Milano, Mauritania, Sati Uniti, Pakistan. I recenti fatti terroristici in tutto il mondo hanno riportato alla ribalta Al Qaida. Sembrava ormai un ricordo lontano se non nel tempo, per lo meno nello spazio, confinate in qualche angolo remoto le sue azioni paranoiche. Invece, eccola tra di noi. Di nuovo pronta a colpire e a seminare morte anche nelle nostre città. Queste azioni i hanno mostrato di nuovo sia la pericolosità e la determinatezza dei miliziani di Bin Laden che la fragilità dei nostri sistemi di sicurezza. E a questo punto sorge spontanea la domanda: qual'è il modo migliore per fermare il terrorismo? Quesito a cui può essere data una risposta solo se riusciamo a mettere a fuoco la domanda precedente: che tipo di minaccia rappresenta Al Qaida, che fini persegue e quali mezzi impiega per raggiungerli? Solo a questo punto potremmo riuscire a misurare l'efficacia delle contro misure utilizzate dai paesi occidentali e in primo luogo dagli Stati Uniti, il paese più attaccato, che assieme ad Israele porta il fardello maggiore della lotta contro l'etremismo totalitario di stampo islamista.
E qui ritorna un punto sempre aperto quando si parla del nuovo terrorismo: per contrastarlo è meglio utilizzare una strategia antiterroristica e quindi basata su azioni di polizia, magari accompagnata da raid punitivi, o al contrario è necessario considerare la sfida portata da Al Qaida un'azione di guerra e rispondere ad essa sul piano militare? Mentre la prima strada è quella preferita dai democratici americani e portata avanti da Clinton e – a parole – da Obama, la seconda è stata inaugurata da Bush jr. dopo quel tragico 11 settembre 2001.
L'antitesi tra le due soluzioni e la confusione tra le stesse sono a causa della duplicità della minaccia portata avanti da Bin Laden: l'epifenomeno, il mezzo scelto per raggiungere i propri scopi, il terrorismo appunto, e l'ambiente (i motivi storici culturali sociali religiosi) da cui il primo scaturisce. Ora la prospettiva cambia a seconda che il centro del discorso cada sul primo o sul secondo aspetto. Riguardo al primo punto, ma il discorso si può tranquillamente allargare ad ogni tipo di minaccia che utilizza la morte di civili innocenti, una precisazione deve essere fatta. La rete tecnologica di infrastrutture che supporta le società moderne è fragilissima mentre la forza tecnologica delle nazioni occidentali – compresa quella dei mass media - è enorme, fatto che non fa altro che amplificare gli effetti del terrorismo e quindi a farlo scegliere come arma preferita da un gran numero di attori. Il maltempo nel 2010 causa più disagi che 50 o 100 anni fa, una bomba carta nella metropolitana ha un risultato più devastante che un missile su Lampedusa e il terrorismo, che fin dalla sua origine - dai tempi di Narodnaya Volya - si basa sulla moltiplicazione dell'effetto dei suoi gesti, lo sa. Contro questa verità, l'unica contro misura è il sangue freddo di un popolo e della sua classe dirigente, ma scordiamoci una qualsiasi "sconfitta" del nemico. In Europa e negli Stati Uniti non sono mai esistite frontiere sigillate, non esiste controllare i flussi di immigrati o gli spostamenti dei turisti: chi dice il contrario diffonde solo demagogia pericolosa perché falsa. L'unica misura che funziona sul fronte interno è certo l' aumento dei controlli, ma sempre e solo contano l'intelligence, l'azione di infiltrazione, l'ascolto serio delle fonti, il lavoro sul territorio compreso quello cibernetico, la capacità tutta politica e investigativa di distinguere tra scontento, dissenso e minaccia, il raccordo internazionale delle polizie. Dopo l'IRA, le BR, i NAR, Settembre Nero, il FPLP, l'ETA, Aum Shinrikyo eccetera sono arrivati i ceceni, curdi, Al Qaida, i pasdran iraniani e altro ancora. Non è una dichiarazione di resa, ma di presa d'atto della realtà, considerazione che ci fornisce due indicazioni diverse: la prima ci dice come un paese obiettivo dei terroristi deve reagire al proprio interno, quali misure di sicurezza deve adottare per garantire la vita dei suoi cittadini, la seconda quale uso della forza sia migliore per contrastare il nemico.
Ma questo aspetto "strutturale", per così dire, non nega il fatto che esista un secondo lato sempre invece diverso sulla natura e caratteristiche della specifica organizzazione che utilizza il terrorismo. Garantire la sicurezza dei cittadini significa muoversi sul piano dell'azione di polizia; combattere i santuari di Al Qaida significa spostarsi sul piano politico, di politica estera di sicurezza più precisamente, che comporta anche l'impiego della forza e dell'esercito.
I puristi, i legalisti democratici americani, si rifiutano di considerare "guerra" la lotta contro Bin Laden; in parte hanno ragione, il terrorismo non è un nemico, ma un'arma utilizzata da un nemico (ma queste sono sottigliezze teoriche). Se però la lotta contro il terrorismo islamista non è una "guerra" a causa appunto della mancanza di un nemico statale, che cos'è Al Qaida?
E', secondo la definizione data dall'esperto internazionale di strategia nonché consigliere del generale petraeus David Kilcullen, "un'insorgenza terroristica globale" che utilizza "principalmente, ma non esclusivamente" il terrorismo come strumento di lotta. Di conseguenza lo strumento migliore per combatterlo sono azioni di contro insurrezione o insorgenza che comprendono un mix di interventi politico, diplomatico, sociale, di polizia e militari.
In questi giorni, il brodo di coltura dove sorge Al Qaida è visibile in tutta la sua drammaticità, dall'Afganistan alle cellule irachene, allo Yemen fino ad arrivare al Ciad e alla Mauritania; da questi luoghi il network sunnita si muove in giro per il mondo lasciando una scia di dolore e spavento. Il sogno della rinascita del califfato, la volontà di abbattere i regimi traditori nei paesi abitati da mussulmani si uniscono al progetto di scardinamento dell'ordine mondiale garantito dagli Stati Uniti. Al Qaida è un network internazionalista, rivoluzionario, terrorista,"senza fissa dimora" alla ricerca perenne di santuari da costruirsi in stati deboli, falliti, o addirittura amici come nel caso dell'Afghanistan dei talebani. Al Qaida rappresenta tre assolute novità: è una minaccia globale, è di matrice religiosa invece che ideologico-politica, e allo stesso tempo non ha radici territoriali precise. In pratica è un sistema vivente che si trasforma in continuazione adattandosi alle circostanze perché i suoi fini sono molteplici cangianti secondo i momenti e così la struttura organizzativa può evolversi in modo plastico. Rispetto alle origini, dopo la liberazione di Kabul, adesso il network è sicuramente più decentralizzato, forse acefalo – meglio policefalo -, ma con una diffusione sen'altro più grande grazie a due fattori, il primo dovuto all'effetto spill over causato dall'azione militare degli alleati in quell'area, e l'altro da ricercare nel fascino che la rivoluzione islamista esercita nel mondo arabo mussulmano sunnita in competizione con la rivoluzione khomenista.
Ma questi elementi non colgono un fatto fondamentale ed estremamente grave presente nelle popolazioni e dei regimi sunniti, arabi e medio orientali. Dal Pakistan allo Yemen, dal Libano al Ciad, alla stessa Arabia è un susseguirsi di complicità, di coperture, fino ad arrivare all'aperto supporto, come nel caso dello Yemen da parte di ampi settori di quelle società e stati verso i terroristi di Al qaida. I motivi di questo folle comportamento delle elite sono da ricercarsi nella storia delle nazioni arabe e medio orientali, nelle simpatie ideologico religiose che Al Qaida riceve e nell'utilizzo della sua forza militare contro i "nemici" di palazzo, infedeli, sciti, indiani, americani, iraniani o altro secondo la logica per cui "il nemico del mio nemico è mio amico", a condizione che la furia omicida dei fondamentalisti si manifesti all'esterno di chi vi si allei, gruppo di potere, partito, clan, etnia, stato o quant'altro. In caso contrario, l'accordo tra i locali e i combattenti stranieri contro il nemico comune non può funzionare; è stato il caso dell' Iraq dove la follia criminale dei miliziani di Bin Laden si era scatenata anche contro le tribù sunnite fedeli a Saddam che eppure li avevano cercati per lottare contro il comune nemico, il nuovo governo scita di Baghdad (il contributo dato dall'imbecillità politica e psicopatica di Al Zarqawi e del suo gruppo sono una delle ragioni maggiori del successo della surge in Iraq).
Tutto questo costringe gli americani e i loro alleati a un difficilissimo gioco di equilibrio, stretti come sono tra la dichiarazione di guerra al terrorismo internazionale, la lotta contro la minaccia nucleare iraniana, e l'affermazione dello stato di diritto e la difesa della convivenza delle popolazioni sia scite che sunnite in nome della democratizzazione del Medio Oriente. Infatti, una volta capito che Al Qaida è un soggetto terroristico di nuovo tipo, la soluzione per combatterla è rappresentata dallo spezzare le connessioni tra i vari cerchi, tra nucleo e nucleo, adoperando strumenti differenziati e specifici per ogni link, da quelli nella madre patria a quelli esteri. Il compito per gli stati che vogliono la pace non è facile a causa della determinazione e del fanatismo dei militanti islamici, della mancanza di un unico comando militare centralizzato e delle connivenze politiche presenti all'interno di paesi anche amici. Che fare nei confronti del Pakistan? Si può continuare a finanziare uno stato che vede ancora nell'India il suo peggior nemico e che utilizza i talebani nel Kashmir? E dello Yemen, dove il regime, sostenuto dall'Arabia, si serve dei miliziani alqaidisti contro le tribù scite appoggiate dall'Iran? Qual è il male minore? Nodi che la spada gordiana non può risolvere.
Ideologia religiosa, network, a-statualità, connivenze con altri stati. Queste quindi sono le caratteristiche della "base" messa su da quel genio del male che è Bin Laden.
E allora ecco le contro misure, la strategia disegnata da Bush e dalla sua amministrazione a partire da Rumsfeld in cui misure di polizia interne, per la prima volta nella storia americana si è costituito il Ministero degli Interni, si integravano con obiettivi geopolitici, strategici e ideologici in un quadro coerente. In breve: 1) intervenire in Medio Oriente, spezzare i fili tra stati e Al Qaida; 2) spezzare l'alleanza tra popoli sunniti e il network criminale; 3) costruire, dove intervenuti, delle democrazie o per lo meno degli stati di diritto dimostrando che la convivenza tra etnie e fedi diverse è possibile e che anche è possibile una via pacifica nella modernità all'interno della propria tradizione, cioè che è realizzabile uno spazio pubblico per la religione anche in un mondo globalizzato; 4) creare una forte presenza americana in quell'area; 4) circondare l'Iran; 4) proteggere alle spalle Israele; 3) sostenere gli stati del Golfo in un alleanza anti iraniana; 5) garantire la sicurezza dell'approvvigionamento del petrolio e delle vie di comunicazione dal Golfo; 6) sostenere il Pakistan convincendolo a combattere il terrorismo.
E' una strategia complessa e difficile, ma di ampio respiro nonostante le critiche liberal e che Obama, al di là della retorica buonista, non ha smontato, anche perché è arrivato a metà dell'opera compiuta e da cui non è permesso a nessuno retrocedere, pena una sconfitta epocale.
La difficoltà è rappresentata nel calibrare l'azione quando si arriva a dover agire in situazioni caotiche come quella afghana e pakistana. Qui infatti si hanno intrecci veramente complicati: insorgenze locali si confondono con malessere sociale, conflitti etnici, equilibri regionali, faziosità governative, determinando una forte instabilità del governo centrale, tutti fattori che creano un ottimo brodo di coltura per Al Qaida. Prendiamo ad esempio il caso del Pakistan dove si contano molteplici attori che si intrecciano tra loro senza soluzione di continuità: settori delle forze armate e dei servizi segreti pakistani ostili agli americani o più ostili ad altri nemici, l'India ad esempio, piuttosto che ad Al Qaida; tribù avverse al governo centrale come i Pashtun; insorgenze locali come i Talebani; gang criminali internazionali che vivono sulla coltivazione e sul traffico d'oppio, e sul contrabbando.
E' ovvio che in questo contesto i miliziani di Al Qaida si muovano a loro agio come pesci nell'acqua, basta loro allearsi, di momento in momento, con un qualsiasi elemento contro il nemico di questi: una volta l' India, un'altra il corrotto governo centrale pakistano o afghano, oppure contro la fortissima minoranza scita o il nemico iraniano o gli odiati infedeli ecc. E non importa certo trovare una coerenza d'azione, tanto gli alleati sono sempre diversi, né utilizzare sempre il terrore, a volte basta punire un funzionario corrotto.
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