragilissima mentre la forza tecnologica delle nazioni occidentali – compresa quella dei mass media - è enorme, fatto che non fa altro che amplificare gli effetti del terrorismo e quindi a farlo scegliere come arma preferita da un gran numero di attori. Il maltempo nel 2010 causa più disagi che 50 o 100 anni fa, una bomba carta nella metropolitana ha un risultato più devastante che un missile su Lampedusa e il terrorismo, che fin dalla sua origine - dai tempi di Narodnaya Volya - si basa sulla moltiplicazione dell'effetto dei suoi gesti, lo sa. Contro questa verità, l'unica contro misura è il sangue freddo di un popolo e della sua classe dirigente, ma scordiamoci una qualsiasi "sconfitta" del nemico. In Europa e negli Stati Uniti non sono mai esistite frontiere sigillate, non esiste controllare i flussi di immigrati o gli spostamenti dei turisti: chi dice il contrario diffonde solo demagogia pericolosa perché falsa. L'unica misura che funziona sul fronte interno è certo l' aumento dei controlli, ma sempre e solo contano l'intelligence, l'azione di infiltrazione, l'ascolto serio delle fonti, il lavoro sul territorio compreso quello cibernetico, la capacità tutta politica e investigativa di distinguere tra scontento, dissenso e minaccia, il raccordo internazionale delle polizie. Dopo l'IRA, le BR, i NAR, Settembre Nero, il FPLP, l'ETA, Aum Shinrikyo eccetera sono arrivati i ceceni, curdi, Al Qaida, i pasdran iraniani e altro ancora. Non è una dichiarazione di resa, ma di presa d'atto della realtà, considerazione che ci fornisce due indicazioni diverse: la prima ci dice come un paese obiettivo dei terroristi deve reagire al proprio interno, quali misure di sicurezza deve adottare per garantire la vita dei suoi cittadini, la seconda quale uso della forza sia migliore per contrastare il nemico.

Ma questo aspetto "strutturale", per così dire, non nega il fatto che esista un secondo lato sempre invece diverso sulla natura e caratteristiche della specifica organizzazione che utilizza il terrorismo. Garantire la sicurezza dei cittadini significa muoversi sul piano dell'azione di polizia; combattere i santuari di Al Qaida significa spostarsi sul piano politico, di politica estera di sicurezza più precisamente, che comporta anche l'impiego della forza e dell'esercito.

I puristi, i legalisti democratici americani, si rifiutano di considerare "guerra" la lotta contro Bin Laden; in parte hanno ragione, il terrorismo non è un nemico, ma un'arma utilizzata da un nemico (ma queste sono sottigliezze teoriche). Se però la lotta contro il terrorismo islamista non è una "guerra" a causa appunto della mancanza di un nemico statale, che cos'è Al Qaida?

E', secondo la definizione data dall'esperto internazionale di strategia nonché consigliere del generale petraeus David Kilcullen, "un'insorgenza terroristica globale" che utilizza "principalmente, ma non esclusivamente" il terrorismo come strumento di lotta. Di conseguenza lo strumento migliore per combatterlo sono azioni di contro insurrezione o insorgenza che comprendono un mix di interventi politico, diplomatico, sociale, di polizia e militari.

In questi giorni, il brodo di coltura dove sorge Al Qaida è visibile in tutta la sua drammaticità, dall'Afganistan alle cellule irachene, allo Yemen fino ad arrivare al Ciad e alla Mauritania; da questi luoghi il network sunnita si muove in giro per il mondo lasciando una scia di dolore e spavento. Il sogno della rinascita del califfato, la volontà di abbattere i regimi traditori nei paesi abitati da mussulmani si uniscono al progetto di scardinamento dell'ordine mondiale garantito dagli Stati Uniti. Al Qaida è un network internazionalista, rivoluzionario, terrorista,"senza fissa dimora" alla ricerca perenne di santuari da costruirsi in stati deboli, falliti, o addirittura amici come nel caso dell'Afghanistan dei talebani. Al Qaida rappresenta tre assolute novità: è una minaccia globale, è di matrice religiosa invece che ideologico-politica, e allo stesso tempo non ha radici territoriali precise. In pratica è un sistema vivente che si trasforma in continuazione adattandosi alle circostanze perché i suoi fini sono molteplici cangianti secondo i momenti e così la struttura organizzativa può evolversi in modo plastico. Rispetto alle origini, dopo la liberazione di Kabul, adesso il network è sicuramente più decentralizzato, forse acefalo – meglio policefalo -, ma con una diffusione sen'altro più grande grazie a due fattori, il primo dovuto all'effetto spill over causato dall'azione militare degli alleati in quell'area, e l'altro da ricercare nel fascino che la rivoluzione islamista esercita nel mondo arabo mussulmano sunnita in competizione con la rivoluzione khomenista.

Ma questi elementi non colgono un fatto fondamentale ed estremamente grave presente nelle popolazioni e dei regimi sunniti, arabi e medio orientali. Dal Pakistan allo Yemen, dal Libano al Ciad, alla stessa Arabia è un susseguirsi di complicità, di coperture, fino ad arrivare all'aperto supporto, come nel caso dello Yemen da parte di ampi settori di quelle società e stati verso i terroristi di Al qaida. I motivi di questo folle comportamento delle elite sono da ricercarsi nella storia delle nazioni arabe e medio orientali, nelle simpatie ideologico religiose che Al Qaida riceve e nell'utilizzo della sua forza militare contro i "nemici" di palazzo, infedeli, sciti, indiani, americani, iraniani o altro secondo la logica per cui "il nemico del mio nemico è mio amico", a condizione che la furia omicida dei fondamentalisti si manifesti all'esterno di chi vi si allei, gruppo di potere, partito, clan, etnia, stato o quant'altro. In caso contrario, l'accordo tra i locali e i combattenti stranieri contro il nemico comune non può funzionare; è stato il caso dell' Iraq dove la follia criminale dei miliziani di Bin Laden si era scatenata anche contro le tribù sunnite fedeli a Saddam che eppure li avevano cercati per lottare contro il comune nemico, il nuovo governo scita di Baghdad (il contributo dato dall'imbecillità politica e psicopatica di Al Zarqawi e del suo gruppo sono una delle ragioni maggiori del successo della surge in Iraq).

Tutto questo costringe gli americani e i loro alleati a un difficilissimo gioco di equilibrio, stretti come sono tra la dichiarazione di guerra al terrorismo internazionale, la lotta contro la minaccia nucleare iraniana, e l'affermazione dello stato di diritto e la difesa della convivenza delle popolazioni sia scite che sunnite in nome della democratizzazione del Medio Oriente. Infatti, una volta capito che Al Qaida è un soggetto terroristico di nuovo tipo, la soluzione per combatterla è rappresentata dallo spezzare le connessioni tra i vari cerchi, tra nucleo e nucleo, adoperando strumenti differenziati e specifici per ogni link, da quelli nella madre patria a quelli esteri. Il compito per gli stati che vogliono la pace non è facile a causa della determinazione e del fanatismo dei militanti islamici, della mancanza di un unico comando militare centralizzato e delle connivenze politiche presenti all'interno di paesi anche amici. Che fare nei confronti del Pakistan? Si può continuare a finanziare uno stato che vede ancora nell'India il suo peggior nemico e che utilizza i talebani nel Kashmir? E dello Yemen, dove il regime, sostenuto dall'Arabia, si serve dei miliziani alqaidisti contro le tribù scite appoggiate dall'Iran? Qual è il male minore? Nodi che la spada gordiana non può risolvere.

Ideologia religiosa, network, a-statualità, connivenze con altri stati. Queste quindi sono le caratteristiche della "base" messa su da quel genio del male che è Bin Laden.

E allora ecco le contro misure, la strategia disegnata da Bush e dalla sua amministrazione a partire da Rumsfeld in cui misure di polizia interne, per la prima volta nella storia americana si è costituito il Ministero degli Interni, si integravano con obiettivi geopolitici, strategici e ideologici in un quadro coerente. In breve: 1) intervenire in Medio Oriente, spezzare i fili tra stati e Al Qaida; 2) spezzare l'alleanza tra popoli sunniti e il network criminale; 3) costruire, dove intervenuti, delle democrazie o per lo meno degli stati di diritto dimostrando che la convivenza tra etnie e fedi diverse è possibile e che anche è possibile una via pacifica nella modernità all'interno della propria tradizione, cioè che è realizzabile uno spazio pubblico per la religione anche in un mondo globalizzato; 4) creare una forte presenza americana in quell'area; 4) circondare l'Iran; 4) proteggere alle spalle Israele; 3) sostenere gli stati del Golfo in un alleanza anti iraniana; 5) garantire la sicurezza dell'approvvigionamento del petrolio e delle vie di comunicazione dal Golfo; 6) sostenere il Pakistan convincendolo a combattere il terrorismo.

E' una strategia complessa e difficile, ma di ampio respiro nonostante le critiche liberal e che Obama, al di là della retorica buonista, non ha smontato, anche perché è arrivato a metà dell'opera compiuta e da cui non è permesso a nessuno retrocedere, pena una sconfitta epocale.

La difficoltà è rappresentata nel calibrare l'azione quando si arriva a dover agire in situazioni caotiche come quella afghana e pakistana. Qui infatti si hanno intrecci veramente complicati: insorgenze locali si confondono con malessere sociale, conflitti etnici, equilibri regionali, faziosità governative, determinando una forte instabilità del governo centrale, tutti fattori che creano un ottimo brodo di coltura per Al Qaida. Prendiamo ad esempio il caso del Pakistan dove si contano molteplici attori che si intrecciano tra loro senza soluzione di continuità: settori delle forze armate e dei servizi segreti pakistani ostili agli americani o più ostili ad altri nemici, l'India ad esempio, piuttosto che ad Al Qaida; tribù avverse al governo centrale come i Pashtun; insorgenze locali come i Talebani; gang criminali internazionali che vivono sulla coltivazione e sul traffico d'oppio, e sul contrabbando.

E' ovvio che in questo contesto i miliziani di Al Qaida si muovano a loro agio come pesci nell'acqua, basta loro allearsi, di momento in momento, con un qualsiasi elemento contro il nemico di questi: una volta l' India, un'altra il corrotto governo centrale pakistano o afghano, oppure contro la fortissima minoranza scita o il nemico iraniano o gli odiati infedeli ecc. E non importa certo trovare una coerenza d'azione, tanto gli alleati sono sempre diversi, né utilizzare sempre il terrore, a volte basta punire un funzionario corrotto.

martedì 22 dicembre 2009

Pietro De Marco, “Amico/nemico e sociétés de pensée . Tra il Caimano e l’orgia.”

Contro il giacobinismo, l'azionismo snob di Repubblica e il giustizialismo straccione di Di Pietro, contro le anime candide del PD, una perla dell'amico Pietro De Marco, pubblicato sul Foglio del 17 dicembre 2009.

"Silvio Berlusconi come "un pericolo e un cattivo esempio", punto d'approdo internazionale (Financial Times del 27 maggio) di una prolungata colluttazione con l'homo novus dell'Italia repubblicana, è una formula moderata a confronto con la cosa Berlusconi,
"una cosa que da fiestas, organiza orgías y manda [comanda] en un país llamado Italia", sparata dal Nobel Saramago sulle pagine del País del 6 giugno scorso, o col Berlusconi come Putin (capobanda, boss) da cui deriva che 'gli italiani [sono] come i russi', succubi, clientes e sudditi di boss, scagliato da Barbara Spinelli da La Stampa del 31 maggio.

Un pericolo e una malattia, comunque. Repubblica sostiene quasi quotidianamente, da anni, che Qualcuno mette mina le istituzioni, anzi il sistema democratico. Scelgo tra i miei ritagli un bouquet di citazioni archetipiche, esemplari dell'effervescenza del lessico politico, da anni. Siamo a metà aprile 2006. Pirani evoca "la devastazione istituzionale apportata da Berlusconi", e incastona una delle tante perle di Gustavo Zagrebelsky: " [La cultura altra da noi, quella del berlusconismo] non è democrazia ma è demagogia, un regime insidioso che si nasconde sotto apparenze ingannevoli". Il "ritorno alla normalità" richiederà prima o poi, coerentemente, la deberlusconizzazione.

La coazione a metaforizzare su Berlusconi e sull'anima della sua "base sociale" ricorda lo stupore dei teologi di fronte all'indiano americano dopo la Scoperta. Non se ne aveva notizia precedente. Difficile attribuire loro il genus umano. Erano destinati alla Salvezza? Lo stesso richiamo, da parte dell'intelligencija, all'unità di tutti non può non presupporre una rieducazione, se possibile, di questa massa damnata; mentre chiede l'eliminazione dell'indecifrabile monstrum. "S'ingigantisce ripetendo due o tre mosse elementari (agguato, scatto delle mascelle, digestione); la sua forza sta nel non pensare: il pensiero semina dubbi; lui punto diritto alla preda e l'inghiotte. I suoi quadri mentali ignorano l'Altro; siamo bestiame umano; perciò irrompe a testa bassa contro le categorie politiche, morali, estetiche (…)", aveva scritto Franco Cordero (Repubblica 24.3.2006).

Lo rivelava anche il singolare comparatismo di Pirani (Il bluff del Cavaliere, Repubblica 14.4.2006). Come opera Berlusconi di fronte alla mancata vittoria? "La tensione parossistica che sta imponendo alle istituzioni fanno pensare allo stato d'animo tra il rivoltoso, l'insultante e il disperato dei fedeli di San Gennaro quando il "miracolo" non si compie e il sangue non si liquefa". Sintomatica, davvero, l'alienità dei devoti agli occhi l'illuminista; perfetta nel confermare l'alienità di Berlusconi per lui.

Ma non siamo di fronte ad un comportamento simmetrico delle parti? Vi è una distinzione netta da fare, aiutati da questi pochi esempi. La stessa "tensione parossistica" (e perché no?) e la individuazione dell'avversario politico esibita dal Premier sono tutt'altra cosa dalla costruzione del Nemico come Male, come essere repellente da odiare. Altro è far pesare sull'avversario una legittima, radicale diffidenza per la sua genealogia politica e ideologica, per il potenziale eversivo (politico, etico e di cultura) ch'esso porta con sé; magari sulla scorta delle diagnosi di Augusto Del Noce e di Gianni Baget Bozzo. Altro è ciò che la gnosi affabulatoria delle sociétés de pensée ha evocato, e indotto nell'opinione pubblica, contro il premier, le sue televisioni, i suoi atti, i suoi uomini (fino alla censura sprezzante contro gli "atei devoti"): l'iniquità del Nemico e del suo popolo, la loro sottoumanità, da temere e da irridere.

Ma la société di Repubblica resta più serena del suo pubblico. Sa di sapere. Per ogni intelligencija gnostica, come per l'ortodossia gnostica antica, quella valentiniana ad esempio nella testimonianza di s. Ireneo, la "sostanza ilica [yliké, da yle materia] per necessità è destinata alla distruzione, perché non può accogliere alcun soffio di incorruttibilità". La société illuminata prevarrà.

L'immaginario dei diversi popoli di sinistra è animato, dunque, da una discriminazione secondo il valore: gli uomini del centrodestra sono Nemico personale, morale, non hostis pubblico. Carl Schmitt distingueva rigorosamente i due livelli; lo dimentica chi depreca la logica Amico/Nemico. Ma Schmitt aveva pronosticato l'eventualità del loro collasso in un unico conflitto fino all'annientamento. La vulgata antiberlusconiana, colta e di piazza, corrisponde pienamente alla moderna deriva analizzata da un celebre passo della Teoria del partigiano (1962): "Armi extraconvenzionali presuppongono uomini extraconvenzionali. L'estremo pericolo [per il mondo; qui, diremmo analogicamente, per una società civile p.d.m.] risiede nella ineluttabilità di un obbligo morale [al conflitto]. Gli uomini che adoperano simili mezzi contro altri uomini devono bollare la parte avversa come criminale e disumana, come un non-valore assoluto, altrimenti sarebbero essi stessi criminali e mostri. La logica di valore e disvalore dispiega tutta la sua devastatrice consequenzialità e obbliga a creare sempre nuove e più profonde discriminazioni, criminalizzazioni e svalorizzazioni, fino all'annientamento di ogni vita indegna di esistere" . Questa è la diagnosi esatta della logica dei lunghi anni di lotta dell'intelligencija contro il Caimano; perciò rappresentato, da Franco Cordero, come una non umana macchina predatrice.

Dualismo gnostico – a piena conferma del celebre teorema di Eric Voegelin - che divulga il mito di una presenza che ha contaminato il Paese o, semplice variante, che si è fatta espressione della sua contaminazione. Hans Jonas sottolineava nello gnostico l'esperienza dell'estraneità, anzi della frattura, col Mondo. In effetti l'intelligencija ha vissuto con angoscia la storia dell'ultimo quindicennio politico come rivelazione di un universo alieno, sotto la legge di un demiurgo inferiore, cieco e malevolente.

L'odio dell'intelligencija alla persona del Premier è tutt'altro dalla avversione politica dei liberali-conservatori per la metamorfosi del "comunismo"; è odio ontologico. In quell'odio il Nemico è persino meno concreto della esaltazione contro di lui: "l'annientamento (…) non si rivolge più contro un nemico [in senso tecnico] ma è ormai al servizio solo di una presunta affermazione oggettiva dei valori più alti (…). [Diviene] l'opera di annientamento condotta da un'inimicizia assoluta" (Teoria del partigiano, Adelphi, 2005, pp.130-131; cfr. id., Il Saggiatore, 1981, p. 75; versione riveduta).

Per questa ragione anche il compatto orizzonte o reticolo degli "argomenti"
prodotti contro il premier e il suo governo, personale e istituzionale, da parte degli oppositori deve essere considerato un arsenale bellico, ed anche efficace, come mostrano i suoi risultati sul bersaglio. Non vi è parola di opposizione (salvo poche e di poche persone) che non sia full metal jaket, assemblata e rinforzata come per essere "sparata dalla canna di un fucile". È la formula di un grande storico contemporaneo delle idee politiche, John Pocock.

A proposito di linguaggio politico e di paradigmi scriveva Pocock, diversi anni fa: "Le [sue] parole divengono paradigmatiche, nel senso che possono venir usate da più d'uno per trasmettere più d'un contenuto o imprimere loro un 'taglio', e la comunicazione sociale diventa una sorta di partita a tennis, in cui mi è permesso di importi la mia palla 'tagliata' a condizione che tu possa imprimere il tuo 'taglio' nel rimandarmela. (…). Ma può capitare che venga sparata dalla canna di un fucile una palla in nessun senso rimandabile. Vale a dire: inviarmi una comunicazione a cui non posso assolutamente imprimere quanto voglio dire nel rilanciarla significa inviarmene una cui, di fatto, mi è proibito rispondere, dato che mi viene proibito di fare qualsiasi comunicazione negli stessi termini" (J. Pocock, Politica, linguaggio e storia, Comunità, 1990, pp.100-101; versione riveduta).

Da un documento delle micidiali scaramucce di un ciclo politico fa: "Forse solo Berlusconi non è un ex, perché è senza passato, vale a dire senza storia. Disgraziato quel popolo che, sperduto nella sua storia, se la 'lifta'. Una storia 'liftata' è piattezza, è storia decerebrata, perché è uguale a se stessa in qualsiasi punto" (Francesco Merlo, Repubblica, 6.2.2004). Ove basterebbero l'idea insensata che un leader che non proviene dalla politica sia un "senza storia", e la battuta che il suo lifting non possa non "decerebrare" la storia in cui opera, per misurare il degrado delle migliori intelligenze una volta arruolate in una intelligencija e militarizzate nella guerra delle parole.


 

Sociétés de pensée


 

Si ripete frequentemente che la decostruzione della persona del Premier è l'unica azione politica che le opposizioni siano riuscite e riescano ad esercitare. Perché? Direi, in virtù di due fattori.

Il primo è in realtà un vincolo, costituito dal dato che la persona privata (l'imprenditore è in sé figura privata, ovvero della società civile) di Silvio Berlusconi è stata e resta il solo terreno obiettivamente praticabile per opposizioni senza unità e senza idee di governo, se non inattuabili o autodistruttive delle alleanze stesse, o elementari o desuete. Il secondo, che qui interessa di più, è costituito invece da una grande risorsa endogena delle sinistre: la lunga esperienza strategica e tattica dell'intelligencija 'illuminata' nel patetizzare la congiuntura storica e 'demonizzare' (parola recente e inflazionata che non amo, ma che è qui tollerabile) l'avversario.

Si può riconoscere, guardando con attenzione, nella mobilitazione dell'intelligencija una convergenza di spontaneità e di calcolo strategico. Una "regìa" di medio raggio, fin dove arrivano i media e la rete dei blog, collega la dimensione spontanea con quella indotta, i sentimenti con "le parole per dirli", ed integra il "fatto" col connotato deturpante, fingendo presso l'opinione pubblica la negatività ultima di ogni evento e tratto del leader. La rete porta questa 'finzione' lontano e ovunque, anche nelle coscienze dove ossessione e delirio sono pronte a prendere corpo, il suo corpo.

Ma è una regìa sui generis. Quanto la reticolarità antiberlusconiana avesse eventualmente di complottistico sarebbe meno importante di quanto è riconducibile con certezza al mécanisme diffuso e pubblico. Intendo dire che l'aggressione al Premier, in corso da tre lustri, conferma l'evocazione, sulla scena italiana, di sociétés de pensée, della loro capacità di modellare come un'arma l' opinion sociale, di iterare attacchi da tutte le posizioni conquistate purché questa loro creatura (l'opinion) non venga intaccata dal dubbio e persista nella propria opposizione al Pouvoir.

E' nota (anche Sergio Romano vi dedicò anni fa attenzione) la figura storica delle sociétés de pensée, ovvero di quella formazione che moltiplica e collega tra loro congiunturalmente gli intellettuali "critici", un tempo semplicemente gli alfabetizzati, insomma l'intelligencija più difforme, nella espressione anzitutto retorica e libellistica dell'opposizione al Sovrano. Le sociétés de pensée furono denominate e studiate nel corso del primo decennio del Novecento da Augustin Cochin, il giovane storico (e quale storico!) cattolico antirepubblicano, che ha reso possibile come pochi altri la nostra attuale libertà nei confronti del mito rivoluzionario francese.

Scriveva Cochin,prima della Grande Guerra, sotto la duplice esperienza della ricerca storica e dell'osservazione dell'intelligencija contemporanea: "le sociétés [de pensée] creano una République ideale ai margini della vera, un piccolo stato ad immagine del grande, con l'unica differenza che non è reale. Le decisioni prese sono solo auspici [voeux], e (dato fondamentale) i suoi membri non hanno personale interesse né responsabilità riguardo alle questioni [affaires] di cui parlano".

Le sociétés, questo potere nuovo, fondano, scriveva Cochin, "un'ortodossia di nuovo genere, [in cui] la 'conformità' , la 'regolarità' si distinguono dalle antiche per il fatto di non ammettere misure, gradi, quali lo scarto tra lettera e spirito, tra regola e fatto". Tali regolarità e conformità si esprimono solo "nell'adesione implicita, brutale, a formule cut and dried, come dicono i macellai inglesi, pronte per servire come quarti da salare. [Formule] troppo numerose e definite, in effetti, per permettere, e troppo legate all'attualità per tollerare, la minima discussione (…). Questo furono i cahiers del 1789, capolavori della letteratura cut and dried, analoghi fin nella fraseologia".

È dunque un pessimo sintomo che ciò che resta della "politica" (alta) di opposizione ritenga di lucrare dai risultati distruttivi (non solo di erosione del premier ma di molto altro) ottenuti dalla quotidiana incriminazione e dis-umanizzazione del Nemico. Pessimo sintomo che lasci operare l'intelligencija con gli strumenti infamanti e patetizzanti (dall'indignazione alla diffamazione, dal disprezzo all'irrisione falsificante) che essa da sempre usa con slancio perché sono la sua vita stessa, senza supporre di dover scontare politicamente e moralmente questa scissione tra strategia e tattica, o di star già pagando il conto. Scorrendo la produzione degli intellettuali pubblici schierati contro il Caimano, la migliore metafora che viene alla mente per questo affannarsi è la coazione del giocatore alla slot machine. Vi prevale l'immersione onirica che, ancora una volta dopo la kermesse prodotta da tutti gli arcaismi ideologici degli anni Settanta, immunizza la cultura 'illuminata' dall'infetto paese reale, sotto l'apparenza di proteggerlo o vendicarlo.

È necessario che l'opposizione, specialmente la più recente e inesperta, ricordi come operano, sempre anarchicamente, anche in virtù dell'assetto occasionale del loro eloquio "sans dogme ni credo" (Cochin), le sociétés de pensée. Le loro parole, quali che siano, sono tutte 'tagliate' per inibire nel bersaglio la risposta. Nel senso di Pocock, per 'uccidere' il Nemico.

Una grande figura del cattolicesimo francese, e arabista eminente, Louis Massignon, dedicò nel 1955 un saggio alla difesa della memoria di Maria Antonietta. Giudicando i calunniosi attacchi delle sociétés all'onore della Regina il Massignon coglieva l'essenziale: l'immondizia gettata su di lei ("poursuivant à la fois son déshonneur et sa mort") vuole colpire, non importa con quali mezzi, il "testimone convinto del diritto divino della monarchia", ossia – diremmo qui in termini più ampi - la dignità e il fondamento dell'istituto sovrano. In effetti il nemico da sconciare con la calunnia e condurre al patibolo per accelerare la Rigenerazione (della storia, del paese, della sinistra) è sempre il Potere legittimo.

Come uscirne? Non è il Pouvoir a disporre, ordinariamente, della leva per arrestare il meccanismo che lo assedia, anche se ha il diritto, politicamente fondato, di difendersi. Può arrestare il mécanisme (e lo deve) chi in parte lo alimenta
dall'interno e si illude di fruirne, se non altro in termini di vantaggio occasionale ("intanto lasciamogli distruggere Lui"). Spetta al cieco fruitore contingente rimuovere il mécanisme, assumendo finalmente la "normalità" delle proprie sconfitte passate e future (tutt'ora non accettate razionalmente), e la "normalità" di Silvio Berlusconi. O lo stesso mécanisme,
costituito nel più classico dei modi, su pretese di Verità, Libertà, Giustizia e Virtù, giunto al suo esito distruttivo, impedirà a chiunque altro di governare. L'ascesa del "partito giustizialista" di Antonio Di Pietro, a danno degli eredi del PCI, è un'anticipazione premonitrice di questo esito."

venerdì 18 dicembre 2009

In questo numero…. Iran, Libano, Afghanistan, Pakistan, Israele e Stati Uniti

Iran

Tehran ha annunciato che il suo primo impianto nucleare presso la città di Busher ha passato con successo i test di collaudo e, nei prossimi mesi, dovrebbe iniziare la produzione. La notizia è stata diffusa alla tv iraniana da Ali Akbar Salehi a capo dell' Atomic Energy Organization of Iran (AEOI). Uno dei fatti più inquietanti è che al programma nucleare collaborano esperti russi, per la gravità della notizia riportiamo la citazione: "Everything is being done well, now 2500 Russian experts

are working inside the power plant and Iranians will receive good news about

the facility soon."

Secondo documenti forniti dai servizi segreti di un non meglio paese asiatico e resi noti dalla rivista Time, l'Iran sarebbe già molto vicina a testare il componente finale della bomba atomica.

Dall' Iran ci giunge un'altra notizia bellicosa. E' stata collaudata la nuova versione del missile Sejil-2; il ministro della difesa Ahmad Vahidi ha dichiarato: "E' impossibile che un razzo anti missile lo possa distruggere".

Un rapporto dei servizi segreti americani sostiene inoltre che l'Iran ha raggiunto la capacità di bloccare lo stretto di Hormuz da dove passa molto del petrolio prodotto nell'area.

Christian Science Monitor, commentando la posizione di Obama riguardo all'Iran, sostiene che la corsa agli armamenti degli ayatollah se da un lato è un'evidente rifiuto al dialogo proposto dal presidente americano, allo stesso tempo gli fornisce la forza morale e politica di chiedere sanzioni alla comunità internazionale.

Secondo il generale Petraeus, il presidente iraniano Ahmadinejad è stato, nel corso di questi anni, il migliore ufficiale reclutatore per gli sforzi americani di partner affidabili tra gli stati arabi. "La retorica di Ahmadinejad sta creando un profondo allarme tra gli stati della regione".

Libano

Nonostante la tranquillità della situazione ai confini tra Israele e Libano, Hezbollah continua ad armarsi e a prepararsi alla guerra. Michael Rubin afferma: "All'Amministrazione Obama piacerebbe spostare la Siria nel campo dei paesi arabi moderati, ma vi sono scarse possibilità che Damasco voglia smettere di aiutare le organizzazioni terroristiche. Come l'Iran, la Siria rimane una forza destabilizzante e pericolosa nella regione".


 

Afghanistan

I canadesi stanno facendo sforzi pesanti in Afghanistan e pagano caro questo loro impegno (ben 133 morti dall'inizio del conflitto). Da esperti delle missioni di peace building e seri conoscitori del paese, sollevano qualche dubbio, da annotare con attenzione, sull'efficacia di funzionamento della surge senza un adeguato intervento economico viste le condizioni disastrose in cui versa la vita civile in quel paese martoriato da quasi trenta anni di guerre.


 

Pakistan

David Ignatius afferma che per la prima volta nella storia il Pakistan ha l'occasione di prendere il controllo delle aeree tribali al nord, fino adesso solo nominalmente sotto la sua sovranità. Il commentatore sottolinea con ragione come sia necessaria una grande idea strategica che tenga unite la missione afghana e pakistana. Scartata sembrerebbe l'altra ipotesi, diametralmente opposta, dell'indipendenza e unificazione delle aeree pashtun a cavallo tra i due paesi.


 

USAIn occasione degli incontri di Oslo sull'ambiente, si può dare una scorsa ai documenti americani riguardo il protocollo di Kyoto che sono stati ora pubblicati dall'Archivio di Stato americano e confrontare così le posizioni di Obama con quelle di Clinton del 1997:"un senso di deja vu".

Israele

L'amico Costantino Pistilli ci segnala un video giochi (non vi fate scoraggiare dalla prima videata del sito) divertente per capire un questione seria: cosa significhi per Israele stare sotto la minaccia continua di missili da Gaza e dal Libano.

lunedì 14 dicembre 2009

Obama, Oslo e Kabul

E' iniziata la riconquista dell'Afghanistan. Da alcuni giorni 900 marines e 150 soldati afghnani hanno iniziato a combattere per rioccupare la città oramai fantasma di Now Zad che era stata invasa da gruppi da talebani armati. Il capoluogo da alcuni mesi era in mano ai fondamentalisti islamici che avevano scacciato la popolazione dalle loro case; resisteva solo una piccola guarnigione di marines, circa 150 uomini, in un angolo di periferia. Niente di meglio quindi dei fatti per commentare le linee di politica estera, la guerra al terrore e l'azione americana in Medio Oriente ed Asia centrale, o "Grande Medio Oriente", intraprese dal presidente Obama.

Azioni e parole formano il migliore mix di ingredienti per giudicare l'agire di ogni attore e in modo particolare un leader politico. In pochi giorni il presidente americano ha tenuto due importanti discorsi, il primo a West Point per spiegare i motivi dell'impegno in Afghanistan e il secondo a Oslo dove doveva giustificare di aver ricevuto, lui presidente di un paese in guerra, il Nobel preventivo per la pace. In entrambi i casi, i discorsi doveva muoversi tra due contraddizioni: la prima tra necessità di impegnarsi a Kabul (perché comunque da quella guerra, definita "giusta e necessaria", gli Stati Uniti non si possono ritirare, salvo dare ad Al Qaida una base, squilibrare di nuovo l'Asia e, motivo più importante tra tutti, perdere la faccia, prestigio e credibilità davanti a tutta la comunità internazionale) e opportunità di rassicurare l'opinione pubblica interna dichiarando che questo ulteriore sforzo non fosse a tempo indeterminato. Nel secondo intervento, davanti al re di Norvegia, Obama ha dovuto fornire invece motivazioni razionali al fatto di essere il primo capo di stato a ricevere un premio Nobel nel momento in cui rafforzava l'impegno di guerra. E il risultato è stato straniante. Davanti ai cadetti della celebre accademia, futuri comandanti dell'esercito,, il discorso è risultato debole, tutto segnato dal voler piacere troppo, senza disegni di ampi orizzonti e con un madornale errore strategico: l'aver fissato in anticipo la data del ritiro senza dichiarare le condizioni dello stesso. A Oslo, invece con una platea di pubblico unito da sentimnenti sicuramente pacifisti, si è assistito ad un capovolgimento e ribilanciamento della situazione. Obama infatti si è ricollegato alla tradizione storica americana che unisce liberalismo e morale secondo la migliore tradizione wilsoniana. Nel mondo c'è il male e va fermato anche con le armi; gli Stati Uniti faranno di tutto per aiutare e sostenere i popoli che lottano per la libertà. Messaggio semplice chiaro e, obtorto collo, dai tratti neocon. Obama, maschera moderna dello spettacolo politico con l'unica visione del consenso come fine dell'azione, adesso si trova in una strana posizione, stretto tra l'impietosa e dura forza reale delle cose e la sua visione salvifica delle parole "buone".

venerdì 11 dicembre 2009

Affari internazionali e specialmente afghani

USA-Afghanistan

Si registra sempre di più una notevole stanchezza dell'opinione pubblica americana riguardo la guerra; andamento interno che contrasta con il ruolo di garante dell'ordine mondiale degli Stati Uniti. Di questo i commentatori non possono non tenerne conto quando parlano delle indecisioni di Obama. Un eventuale fallimento in Asia centrale sarebbe una botta incredibile all'autorevolezza USA.

A proposito viene allora la critica sollevata da News Week riguardo alla mancanza di sottolineatura epica nel discorso di Obama alla nazione. E' vero, sembra l'elenco dei buoni propositi, ma la dimensione del tragico, della scelta dolorosa e ineluttabile, manca proprio al presidente e allora come si pretende che ci credano i cittadini?

Ma questo ondeggiamento della politica estera americana tra i due poli, interventismo e isolazionismo, è un classico della storia del paese e adesso, anche grazie alle difficoltà economiche, è il momento della tendenza a non guardare le cose del mondo.

Notevole e stimolante saggio di Paul Rogers, intelligente esperto liberal di questioni di sicurezza internazionale. In questo paper Global Security after the War on Terror
ad opera dell'Oxford Research Group critica l'approccio delle amministrazioni americane alla lotta ad Al Qaida, che va sotto il nome di "guerra al terrore", perché non ha fatto altro che militarizzare il problema innalzando la fama e il prestigio del gruppo terroristico, invece di renderlo marginale in tutte le situazioni attraverso una politica che sapesse tenere un punto di vista generale. Si può dissentire, sembra un'obiezione "benaltrista", ma soprattutto non tiene conto di un importante aspetto geostrategico: che gli americani ora sono presenti in forze in Asia, che l'Iran è in pratica circondato da truppe americane e che in Iraq, dietro Israele, ci sono gli Stati Uniti. Giusto? Sbagliato? Si poteva fare diversamente? Gli Stati Uniti reggeranno allo sforzo? Tutte obiezioni in sé corrette. Si vedrà.

Il generale McCrystal ha testimoniato davanti al Congresso americano dando tutto il suo appoggio al piano di Obama; ha assicurato inoltre che entro 18 mesi i talebani saranno battuti dato che non riscuotono nessuna fiducia dal popolo afghano. "Credo fermamente che noi – il governo afghano con l'aiuto delle forze della coalizione - possiamo sconfiggere I Talebani. Cioè credo che metteremo i Talebani in una posizione da cui non possano minacciare il governo afghano". Queste parole vanno ben meditate: sconfiggere non vuol dire distruggere né annientare il nemico, vuol dire impedirgli di nuocere, di superare una certa soglia di pericolo. Mi sembra di capire quindi che, giustamente, si punti a integrare i Talebani nella vita politica afghana. E sul raggiungimento di questo risultato è basata la previsione del ritiro americano che ha trovato molti critici (qui alcune opinioni riportate dal New York Times).

Giusta la nota di Danielle Pletka sulla non sufficiente determinazione dell'amministrazione americana a sostenere l'altro pilastro fondamentale di ogni guerra di contro insorgenza vincente: la ricostruzione civile. Scarso a questo proposito risulta essere il numero di funzionari civili americano inviato a Kabul.

Asia News nota come nel discorso di Obama manchi completamente ogni riferimento all'Iran e al ruolo del narco traffico in Afghanistan, minaccia di egual gravità dei talebani.

Perché i soldati talebani sono pagati di più di quelli dell'esercito afghano nonostante le valanghe di soldi che affluiscono nelle casse di Karzai?

Ma assieme a notizie poco incoraggianti, dall'Afghanistan arrivano anche informazioni d'altro segno come quella di una protesta di donne contro il governo affinchè sia più forte la lotta contro la corruzione e i crimini di guerra.

Il fatto certo della surge afghana è che la controffensiva americana ricomincerà da Kandhar, il fulcro dell'offensiva talebana e città simbolo dei pashtun. Il test è fondamentale e dal risultato capiremmo se avrà successo la strategia di Mc Crystal basata sul separare la protesta etnica da quella sovversiva dei talebani e entrambe da Al Qaida secondo lo schema messo in opera in Iraq.

Iran

Il presidente Ahmadinejad e il circolo di fedeli attorno a lui sembra ormai sempre più isolato anche all'interno dell'establishment; non a caso i servizi hanno denunciato manovre tra il clero a favore dell'opposizione. La polizia e i miliziani però continuano con i loro atroci metodi repressivi: stupri, torture e ogni tipo di violenza.

Iraq

Dichiarazione importante del leader del partito di ispirazione scita Islamic Supreme Council of Iraq (ISCI), Akim, che ha spiegato come il futuro politico dell'Iraq deve essere indipendente da ogni influenza esterna (chiaramente si riferiva all'Iran) affermando che Baghdad ascolta tutti ma agisce in proprio e non per conto di qualche agente esterno; ha anche aggiunto che l'Iraq aspira a diventare uno stato dove c'è posto per ogni partito nel rispetto della legge.

Turchia

Fino all'avvento al potere del Partito, di ispirazione islamica, per la giustizia e lo sviluppo, la Turchia aveva intessuto legami stretti con l'Europa, gli Stati Uniti e lo stesso Israele. Ora si assiste invece ad un regresso: segno di un trend o solo uno stop di riflessione?

Una prima risposta si può intravedere dall'ottimo andamento dei colloqui tra Obama e il presidente turco Erdogan della settimana scorsa. Molti gli argomenti trattati: Israele, Medio Oriente, Iran, Europa, relazioni commerciali con gli USA. Qui un primo articolo di valutazione del corso della società turca dove si sostiene che l'occidente e specialmente l'Unione Europea devono aiutare quelle tendenze filo integrazione che si stanno muovendo nel paese.

Nonostante le relazioni con Israele adesso non siano proprio alle stelle, la Turchia è seriamente impegnata nella lotta contro il terrorismo e infatti non esista a contrastare le mosse di Hezbollah sul proprio territorio.

Al Qaida

Un recente studio riportato sullo Spiegel mostra come Al Qaida abbia ucciso un numero maggiore di mussulmani che di infedeli occidentali: otto volte tanto! Non solo, ha anche teorizzato la linea della necessità dei danni collaterali.


 

Natale

Se volete vedere le letture consigliate per Natale da un think thank repubblicano, siete serviti: non ci sono solo testi seri, non sono europei politicamente corretti, ma anche libri sul l'arte di fare i cocktail!

mercoledì 9 dicembre 2009

Seconda puntata, diario del 9 dicembre

Guerre ibride

Letto di corsa questo documento sulle guerre ibride: armi tradizionali, ht e ingegno non convenzionale come hezbollah. Soluzione: copiare, copiare, copiare. E poi è sempre stato così: la novità affianca il vecchio non lo sostituisce, il nucleare non elimina la baionetta, in Afghanistan si va ancora a cavallo ma con il pc. Il problema è la comprensione strategica dei fenomeni, come vanno assieme. E non bisogna dimenticarsi che la dottrina non sostituisce né la conoscenza né la phronesis!

Marco Pannella

Letta intervista di Stefano Rolando. Pannella ha vinto, ha perso elettrolalmente ma ha fagocitato il vecchio PCI, senza la cultura radicale del desiderio-diritto e il giacobinismo moralista dei giusti, il PD non sarebbe niente. In Pannella il solito dogma: in Italia le cose vanno male perché è mancata la Riforma! (mentre in Svezia dove c'è stata, vanno bene? E poi che vuol dire? Visione del mondo finalistica e moralista).

9 dicembre 2009

Iran

La rivoluzione iraniana di Khomeini ha due significati che travalicano l'orizzonte asiatico e islamico:

1 E' la prima rivoluzione religiosa del novecento,è post ideologica, segna la fine del secolo breve e il fallimento totale dei due totalitarismi. E' il segno che si può fare i conti con la modernità da un punto di vista che le ideologie pensavano ridotto in cenere: la religione appunto. Ancora però Khomeini è comunista: avanguardie, masse, partito, milizie armate.

2 E' la prima volta che il clero, scita per giunta!, entra direttamente nella modernità per gestire le cose del mondo senza mediazioni politiche e mondane.

Escluse le vette anti storiche di incomprensione delle democrazia come meccanismo di funzionamento sociale e quindi dell'antimodernismo che pensa che sia possibile strare al di fuori, l'Iran lancia una sfida importante e che va compresa.


 

Iran geografico e Iraq

La minaccia iraniana non deriva dalla bomba nucleare. Poca cosa davanti a quelle possedute dall'Occidente e da Israele. La sfida è geopolitica: nessun paese limitrofo vuole l'Iran nuova potenza regionale che affermi la sua esistenza contro Pakistan, Arabia, Israele e Turchia. Molto dipende dall'Iraq da cosa farà la nuova dirigenza scita. Anche la lotta di al Qaida in quelle terre può, in parte, essere spiegata.


 

Jünger

Ora che non è più di moda, né a destra né a sinistra. In "La capanna della vigna" dice molte cose sempre intelligenti. Tra le altre. Una che non sapevo: avevo sempre attribuito l'espressione "guerra civile europea" a Nolte. Invece è sua, diari del 1945-48!

Secondo punto. La vittoria culturale e sociale della sinistra nel mondo, la attribuisce già alla democrazia inglese contro la Francia napoleonica quando afferma il peso differente dei morti per mano del corso in confronto di quelli ad opera di sua maestà britannica. E come si capisce non è il caso di moderno/anti moderno, massone/cattolico, capitale contro proletario ecc. Si tratta di movimenti profondi della storia, se vogliamo di capitalismo vincente contro perdente che comprende anche giacobini, massoni illuministi ecc, insomma più Schmitt e Marx. Il mare contro la terra, il mercato puro contro l'industria, l'isola contro il continente, la flotta contro l'esercito, il dominio della merce astratta sulla comunque radice.

Concetto troppo astratto, filosofia della storia che tutto spiega, per superare la soglia della suggestione (Parigi che perde sempre contro Londra-Washington), ma comunque da non dimenticare.


 

sabato 5 dicembre 2009

Che cosa è la democrazia?

Gentilissimo signor Direttore (si intende Giuliano ferrara),

 
 

fermo restando il "complotto massonico-friulano", l'equivoco in cui cade Pierluigi Battista mi pare clamoroso. 

 
 

Confonde il ditino alzato - nella migliore delle ipotesi - con il quale i soliti democratici rimproverano il popolo quando non la pensa come loro vorrebbero - appunto, non si lascia "illuminare" -, con lo sforzo di chi, a fronte della diversa opinione della maggioranza come nel caso del referendum sull'aborto, cerca di diffondere nel corpo sociale e poi elettorale la propria e alternativa cultura e così far maturare una mentalità nuova.

 
 

I primi fondamentalmente disprezzano il responso delle urne - la storia italiana degli ultimi quindici anni è paradigmatica in tal senso - e la "democrazia quantitativa" o "aritmetica", cui oppongono la democrazia dei contenuti, cioé il loro pensiero, che si afferma e corregge i deliberati del popolo attraverso autorità e istituzioni non elettive. 

 
 

I secondi semplicemente pensano che nessuna maggioranza può legittimare l'uccisione di un innocente, che non si decide a maggioranza il bene e il male, il vero e il falso, il giusto e l'ingiusto, e quindi non cambiano le proprie convinzioni in proposito, ma cercano di farle cambiare alla maggioranza - che così dimostrano di rispettare -, convinti del fatto che la mera imposizione della verità, per quanto tale, socialmente non regge.

 
 

E comunque, non c'è paragone tra il diritto alla vita e la verità sulla persona umana e la possibilità di modificare il paesaggio urbano-culturale costruendo minareti (peraltro inessenziali alla libertà di culto). La seconda questione è tipicamente da maggioranza, e quando questa si esprime, un sincero democratico la rispetta. Evidentemente il presidente della Camera - che invece non ha apprezzato la decisone a maggioranza del popolo svizzero di vietare la costruzione a casa propria di minareti, accusandolo di alimentare il fanatismo religioso, cioè di non essere "illuminato" - ancora non si è del tutto liberato delle sue antiche convinzioni fasciste e antidemocratiche.

 
 

Cordiali saluti

Giovanni Formicola

venerdì 4 dicembre 2009

Che dice Obama?

L'Occidentale 3 dicembre

Dopo tre mesi e mezzo di incontri, seminari, audizioni, il presidente Obama ha finalmente deciso il da farsi accettando per tre quarti la richiesta del generale McCrystal, il comandante delle truppe in Afghanistan: 30.000 soldati, più 4.000 istruttori a cui dovrebbero aggiungersi 5.000 truppe fresche provenienti dagli altri paesi NATO, al posto dei 40.000 richiesti. Il primo scaglione, una brigata di 9.000 uomini, arriverà a Natale mentre gli altri saranno schierati entro sei mesi. Ma questo è solo il primo tassello, l'altro è rappresentato dal rinforzo della polizia e dell'esercito afghano, assieme dovrebbero arrivare a contare, entro la fine del 2010, 134.000 uomini in confronto agli attuali 90.000.

A prima vista quindi il giudizio, anche da parte di chi era scettico sul "temporeggiatore", non può essere che positivo. Anch'ora una volta la realtà, la necessità di governare l'unica super potenza con responsabilità globali, ha prevalso sulla retorica pacifista ad uso e consumo della platea mondiale. Il dovere, e l'impossibilità, di non lasciare a metà il lavoro della lotta ad Al Qaida, della liberazione dell'Afghanistan dai talebani, intrapreso da Bush ha prevalso sulle esigenze di bottega. Il messaggio inviato al mondo intero è stato forte e chiaro: "gli Stati Uniti sono anch'ora in guerra, la lotta contro il fondamentalismo islamico armato è un obiettivo anche di questa amministrazione".

Questo è però soltanto il primo aspetto del discorso, la parte diretta al mondo esterno e a chi in America vede le minacce globali come un obiettivo prioritario da contrastare, ma ve ne è anche una seconda rivolta a rassicurare l'opinione pubblica liberal, il partito democratico, il proprio elettorato, più attenti insomma alle questioni di politica nazionale a partire dall'andamento dell'economia (ogni soldato in Afghanistan costa al contribuente qualcosa come 1 milione di dollari l'anno).

Davanti ai cadetti di West Point, Obama ha anche fissato la data di fine del ritiro, ha fissato a tavolino il momento del ritiro delle truppe, nel luglio 2011; insomma, ha optato per una surge a scadenza prestabilita, con un occhio alla fine del suo mandato. Ma le due parti del discorso non stanno assieme. Nessuno può sapere quando potrà essere la fine dell'azione militare, quando avrà fine la minaccia talebana e al qaidista, tanto più che così facendo si dà ai terroristi la possibilità di organizzarsi per raggiungere un orizzonte temporale preciso da cui riiniziare le azioni, tanto più che il ritiro è fissato per i mesi estivi, quando riprendono più intensi i combattimenti.

Se la preoccupazione del presidente era per l'enorme spesa e sull'influenza sul bilancio americano, l'alternativa in un paese democratico non è quella rappresentata dal nascondere la verità - la crisi afghana - ma di sottoporre la ragion di stato alla verifica dell'elettorato. E' un prezzo che ogni leader di un paese democratico, se vuole essere uno statista, deve essere disposto a pagare, non ci sono alternative; hanno un costo le guerre per legittima difesa e totali, figuriamoci quelle limitate e estenuanti come l'Afghanistan, in questo simile al Vietnam. E' stato così per fino con Churchill, uscito vincitore dalla Seconda Guerra mondiale, e licenziato senza troppi complimenti alle prime elezioni post conflitto; per Truman che lasciò il posto, all'indomani della guerra di Corea, a Eisenhower nonostante avesse fermato l'URSS.

Ora Obama spera che l'invio di più truppe serva a prendere tempo e permetta al governo afghano di riprendere in mano la situazione andando verso quella afghanizzazione del conflitto che fino ad oggi è stato l'obiettivo mancato. Ma ci sono forti dubbi sull'efficacia dell'invio di più soldati se non accompagnato da una nuova strategia vincente. Anch'ora mancano però per lo meno tre pilastri fondamentali di ogni azione vincente di contro insorgenza: l'esistenza di un governo centrale abbastanza forte e legittimo, un esercito e delle forze di sicurezza efficienti, la neutralizzazione dei santuari all'estero. Una delle poche lezioni utili della tragedia algerina fu nella capacità dei francesi di sigillare le frontiere con la Tunisia e con il Marocco attraverso linee fortificate da cui non passarono né armi né guerriglieri.

Il primo punto rimanda alla capacità di contrastare, da parte di Karzai, la corruzione e all'abilità di integrare nel governo i vari signori della guerra  di cui ha comprato la neutralità; il secondo è collegato ampiamente al primo, mentre il tema dei santuari è strettamente connesso al problema Pakistan, al difficile rapporto, anch'ora non risolto, delle sue forze armate con i talebani, quasi tutti di etnia pashtun, un tempo alleati in funzione anti indiana e anti iraniana. Ogni azione di pacificazione in Afghanistan passa quindi dal Pakistan ed entrambi i conflitti vedono al centro i pashtun, prima della vittoria dell'Alleanza del Nord storicamente al potere a Kabul e assolutamente indipendenti in Pakistan. Il conflitto in corso ha ridisegnato la mappa di distribuzione del potere non solo in Afghanistan ma in tutta l'Asia centrale, coinvolgendo Iran, India e Cina, per quel gioco di alleanze per cui "i nemici dei miei nemici sono miei amici".

Quello che insomma manca al discorso obamiano è l'offerta di una visione strategica di ampio respiro e una definizione chiara di quale sia "il centro di gravità del nemico", perché in ogni guerra di contro insorgenza il 90 per centro della soluzione è politico, come recita il manuale strategico elaborato da David Petraeus, comandante di McCrystal. L'unica speranza è che abbia taciuto per opportunità, che la data del ritiro sia un'altra trovata retorica e che questa volta a comando delle truppe americane non c'è, come in Vietnam, il generale Westmoreland, ufficiale di artiglieria, veterano delle battaglie campali contro i tedeschi e addestrato per combattere le truppe sovietiche nella piana di Fulda, ma quel gruppo di ufficiali e strateghi che sono riusciti a levare le gambe dal caos iracheno.

Osservatorio internazionale

Obama speech

Ogni strategia di contro insorgenza per vincere: 1 deve mostrare la volontà di farlo, 2 deve impegnarsi nel soddisfare le richieste di sicurezza della popolazione, 3 deve avere ben chiaro in mente il centro di gravità del nemico. Ora a molti osservatori, compreso al sottoscritto, il Presidente si è dimostrato più sensibile a mostrare l'esistenza di una strategia d'uscita che a tutto il resto. Sperando di sbagliarsi, ci si può consolare leggendo questo discorso di Abraham Lincoln. Ma alcune reazioni sulla stampa americana confermano la nostra impressione mostrando preoccupazioni sulla mancanza di strategia politica di Obama in Afghanistan, la scarsità di riferimenti sul Pakistan, e dicendo poco anche poco sugli aspetti non militari della surge. Comunque noi europei dobbiamo solo stare in silenzio.

L'ultimo numero di TerrorismoMonitor della Jamestown Foundation è per la maggior parte dedicato all'Afghanistan e al Pakistan. Inizia, però, con una notizia che non ha trovato nessun eco sulla stampa italiana: un video tape prodotto da al-Malahim, una sorta di ufficio stampa e propaganda di Al Qaida che agisce nella penisola arabica. Mostra l'esecuzione di un ufficiale dei servizi segreti yemenita impegnati laggiù a combattere gli affiliati di Bin Laden e la dice lunga sulle capacità di quel gruppo di colpire a piacimento e suona come ammonimento al governo yemenita a collaborare con gli Stati Uniti nella lotta contro Al Qaida. Lo Yemen è particolarmente nell'occhio del ciclone da questa estate, quando si sono riaccese le ostilità tra le tribù scite e il governo centrale sunnita e il conflitto si è subito internazionalizzato, con l'Iran in appoggio ai ribelli e l'Arabia corsa in aiuto allo Yemen.

Il secondo pezzo, tornando alla crisi dell'AfPak, riporta un intervista al leader indipendentista del Balochistan, la più ampia provincia del Pakistan con capoluogo Quetta. Il fatto interessante è l'intervistato è a capo di un movimento armato secolarista di ispirazione marxista e mostra bene il caos al di là dell'immaginabile che regna in Pakistan. Ma ultimamente in quella provincia, con il 42% di territorio la più grande del paese, sono apparse anche bande di talebani e di Al Qaida a dimostrazione come la crisi afghana si sia allargata a macchia d'olio in tutta l'area; la preoccupazione del governo è che l'intensificarsi dell'azione americana nel sud dell'Afghanistan, dove è destinata la maggioranza dei 30000 soldati, spinga gli insorti ad allargarsi verso quella zona, destabilizzandola completamente e saldandosi alla rivolta locale. Il secondo elemento di inquietudine è il fatto che il Balochistan è una via di scorrimento nonché d'azione dei trafficanti d'oppio, e della criminalità organizzata ad essi legata, che potrebbero anch'essi creare dei problemi se si sentissero minacciati nei loro traffici; il terzo fattore di destabilizzazione è rappresentato dal numero di rifugiati afghani, fuggiti dalla guerra sovietica, in Pakistan che ospita uno dei più alti numeri di profughi al mondo, circa 1.800.000, in maggioranza pashtun e proprio nel Belochistan. Insomma, un'altra polveriera. Sulla situazione profughi in Pakistan, si può leggere questo report, con annessa cartina, dell'Agenzia dell'Onu. In questo senso è vero che la strategia americana va valutata complessivamente e quindi significativi sono anche altre azioni oltre al discorso a West Point, come il voto al Congresso in favore dell'incremento di aiuti civili al Pakistan per ben sette miliardi e mezzo di dollari.

Il terzo articolo è un report sulle azioni intraprese dall'esercito pakistano contro i talebani nel nord del paese, nel sud Waziristan, iniziate il 17 ottobre, che sono la prosecuzione dell'altra campagna dell'aprile- maggio di quest'anno nello Swat. L'operazione ha segnato un successo notevole nell'affrontare gli estremisti islamici. Sembra anche che la filosofia dell'iniziativa pakistana sia caratterizzata da una logica di contro insorgenza mirata a proteggere la popolazione civile, secondo la celebre definizione di "clear, hold and build" e non solo a cacciare e distruggere il nemico militarmente. Tutto ciò mostrerebbe le nuove capacità dell'esercito di quel paese, storicamente concepito per affrontare il tradizionale nemico indiano, a sostenere una guerra di contro insorgenza, cambiamento avvenuto grazie all'aiuto americano; gli Stati Uniti infatti hanno appoggiato tutta l'operazione anche con aviazione e con l'intelligence. Non solo, l'articolo sottolinea anche il supporto della popolazione alle truppe pakistane, ma solo nei prossimi mesi si potrà dire se veramente il governo di Karachi sarà in grado di dimostrarsi all'altezza delle promesse di ricostruzione delle strutture civili, a cominciare al punto determinante e critico: il ritorno delle popolazioni sfollate a causa della guerra.

Prima di lasciare il tema caldo del giorno, ecco l'ultimo report dell'Istitute for the Study of War sulla campagna dell'aprile di questo anno condotta dai reparti afghani nella zona di Kandahr contro i talebani e i trafficanti d'oppio ad esse alleati.


 

Hezbollah

Il Libano è tornato alla ribalta da noi solo per la discussione sulla riconferma del generale italiano a capo della missione UNIFIL. Ma qualcosa di notevole e grave sta succedendo. Hezbollah si sta riarmando e, a causa proprio della presenza contingente italiano, sta aggiornando la sua strategia, in vista di un futuro scontro con Israele. All'inizio di novembre a largo delle coste libanesi fu fermata dalle vedette israeliane un cargo che trasportava un enorme carico d'armi destinato a hezbollah: la linea di resistenza contro eventuali rappresaglie di Tel Aviv è spostata dal confine ai villaggi più a nord, sempre più fortificati e trasformati in vere e propri bunker. Allo stesso tempo, il movimento scita libanese ha anche aggiornato la sua carta fondativa, del 1985, con una importante novità, la rinuncia all'aspirazione di un Libano islamico a causa dell'alleanza con i partiti cristiani, e la conferma dell'ostilità armata verso Israele.

martedì 1 dicembre 2009

Notizie dal mondo. Afghanistan, USA e altro

Stasera Obama esporrà le su decisioni sull'Afghanistan. In questi giorni ha cercato aiuto in Europa che come al solito fa poco: bella contraddizione! Il presidente americano più amato dall'Europa che fa meno per il Vecchio Continente e guarda alla Cina e allo stesso tempo non riceve se non scarso aiuto dai suoi alleati Nato, Sarkozy in testa che gli ha risposto con un secco no all'aumento delle truppe.

L'America invierà 30-35 mila soldati: su 110 mila 70-75 sono americani. Il fine settimana Clinton, Mc Crystal, e l'inviato speciale per l'Afghanistan saranno a Bruxelles a convincere i ministri della difesa NATO.

I soldati saranno dislocati nella provincia di Helmand e a Kandhar per mettere in sicurezza la città quasi tutta sotto controllo talebano.

Non c'è dubbio che non si possa far altro che inviare le truppe, che una strategia antiterrorismo da sola non potrebbe funzionare visto il livello bassissimo delle truppe afghane. Gli afghani non vogliono i talebani ma appoggiano anche chi vince!

Comunque sia, questo invio di soldati in Afghanistan non è come la surge irachena, quella era un'azione complessa dove all'invio di soldati si accompagnavano azioni politiche di ampio respiro, qui siamo solo sul piano militare. Poco? abbastanza? Si vedrà.

Obama ha offerto al Pakistan un ruolo di primo piano come alleato USA. Al Qaida per l'intelligence USA ha potenti basi laggiù.

Che succede se le cose vanno male? Un'esplosione della guerra civile tra talebani e alleanza del Nord appoggiata dalla Nato. E in Pakistan?

Il costo di un soldato americano in Afghanistan è di circa 1 milione di dollari l'anno!

Non paragonate l'Afghanistan al Vietnam. Le analogie storiche sono utili solo per un minuto.

In settembre una lettera firmata da molti intellettuali ed esperti di questioni internazionali a favore della posizione di Mc Crystal.

La lista dei 100 più importanti cervelli nel mondo

Che succede all'economia mondiale se gli Stati Uniti vengono travolti dalla crisi fiscale? Nial Ferguson su News Week.

Un soldato in Afghanistan: 1 milione di dollari all'anno!

WPR Article | The New Rules: The Bottom Line on Nation-Building

domenica 29 novembre 2009

Afganistan, l’Iraq e la surge

Uno degli argomenti preferiti dei fautori della tesi di McCrystal sull'invio di soldati a Kabul è il ricorso alla surge irachena ideata da Petraeus.

Come sempre vi è chi è più realista del re. I coniugi Kagan riescono a parlare del successo iracheno senza menzionare una sola volta due dei per lo meno tre condizioni che hanno permesso quell'ottima riuscita:

1 la formazione di squadre di autodifesa sunnite espressione di una rivolta tribale contro Al Qaida e della rottura dell'asse partigiani filo Saddam e di AlQaida (circa 90.000) uomini,

2 la tregua tra i miliziani sciti capeggiati da Motqada al Sadr e gli americani mediata tra il governo iracheno con l'aiuto di Theran.

Ora io non capisco perché raccontare balle. La situazione in Afghanistan è seria, non si sa come andrà a finire né se il governo di Karzai terrà e si conquisterà la legittimità che ora gli manca

Quello che è chiaro, dall'osservatorio sotto Fiesole, è che una azione di contro insorgenza non può essere vittoriosa se

1 non ha un chiaro obiettivo politico, possibile e condivisibile;

2 non esiste un governo che riscuota il consenso della popolazione.

Quindi il problema in Afghanistan si chiama Karzai e Pashtun emarginati dal governo per la prima volta nella storia del paese e ora anche minacciati dalla rozza azione di guerra Pakistan.

Insomma sono d'accordo con March Lynch.


 

sabato 28 novembre 2009

Anch'ora non ho letto tutto il pezzo ma mi sembra estremamente interessante: che senso ha in Afghanistan sforzarsi di mandare le ragazze a scuola se poi diventano bersaglio dei talebani? Se nessuno le protegge, mi sembra di leggere le storie sulla mafia e sulle vittime lasciate sole…

venerdì 27 novembre 2009

Obama davanti alla crisi afghana

A questo punto sembra imminente la decisione di Obama riguardo alla richiesta di Mc Cystal: 30.000 soldati americani e 10.000 degli altri alleati Nato.

E' una decisione importante; il presidente americano deve tenere assieme diversi e contraddittori fattori. La caduta verticale di consenso tra l'opinione pubblica rispetto all'impegno bellico; l'aumento delle vittime militari; la corruzione (si veda anche questa intervista a Kilcullen sul ciclo economico di questa forma illegale di economia; comunque l'Afghanistan è al secondo posto nella classifica mondiale della corruzione) e la debolezza di rappresentatività del governo di Karzai; il numero altissimo delle diserzioni tra l'esercito afghano (un soldato su quattro se ne va prima che sia finita la ferma regolare) e la mancanza di professionalità della polizia; la difficile situazione nelle aree tribali e nel Waziristan nel nord del Pakistan dove un impreparato esercito, pronto per affrontare il nemico indiano, si trova a combattere un nemico irregolare come i talebani con cui, per altro, ha sempre tenuto, e al di là delle apparenze tutt'ora tiene, rapporti ambigui se non stretti. Il risultato è che i talebani hanno cambiato tattica e affrontato le scarse forze pakistane, poco meno di 20.000 uomini combattenti, con altrettanti guerriglieri (quando il rapporto in una azione di contro insorgenza è di per lo meno di 4:1) che intensificano gli attacchi, mentre il Pakistan è sempre più preoccupato che questo impegno militare contro il nuovo nemico possa essere utilizzato dal suo storico rivale indiano. L'ultimo problema, se non il peggiore poco ci manca, è che, in questo caos, Al Qaida sta riallacciando rapporti con i talebani proprio ai confini tra i due paesi rafforzando militarmente il fronte nazionalista pashtun. Da notare il modo d'azione "leninista" dell'organizzazione islamica che cerca di collegare motivi locali o nazionali di malcontento, che non trovano soddisfazione, a obiettivi rivoluzionari, in questo caso jahdisti.

Situazione difficile, al di là dei facili partiti, il nodo da sciogliere è realmente complesso, perché una cosa è chiara, dall'Afghanistan gli Stati Uniti, gli alleati, la Nato, non si possono ritirare ; noi non possiamo andarcene. Ma è anche chiaro che rimanere è possibile se ridefiniamo completamente obiettivi politico - militari e ci dotiamo di una strategia conseguente. E allora una è la questione centrale, che cosa definiamo con "vittoria", fino a quando le truppe staranno sui monti alle pendici dell'Himalaya?

Innanzitutto, anche se Obama optasse, come consigliato dal suo ministro della difesa, per un impegno leggero basato su aviazione e azioni di commandos e truppe speciali in funzione anti Al Qaida, sul suolo afghano rimarrebbero decine di migliaia di soldati. C'è la base aerea di Bagram vicino Kabul dove sono stanziati circa 20.000 soldati, "il pernio di ogni azione in Asia centrale" come ha dichiarato il generale Fallon; poi vi è la base di Kandhar con 20.000 uomini e molte altre anch'ora.

Ora, domande e risposte sulla crisi afghana a favore della richiesta di McCrystal.

  1. "Perché appoggiare il corrotto e debole Karzai eletto tramite votazioni fraudolente?"

    Era così anche in Iraq; Maliki prima della surge era visto da tutti, dico tutti, gli osservatori come incapace e strumento degli iraniani. Quando è passato il pericolo stragista di Al Qaida e il governo centrale si è potuto rafforzare, la situazione è migliorata (Los Angeles Times) e Maliki è adesso un autorevole primo ministro.

  2. "L'Afghanistan è un paese essenzialmente tribale e quindi non può funzionare una strategia di contro insorgenza".

    Max Boot su Commentary afferma che, comunque sia, nel corso dei secoli si è costituita un'identità nazionale afghana; semmai, aggiungo io, il problema è che il paese è da quasi trenta anni coinvolto in guerre che hanno pesantemente intaccato forme di vita civili complesse.

  3. "Al Qaida è il vero nemico, perché impegnarsi contro i Talebani?"

    "Al Qaida non esiste in un vacuum come la Spectre di James Bond", questa è la metafora usata dai coniugi Kagan su Weekly Standard. L'obiettivo di al Qaida è duplice: instaurare il califfato mondiale a partire da santuari locali. Al Qaida fornisce know how forniture militari e ideologia alle formazioni locali autonome che a loro volta ricambiano ospitandoli.

  4. "Perché non è possibile sconfiggere i talebani con una guerra di contro insorgenza leggera con droni e quant'altro?"

    Per due motivi. Il primo è stato detto sopra: i talebani controllano ampie zone del territorio dove i seguaci di Bin Laden stanno già intrattenendo buoni rapporti; il secondo, nota de sottoscritto, è che comunque gli americani hanno abbastanza truppe per essere responsabili di quello che succede, ma non abbastanza per uscire vittoriosi dalla situazione. E' quasi impossibile che azioni di anti terrorismo funzionino contro movimenti sovversivi con un supporto popolare.

  5. "Il pubblico americano è stanco della guerra".

    E' vero, ma è anche vero che la retorica obamiana è insopportabile: non si può parlare di pace, chiedere scusa a mezzo mondo e poi fare la guerra. Obama dovrebbe andare davanti all'opinione pubblica e dire come stanno le cose veramente in quella zona del mondo.

  6. "Il nucleare Pakistan è più importante dell'Afghanistan".

    I problemi relativi ai due paesi non possono essere separati, a unirli in un comune destino ci ha pensato la geografia e la storia. I pashtun, i talebani stanno a cavallo dei due e ogni zona è un eventuale santuario per l'uno o l'altro a seconda dei casi.

  7. "La maggioranza degli afghani vede le truppe alleate come occupanti".

    Non è vero, la maggioranza della popolazione, specialmente delle città, vuole che gli americani restino e finiscano il lavoro. Hanno conosciuto i talebani, sanno cosa significhi vivere nel terrore, quello che vogliono è essere protetti di più.

  8. "L'Afghanistan è la tomba degli imperi".

Le analogie storiche sono una bufala. Ogni situazione, ogni crisi, ogni guerra costituisce un caso unico. Non c'è mai "un altro Vietnam" o "un'altra Monaco". I confronti servono per capire situazioni nuove improvvise, a dare il colpo d'occhio, ma non possono essere usate per trovare soluzioni, perché si perde la caratteristica della novità di ogni evento: il suo essere unico. Che cosa hanno in comune l'Iraq con il Vietnam? Il deserto? Il comunismo? E qual'è il comune denominatore tra i sovietici e gli americani? Per non parlare dei metodi di guerra; i russi impiegavano per reprimere l'opposizione una strategia basata sul genocidio, mentre adesso la Nato impiega una opportuna strategia di anti insorgenza. Forse potrà non funzionare, ma non perché in Afghanistan ogni esercito straniero si è dovuto ritirare.

giovedì 26 novembre 2009

FPI Fact Sheet: The case for a fully resourced counterinsurgency strategy for Afghanistan | Foreign Policy Initiative

FPI Fact Sheet: The case for a fully resourced counterinsurgency strategy for Afghanistan | Foreign Policy Initiative

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miscellanea

Obama sembra aver sciolto i dubbi sull'Afghanistan: 30.000 soldati saranno inviati in quel teatro. Richiesti alla Nato 10000 uomini in più. Riunione dell'Alleanza per decidere a Bruxelles il 3-4 dicembre.

L'invio dei soldati sarà scaglionato nel tempo per permettere ad Obama di valutare i progressi dell'amministrazione Karzai sulla via della riconciliazione nazionale e della lotta contro la corruzione. Il piano è quindi una sintesi tra le posizioni prudenti dell'ambasciatore Eikenberry e la richiesta del generale McCrystal. Ha ragione il New York Times, molteplici messaggi in un singolo discorso: ai nemici talebani e Al Qaida (vi distruggeremo), al governo Karzai (attenzione comportati bene), agli alleati europei (fate il vostro dovere e impegnatevi di più), ai repubblicani (avete visto? Anche i democratici combattono la guerra) e ai democratici (non staremo in Afghanistan all'infinito)

La maggioranza delle truppe sarà inviata nel sud dell'Afghanistan al confine con il Pakistan in modo da costruire un cordone che sigilli la zona di Kandhar.

Ma nessuna strategia funzionerà in Afghanistan se non sarà collegata alla gestione del Pakistan, delle aree tribali e. 1) Una sola strategia coordinata per i due teatri; 2) Una soluzione politica unica per i pashtun.

mercoledì 25 novembre 2009

Ruper Smith, “L’arte della guerra nel mondo contemporaneo”

Secolo d'Italia, 25 novembre

Capire la guerra moderna è uno dei rebus politici più difficili da dover essere sciolto. Mai fino ad oggi il contrasto tra il super potere tecnologico dell'occidente e la debolezza della sua volontà, tra forza e inconsistenza dei risultati della sua applicazione era stato così evidente. Droni, sistemi d'arma completamente informatizzati, una logistica strabiliante e dall'altra la difficoltà a inviare poche decine di migliaia di soldati a combattere guerre d'oltremare, si sarebbe detto un tempo, contro avversari estremamente più deboli. Non solo, un'altra contraddizione è data dall'impegno di uomini, soldi con effetti spesso dubbi, fino a sollevare delle domande sulla logica dello strumento "guerra" come mezzo utile e necessario per risolvere alcune situazioni d'emergenza. Ma le contraddizioni non finiscono qui, se parliamo di guerra, la memoria corre alle immagine dei bombardamenti aerei su Dresda, alle trincee della prima guerra mondiale, agli sbarchi alleati in Normandia e Italia, non certo a scontri con tribù nomadi o miliziani a bordo di pick up.

Rupert Smith, generale inglese, comandante delle truppe in Bosnia, con all'attivo decine di missioni tra cui la guerra del Golfo, ci aiuta a decifrare questa complessa realtà. In un libro appena pubblicato, "L'arte della guerra nel mondo contemporaneo"( Mulino, 2009, 28€) , il generale inglese proclama in modo che può sembrare provocatorio "la guerra non esiste più". La guerra industriale, la guerra come l'abbiamo conosciuta noi europei sul nostro suolo, la guerra napoleonica come scontro di grandi masse,inaugurata da Napoleone, è infatti finita. Con la scomparsa dell'Unione Sovietica è venuto meno anche la possibilità dello scontro tra colossi nucleari con la relativa minaccia di distruzione di comunità di milioni d'abitanti e culture millenarie.

Il generale parla da un punto di vista privilegiato, addestrato per combattere una nuova guerra totale nelle pianure dell'Europa centrale, si è trovato a combattere sui terreni di mezzo mondo conflitti limitati in scopi e mezzi. Ma ha avuto la fortuna di trovarsi tra i ranghi di uno dei migliori eserciti del pianeta con l'esperienza di combattimenti contro nemici di tutti i tipi. A differenza del più forte cugino americano, sempre dotato di una super forza, l'esercito inglese si è trovato, fin dall'inizio dell'epoca moderna, ad affrontare avvesari con piccoli contingenti, spesso formati da professionisti. Dall'India all'Afghanistan, agli Zulù in Sud Africa, ai dervisci in Sudan per finire all'ultima guerra di ieri contro l'IRA e gli estremisti protestanti, l'esercito di sua maestà è un capolavoro di pragmatismo e di capacità di adattamento, capace di gestire situazioni coloniali con decisione e, in confronto alle altre potenze espansioniste europee, con saggezza. Dell'imparare immediatamente dalle situazioni, della necessità di trarre lezioni senza concedersi il lusso di teorizzazioni complesse (altro vizio americano, se qualcosa non è sistematizzato in procedura, non esiste) ne ha fatto una norma che gli permette di gloriarsi di alcuni casi unici come la vittoria contro la ribellione comunista in Malesia tra gli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso, una decolonizzaizone tutto sommato di velluto in confronto alla tragedia francese, i consigli perfetti e non seguiti durante la guerra in Vietnam, per finire alla conclusione appunto del conflitto irlandese.

Rupert Smith da una descrizione delle nuove guerre utilizzando una citazione non di un Clausewitz o Mao, ma di Orwell, del testimone della guerra di Spagna che, in "Omaggio alla Catalogna", sostenne: "è impossibile scrivere della Guerra di Spagna da un punto di vista militare puro e semplice. Essa è soprattutto una guerra politica". Le nuove situazioni sono sempre un complessa combinazione di circostanze politico e militari, il nuovo mondo unipolare è infatti solcato da conflitti di ogni tipo, dal terrorismo internazionale agli stati falliti, da insorgenze globali come quella portata avanti da Al Qaida ai narcostati sudamericani. "E' stato attraverso queste riflessioni che ho realizzato che eravamo in una nuova era di conflitti che ho definito 'guerra tra la popolazione' – vero e proprio nuovo paradigma – una situazione in cui gli sviluppi politici e militari vanno a braccetto". Guerra tra la popolazione è sia un espressione descrittiva che una cornice concettuale utilizzata per afferrrare le situazioni contemporanee di guerra; essa riflette "il duro fatto che non vi è più nessun campo di battaglia separato dal resto e in cui si scontrano gli eserciti, né d'altronde non esistono più nemmeno degli eserciti come gli abbiamo fino ad oggi conosciuti". Ora la guerra è differente, la popolazione stessa è il campo di battaglia. I civili svolgono tutti i ruoli: possono essere spettatori, vittime, nemici e le forze degli stati occidentali possono essere chiamate a difenderli o ad affrontarli oppure a svolgere tutti e due i compiti in contemporanea.

Sono conflitti nei quali, anche se da un punto di vista occidentale coronati dal successo militare, di solito rappresentano solo un passo verso il fine desiderato, cioè "mezzi militari non bastano a risolverli". Questa difficoltà della forza a bastare da sola la si ritrova anche al livello più basso, adesso il calcolo politico entra perfino sul piano tattico, nella singola scaramuccia, perché per fino l'applicazione della forza (il come e la quantità) è una decisione che avviene tutta nell'ambito del politico. Il risultato è che la massima di Clausewitz, della guerra prosecuzione della politica con altri mezzi, non vale più se intesa come aut aut. Adesso guerra e politica sono elementi inscindibili che si specchiano l'uno nell'altro continuamente. Il risultato è sconcertante, nelle guerre limitate tra la popolazione quello che conta è la chiarezza strategica che spesso manca, con i risultati che abbiamo sotto gli occhi. Lo vediamo oggi in Afghanistan cosa significa aver affrontato un conflitto limitato con un con una definizione di "vittoria" che si è andata modificando nel tempo senza che corrispondesse un adeguato aggiornamento strategico e azioni conseguenti.

Ecco spiegata la "dissonanza" , anche cognitiva, tra il modo occidentale di comprendere la forza, la relativa traduzione di tale concezione in organizzazione burocratica armata, preparata per combattere le nostre guerre, e la realtà difforme degli attuali conflitti che sempre stupisce gli stati occidentali e in modo particolare gli americani, gestori recalcitranti e loro malgrado dell' ordine del mondo.


 


 

martedì 24 novembre 2009

Mappa interattiva delle aree di crisi! Eccezionale e divertente con ultime news!!



Perchè rimanere in Afghanistan a fare la guerra e vincerla

Ottime risposte ai cacadubbi sul perchè continuare la guerra in Afghanistan. (cum grano salis! la debolezza del governo Karzai è un problema reale che dall'osservatorio sotto Fiesole non si capisce bene, ma c'è ed  è in grado di nullificare qualsiasi ragionamento).

FPI Fact Sheet: The case for a fully resourced counterinsurgency strategy for Afghanistan | Foreign Policy Initiative

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domenica 22 novembre 2009

NOTIZIARIO INTERNAZIONALE

L'Occidentale, 21 novembre

La storica visita di Obama in Cina si è rilevata per quello che non doveva essere , una passeggiata turistica sulla muraglia, un nulla di fatto come il primo incontro di Kennedy con Khrushchev. Questo è quello che succede quando un presidente pensa che la leadership sia niente di più che l'incarnazione dell'opinione mondiale e l'inseguimento degli accadimenti vestendoli di belle parole, invece che dare loro un indirizzo.

In occasione della visita di Obama nei paesi dell'Asia dell'est, è interessante leggere questo studio dell' Institute of South Asian Studies
(ISAS) di Singapore dove l'autore sostiene che le relazioni tra i paesi asiatici e USA dovrebbero essere basati su accordi generali e entro una cornice istituzionale piuttosto che entro una politica ad hoc tra le due leadership.

E' uscito un nuovo libro di Philip Bobbit, "Terror and Consent", dove si sostiene che in mondo globalizzato è sbagliato metter in antagonismo sicurezza e diritti civili. E' un peccato che quest'autore sia praticamente sconosciuto in Italia e così la sua opera forse principale "The Schield of Achille" ("Lo scudo di Achille") in cui legge le trasformazioni del potere in relazioni all'evoluzione del rapporto legittimazione-forza e guerra-organizzazione della stessa.

Russia

Il Centro Sudi sulla Soria dell'Europa Orientale (che si può ottenere scrivendo a questo indirizzo info@csseo.org) ha prodotto un pregevole lavoro, come suo solito, su "Il Daghestan: conflitti, religione e politica" di Giovanni Bensi. E' un saggio meritorio per lo meno per tre motivi, per la sua chiarezza, per l'ampia veduta d'insieme (Russia, questione caucasica e Islam) e perché finalmente è in italiano, ma non ha niente da invidiare ai lavori dei think thank d'oltre oceano. Il Daghestan, in turco "paese dei monti", è abitato da circa due milioni di abitanti che parlano 11 lingue ed è composto da circa 14 nazionalità nessuna delle quali costituisce la maggioranza, il primo gruppo è formato dagli avari che sono il 30%. "Il Daghestan è, con la Cecenia e l'Inghusezia, una delle repubbliche più inquiete del Nord Caucaso, con ricorrenti e gravi episodi di violenza". Bensi rileva ben cinque tipologie di conflitti. 1 un conflitto politico tra esponenti locali; 2 un conflitto coloniale contro la presenza dei russi e contro l'appartenenza del paese alla federazione russa, tensione che ha prodotto scontri di tipo ceceno; 3 un conflitto religioso tra Islam moderato, quietista, di orientamento sufico e l'islam integralista, di importazione straniera (Arabia, Pakistan, Afghanistan); 4 un conflitto interetnico, legato al forte senso di appartenenza nazionale dei popoli caucasici; 5 il disordine creato dalla criminalità organizzata con strettii legami con le mafie internazionali, compresa la 'ndrangheta e la camorra, per il controllo del traffico di droga e il contrabbando.

Sempre sulla Russia, si può leggere un paper scritto da Walter per il MESH's Middle East Papers series, sulla strategia della Russia verso l'Islam. Strategia che in modo sistematico è irta di contraddizioni, la Russia infatti è sempre oscillante nella gerarchia degli obiettivi e delle minacce, stretta tra il risentimento verso l'America e il suo ruolo mondiale, ancora schiava quindi di nostalgie imperiali sovietiche, e la necessità di doversi confrontare con la forza crescente dell'Islam che crea tensioni al proprio interno e negli stati limitrofi.

Da considerare, sempre sulla situazione russa, quest'altro paper che presenta quattro case studies, disegna I trend generali del crescente e inquietante fenomeno dell'autoritarismo delle leadership nazionali all'interno della federazione ed esamina le trasformazioni politiche dei governi locali attraverso le analisi delle elite e alla luce del controllo delle industrie energetiche. Il lavoro è il frutto di ben tra i più grandi "pensatoi" europei: Research Center for East European Studies di Brema, il Center for Ssecurity Studies di Zurigo e la German Association for East European Studies.


 

Afghanistan

Un lungo articolo sul The Washington Times ripete per l'ennesima volta, ma non sono mai troppe, la lezione di Petraeus che si basa sulla costruzione di rapporti di fiducia tra la popolazione. Le guerre moderne sono infatti guerre tra la gente e lo scopo delle azioni di contro insorgenza è di portare la maggioranza silenziosa dalla propria parte: è quanto sta succedendo in Pakistan dove sia nelle istituzioni, spesso troppe volte compromesse con gli estremisti talebani, che nella popolazione sta venendo meno il supporto agli integralisti.

Ma continuano i dubbi di Obama. "Non vi è nessun dubbio che le prospettive di successo in Afghanistan sono cos' scarse a causa del comportamento del precedente presidente. Bush ha fallito per sette lunghi anni facendo mancare le truppe necessarie, risorse ma in modo particolare attenzione alla Guerra. Ma ora la guerra è la guerra del presidente Obama e il popolo americano sta aspettando che egli spieghi i suoi obiettivi e la sua strategia…la realtà politica è che più a lungo Obama aspetta, più indeciso appare e più la sua scelta sembra obbligata da fattori esterni". A dirlo non sono i reazionari dell'American Enterprise Institute, ma il New York Times. Non solo il rimprovero a Bush non è di essere stato troppo interventista, ma al contrario di essersi dimostrato disattento! (Avrei un dubbio, ma i militari dove erano? Che consigli davano tre anni fa?)

Ma la situazione interna continua a preoccupare gli alleati: l'indice di corruzione è infatti uno dei più alti del mondo gettando benzina sul fuoco delle tensioni interne e sulla stabilità del nuovo governo Karzai.