domenica 29 novembre 2009

Afganistan, l’Iraq e la surge

Uno degli argomenti preferiti dei fautori della tesi di McCrystal sull'invio di soldati a Kabul è il ricorso alla surge irachena ideata da Petraeus.

Come sempre vi è chi è più realista del re. I coniugi Kagan riescono a parlare del successo iracheno senza menzionare una sola volta due dei per lo meno tre condizioni che hanno permesso quell'ottima riuscita:

1 la formazione di squadre di autodifesa sunnite espressione di una rivolta tribale contro Al Qaida e della rottura dell'asse partigiani filo Saddam e di AlQaida (circa 90.000) uomini,

2 la tregua tra i miliziani sciti capeggiati da Motqada al Sadr e gli americani mediata tra il governo iracheno con l'aiuto di Theran.

Ora io non capisco perché raccontare balle. La situazione in Afghanistan è seria, non si sa come andrà a finire né se il governo di Karzai terrà e si conquisterà la legittimità che ora gli manca

Quello che è chiaro, dall'osservatorio sotto Fiesole, è che una azione di contro insorgenza non può essere vittoriosa se

1 non ha un chiaro obiettivo politico, possibile e condivisibile;

2 non esiste un governo che riscuota il consenso della popolazione.

Quindi il problema in Afghanistan si chiama Karzai e Pashtun emarginati dal governo per la prima volta nella storia del paese e ora anche minacciati dalla rozza azione di guerra Pakistan.

Insomma sono d'accordo con March Lynch.


 

sabato 28 novembre 2009

Anch'ora non ho letto tutto il pezzo ma mi sembra estremamente interessante: che senso ha in Afghanistan sforzarsi di mandare le ragazze a scuola se poi diventano bersaglio dei talebani? Se nessuno le protegge, mi sembra di leggere le storie sulla mafia e sulle vittime lasciate sole…

venerdì 27 novembre 2009

Obama davanti alla crisi afghana

A questo punto sembra imminente la decisione di Obama riguardo alla richiesta di Mc Cystal: 30.000 soldati americani e 10.000 degli altri alleati Nato.

E' una decisione importante; il presidente americano deve tenere assieme diversi e contraddittori fattori. La caduta verticale di consenso tra l'opinione pubblica rispetto all'impegno bellico; l'aumento delle vittime militari; la corruzione (si veda anche questa intervista a Kilcullen sul ciclo economico di questa forma illegale di economia; comunque l'Afghanistan è al secondo posto nella classifica mondiale della corruzione) e la debolezza di rappresentatività del governo di Karzai; il numero altissimo delle diserzioni tra l'esercito afghano (un soldato su quattro se ne va prima che sia finita la ferma regolare) e la mancanza di professionalità della polizia; la difficile situazione nelle aree tribali e nel Waziristan nel nord del Pakistan dove un impreparato esercito, pronto per affrontare il nemico indiano, si trova a combattere un nemico irregolare come i talebani con cui, per altro, ha sempre tenuto, e al di là delle apparenze tutt'ora tiene, rapporti ambigui se non stretti. Il risultato è che i talebani hanno cambiato tattica e affrontato le scarse forze pakistane, poco meno di 20.000 uomini combattenti, con altrettanti guerriglieri (quando il rapporto in una azione di contro insorgenza è di per lo meno di 4:1) che intensificano gli attacchi, mentre il Pakistan è sempre più preoccupato che questo impegno militare contro il nuovo nemico possa essere utilizzato dal suo storico rivale indiano. L'ultimo problema, se non il peggiore poco ci manca, è che, in questo caos, Al Qaida sta riallacciando rapporti con i talebani proprio ai confini tra i due paesi rafforzando militarmente il fronte nazionalista pashtun. Da notare il modo d'azione "leninista" dell'organizzazione islamica che cerca di collegare motivi locali o nazionali di malcontento, che non trovano soddisfazione, a obiettivi rivoluzionari, in questo caso jahdisti.

Situazione difficile, al di là dei facili partiti, il nodo da sciogliere è realmente complesso, perché una cosa è chiara, dall'Afghanistan gli Stati Uniti, gli alleati, la Nato, non si possono ritirare ; noi non possiamo andarcene. Ma è anche chiaro che rimanere è possibile se ridefiniamo completamente obiettivi politico - militari e ci dotiamo di una strategia conseguente. E allora una è la questione centrale, che cosa definiamo con "vittoria", fino a quando le truppe staranno sui monti alle pendici dell'Himalaya?

Innanzitutto, anche se Obama optasse, come consigliato dal suo ministro della difesa, per un impegno leggero basato su aviazione e azioni di commandos e truppe speciali in funzione anti Al Qaida, sul suolo afghano rimarrebbero decine di migliaia di soldati. C'è la base aerea di Bagram vicino Kabul dove sono stanziati circa 20.000 soldati, "il pernio di ogni azione in Asia centrale" come ha dichiarato il generale Fallon; poi vi è la base di Kandhar con 20.000 uomini e molte altre anch'ora.

Ora, domande e risposte sulla crisi afghana a favore della richiesta di McCrystal.

  1. "Perché appoggiare il corrotto e debole Karzai eletto tramite votazioni fraudolente?"

    Era così anche in Iraq; Maliki prima della surge era visto da tutti, dico tutti, gli osservatori come incapace e strumento degli iraniani. Quando è passato il pericolo stragista di Al Qaida e il governo centrale si è potuto rafforzare, la situazione è migliorata (Los Angeles Times) e Maliki è adesso un autorevole primo ministro.

  2. "L'Afghanistan è un paese essenzialmente tribale e quindi non può funzionare una strategia di contro insorgenza".

    Max Boot su Commentary afferma che, comunque sia, nel corso dei secoli si è costituita un'identità nazionale afghana; semmai, aggiungo io, il problema è che il paese è da quasi trenta anni coinvolto in guerre che hanno pesantemente intaccato forme di vita civili complesse.

  3. "Al Qaida è il vero nemico, perché impegnarsi contro i Talebani?"

    "Al Qaida non esiste in un vacuum come la Spectre di James Bond", questa è la metafora usata dai coniugi Kagan su Weekly Standard. L'obiettivo di al Qaida è duplice: instaurare il califfato mondiale a partire da santuari locali. Al Qaida fornisce know how forniture militari e ideologia alle formazioni locali autonome che a loro volta ricambiano ospitandoli.

  4. "Perché non è possibile sconfiggere i talebani con una guerra di contro insorgenza leggera con droni e quant'altro?"

    Per due motivi. Il primo è stato detto sopra: i talebani controllano ampie zone del territorio dove i seguaci di Bin Laden stanno già intrattenendo buoni rapporti; il secondo, nota de sottoscritto, è che comunque gli americani hanno abbastanza truppe per essere responsabili di quello che succede, ma non abbastanza per uscire vittoriosi dalla situazione. E' quasi impossibile che azioni di anti terrorismo funzionino contro movimenti sovversivi con un supporto popolare.

  5. "Il pubblico americano è stanco della guerra".

    E' vero, ma è anche vero che la retorica obamiana è insopportabile: non si può parlare di pace, chiedere scusa a mezzo mondo e poi fare la guerra. Obama dovrebbe andare davanti all'opinione pubblica e dire come stanno le cose veramente in quella zona del mondo.

  6. "Il nucleare Pakistan è più importante dell'Afghanistan".

    I problemi relativi ai due paesi non possono essere separati, a unirli in un comune destino ci ha pensato la geografia e la storia. I pashtun, i talebani stanno a cavallo dei due e ogni zona è un eventuale santuario per l'uno o l'altro a seconda dei casi.

  7. "La maggioranza degli afghani vede le truppe alleate come occupanti".

    Non è vero, la maggioranza della popolazione, specialmente delle città, vuole che gli americani restino e finiscano il lavoro. Hanno conosciuto i talebani, sanno cosa significhi vivere nel terrore, quello che vogliono è essere protetti di più.

  8. "L'Afghanistan è la tomba degli imperi".

Le analogie storiche sono una bufala. Ogni situazione, ogni crisi, ogni guerra costituisce un caso unico. Non c'è mai "un altro Vietnam" o "un'altra Monaco". I confronti servono per capire situazioni nuove improvvise, a dare il colpo d'occhio, ma non possono essere usate per trovare soluzioni, perché si perde la caratteristica della novità di ogni evento: il suo essere unico. Che cosa hanno in comune l'Iraq con il Vietnam? Il deserto? Il comunismo? E qual'è il comune denominatore tra i sovietici e gli americani? Per non parlare dei metodi di guerra; i russi impiegavano per reprimere l'opposizione una strategia basata sul genocidio, mentre adesso la Nato impiega una opportuna strategia di anti insorgenza. Forse potrà non funzionare, ma non perché in Afghanistan ogni esercito straniero si è dovuto ritirare.

giovedì 26 novembre 2009

FPI Fact Sheet: The case for a fully resourced counterinsurgency strategy for Afghanistan | Foreign Policy Initiative

FPI Fact Sheet: The case for a fully resourced counterinsurgency strategy for Afghanistan | Foreign Policy Initiative

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miscellanea

Obama sembra aver sciolto i dubbi sull'Afghanistan: 30.000 soldati saranno inviati in quel teatro. Richiesti alla Nato 10000 uomini in più. Riunione dell'Alleanza per decidere a Bruxelles il 3-4 dicembre.

L'invio dei soldati sarà scaglionato nel tempo per permettere ad Obama di valutare i progressi dell'amministrazione Karzai sulla via della riconciliazione nazionale e della lotta contro la corruzione. Il piano è quindi una sintesi tra le posizioni prudenti dell'ambasciatore Eikenberry e la richiesta del generale McCrystal. Ha ragione il New York Times, molteplici messaggi in un singolo discorso: ai nemici talebani e Al Qaida (vi distruggeremo), al governo Karzai (attenzione comportati bene), agli alleati europei (fate il vostro dovere e impegnatevi di più), ai repubblicani (avete visto? Anche i democratici combattono la guerra) e ai democratici (non staremo in Afghanistan all'infinito)

La maggioranza delle truppe sarà inviata nel sud dell'Afghanistan al confine con il Pakistan in modo da costruire un cordone che sigilli la zona di Kandhar.

Ma nessuna strategia funzionerà in Afghanistan se non sarà collegata alla gestione del Pakistan, delle aree tribali e. 1) Una sola strategia coordinata per i due teatri; 2) Una soluzione politica unica per i pashtun.

mercoledì 25 novembre 2009

Ruper Smith, “L’arte della guerra nel mondo contemporaneo”

Secolo d'Italia, 25 novembre

Capire la guerra moderna è uno dei rebus politici più difficili da dover essere sciolto. Mai fino ad oggi il contrasto tra il super potere tecnologico dell'occidente e la debolezza della sua volontà, tra forza e inconsistenza dei risultati della sua applicazione era stato così evidente. Droni, sistemi d'arma completamente informatizzati, una logistica strabiliante e dall'altra la difficoltà a inviare poche decine di migliaia di soldati a combattere guerre d'oltremare, si sarebbe detto un tempo, contro avversari estremamente più deboli. Non solo, un'altra contraddizione è data dall'impegno di uomini, soldi con effetti spesso dubbi, fino a sollevare delle domande sulla logica dello strumento "guerra" come mezzo utile e necessario per risolvere alcune situazioni d'emergenza. Ma le contraddizioni non finiscono qui, se parliamo di guerra, la memoria corre alle immagine dei bombardamenti aerei su Dresda, alle trincee della prima guerra mondiale, agli sbarchi alleati in Normandia e Italia, non certo a scontri con tribù nomadi o miliziani a bordo di pick up.

Rupert Smith, generale inglese, comandante delle truppe in Bosnia, con all'attivo decine di missioni tra cui la guerra del Golfo, ci aiuta a decifrare questa complessa realtà. In un libro appena pubblicato, "L'arte della guerra nel mondo contemporaneo"( Mulino, 2009, 28€) , il generale inglese proclama in modo che può sembrare provocatorio "la guerra non esiste più". La guerra industriale, la guerra come l'abbiamo conosciuta noi europei sul nostro suolo, la guerra napoleonica come scontro di grandi masse,inaugurata da Napoleone, è infatti finita. Con la scomparsa dell'Unione Sovietica è venuto meno anche la possibilità dello scontro tra colossi nucleari con la relativa minaccia di distruzione di comunità di milioni d'abitanti e culture millenarie.

Il generale parla da un punto di vista privilegiato, addestrato per combattere una nuova guerra totale nelle pianure dell'Europa centrale, si è trovato a combattere sui terreni di mezzo mondo conflitti limitati in scopi e mezzi. Ma ha avuto la fortuna di trovarsi tra i ranghi di uno dei migliori eserciti del pianeta con l'esperienza di combattimenti contro nemici di tutti i tipi. A differenza del più forte cugino americano, sempre dotato di una super forza, l'esercito inglese si è trovato, fin dall'inizio dell'epoca moderna, ad affrontare avvesari con piccoli contingenti, spesso formati da professionisti. Dall'India all'Afghanistan, agli Zulù in Sud Africa, ai dervisci in Sudan per finire all'ultima guerra di ieri contro l'IRA e gli estremisti protestanti, l'esercito di sua maestà è un capolavoro di pragmatismo e di capacità di adattamento, capace di gestire situazioni coloniali con decisione e, in confronto alle altre potenze espansioniste europee, con saggezza. Dell'imparare immediatamente dalle situazioni, della necessità di trarre lezioni senza concedersi il lusso di teorizzazioni complesse (altro vizio americano, se qualcosa non è sistematizzato in procedura, non esiste) ne ha fatto una norma che gli permette di gloriarsi di alcuni casi unici come la vittoria contro la ribellione comunista in Malesia tra gli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso, una decolonizzaizone tutto sommato di velluto in confronto alla tragedia francese, i consigli perfetti e non seguiti durante la guerra in Vietnam, per finire alla conclusione appunto del conflitto irlandese.

Rupert Smith da una descrizione delle nuove guerre utilizzando una citazione non di un Clausewitz o Mao, ma di Orwell, del testimone della guerra di Spagna che, in "Omaggio alla Catalogna", sostenne: "è impossibile scrivere della Guerra di Spagna da un punto di vista militare puro e semplice. Essa è soprattutto una guerra politica". Le nuove situazioni sono sempre un complessa combinazione di circostanze politico e militari, il nuovo mondo unipolare è infatti solcato da conflitti di ogni tipo, dal terrorismo internazionale agli stati falliti, da insorgenze globali come quella portata avanti da Al Qaida ai narcostati sudamericani. "E' stato attraverso queste riflessioni che ho realizzato che eravamo in una nuova era di conflitti che ho definito 'guerra tra la popolazione' – vero e proprio nuovo paradigma – una situazione in cui gli sviluppi politici e militari vanno a braccetto". Guerra tra la popolazione è sia un espressione descrittiva che una cornice concettuale utilizzata per afferrrare le situazioni contemporanee di guerra; essa riflette "il duro fatto che non vi è più nessun campo di battaglia separato dal resto e in cui si scontrano gli eserciti, né d'altronde non esistono più nemmeno degli eserciti come gli abbiamo fino ad oggi conosciuti". Ora la guerra è differente, la popolazione stessa è il campo di battaglia. I civili svolgono tutti i ruoli: possono essere spettatori, vittime, nemici e le forze degli stati occidentali possono essere chiamate a difenderli o ad affrontarli oppure a svolgere tutti e due i compiti in contemporanea.

Sono conflitti nei quali, anche se da un punto di vista occidentale coronati dal successo militare, di solito rappresentano solo un passo verso il fine desiderato, cioè "mezzi militari non bastano a risolverli". Questa difficoltà della forza a bastare da sola la si ritrova anche al livello più basso, adesso il calcolo politico entra perfino sul piano tattico, nella singola scaramuccia, perché per fino l'applicazione della forza (il come e la quantità) è una decisione che avviene tutta nell'ambito del politico. Il risultato è che la massima di Clausewitz, della guerra prosecuzione della politica con altri mezzi, non vale più se intesa come aut aut. Adesso guerra e politica sono elementi inscindibili che si specchiano l'uno nell'altro continuamente. Il risultato è sconcertante, nelle guerre limitate tra la popolazione quello che conta è la chiarezza strategica che spesso manca, con i risultati che abbiamo sotto gli occhi. Lo vediamo oggi in Afghanistan cosa significa aver affrontato un conflitto limitato con un con una definizione di "vittoria" che si è andata modificando nel tempo senza che corrispondesse un adeguato aggiornamento strategico e azioni conseguenti.

Ecco spiegata la "dissonanza" , anche cognitiva, tra il modo occidentale di comprendere la forza, la relativa traduzione di tale concezione in organizzazione burocratica armata, preparata per combattere le nostre guerre, e la realtà difforme degli attuali conflitti che sempre stupisce gli stati occidentali e in modo particolare gli americani, gestori recalcitranti e loro malgrado dell' ordine del mondo.


 


 

martedì 24 novembre 2009

Mappa interattiva delle aree di crisi! Eccezionale e divertente con ultime news!!



Perchè rimanere in Afghanistan a fare la guerra e vincerla

Ottime risposte ai cacadubbi sul perchè continuare la guerra in Afghanistan. (cum grano salis! la debolezza del governo Karzai è un problema reale che dall'osservatorio sotto Fiesole non si capisce bene, ma c'è ed  è in grado di nullificare qualsiasi ragionamento).

FPI Fact Sheet: The case for a fully resourced counterinsurgency strategy for Afghanistan | Foreign Policy Initiative

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domenica 22 novembre 2009

NOTIZIARIO INTERNAZIONALE

L'Occidentale, 21 novembre

La storica visita di Obama in Cina si è rilevata per quello che non doveva essere , una passeggiata turistica sulla muraglia, un nulla di fatto come il primo incontro di Kennedy con Khrushchev. Questo è quello che succede quando un presidente pensa che la leadership sia niente di più che l'incarnazione dell'opinione mondiale e l'inseguimento degli accadimenti vestendoli di belle parole, invece che dare loro un indirizzo.

In occasione della visita di Obama nei paesi dell'Asia dell'est, è interessante leggere questo studio dell' Institute of South Asian Studies
(ISAS) di Singapore dove l'autore sostiene che le relazioni tra i paesi asiatici e USA dovrebbero essere basati su accordi generali e entro una cornice istituzionale piuttosto che entro una politica ad hoc tra le due leadership.

E' uscito un nuovo libro di Philip Bobbit, "Terror and Consent", dove si sostiene che in mondo globalizzato è sbagliato metter in antagonismo sicurezza e diritti civili. E' un peccato che quest'autore sia praticamente sconosciuto in Italia e così la sua opera forse principale "The Schield of Achille" ("Lo scudo di Achille") in cui legge le trasformazioni del potere in relazioni all'evoluzione del rapporto legittimazione-forza e guerra-organizzazione della stessa.

Russia

Il Centro Sudi sulla Soria dell'Europa Orientale (che si può ottenere scrivendo a questo indirizzo info@csseo.org) ha prodotto un pregevole lavoro, come suo solito, su "Il Daghestan: conflitti, religione e politica" di Giovanni Bensi. E' un saggio meritorio per lo meno per tre motivi, per la sua chiarezza, per l'ampia veduta d'insieme (Russia, questione caucasica e Islam) e perché finalmente è in italiano, ma non ha niente da invidiare ai lavori dei think thank d'oltre oceano. Il Daghestan, in turco "paese dei monti", è abitato da circa due milioni di abitanti che parlano 11 lingue ed è composto da circa 14 nazionalità nessuna delle quali costituisce la maggioranza, il primo gruppo è formato dagli avari che sono il 30%. "Il Daghestan è, con la Cecenia e l'Inghusezia, una delle repubbliche più inquiete del Nord Caucaso, con ricorrenti e gravi episodi di violenza". Bensi rileva ben cinque tipologie di conflitti. 1 un conflitto politico tra esponenti locali; 2 un conflitto coloniale contro la presenza dei russi e contro l'appartenenza del paese alla federazione russa, tensione che ha prodotto scontri di tipo ceceno; 3 un conflitto religioso tra Islam moderato, quietista, di orientamento sufico e l'islam integralista, di importazione straniera (Arabia, Pakistan, Afghanistan); 4 un conflitto interetnico, legato al forte senso di appartenenza nazionale dei popoli caucasici; 5 il disordine creato dalla criminalità organizzata con strettii legami con le mafie internazionali, compresa la 'ndrangheta e la camorra, per il controllo del traffico di droga e il contrabbando.

Sempre sulla Russia, si può leggere un paper scritto da Walter per il MESH's Middle East Papers series, sulla strategia della Russia verso l'Islam. Strategia che in modo sistematico è irta di contraddizioni, la Russia infatti è sempre oscillante nella gerarchia degli obiettivi e delle minacce, stretta tra il risentimento verso l'America e il suo ruolo mondiale, ancora schiava quindi di nostalgie imperiali sovietiche, e la necessità di doversi confrontare con la forza crescente dell'Islam che crea tensioni al proprio interno e negli stati limitrofi.

Da considerare, sempre sulla situazione russa, quest'altro paper che presenta quattro case studies, disegna I trend generali del crescente e inquietante fenomeno dell'autoritarismo delle leadership nazionali all'interno della federazione ed esamina le trasformazioni politiche dei governi locali attraverso le analisi delle elite e alla luce del controllo delle industrie energetiche. Il lavoro è il frutto di ben tra i più grandi "pensatoi" europei: Research Center for East European Studies di Brema, il Center for Ssecurity Studies di Zurigo e la German Association for East European Studies.


 

Afghanistan

Un lungo articolo sul The Washington Times ripete per l'ennesima volta, ma non sono mai troppe, la lezione di Petraeus che si basa sulla costruzione di rapporti di fiducia tra la popolazione. Le guerre moderne sono infatti guerre tra la gente e lo scopo delle azioni di contro insorgenza è di portare la maggioranza silenziosa dalla propria parte: è quanto sta succedendo in Pakistan dove sia nelle istituzioni, spesso troppe volte compromesse con gli estremisti talebani, che nella popolazione sta venendo meno il supporto agli integralisti.

Ma continuano i dubbi di Obama. "Non vi è nessun dubbio che le prospettive di successo in Afghanistan sono cos' scarse a causa del comportamento del precedente presidente. Bush ha fallito per sette lunghi anni facendo mancare le truppe necessarie, risorse ma in modo particolare attenzione alla Guerra. Ma ora la guerra è la guerra del presidente Obama e il popolo americano sta aspettando che egli spieghi i suoi obiettivi e la sua strategia…la realtà politica è che più a lungo Obama aspetta, più indeciso appare e più la sua scelta sembra obbligata da fattori esterni". A dirlo non sono i reazionari dell'American Enterprise Institute, ma il New York Times. Non solo il rimprovero a Bush non è di essere stato troppo interventista, ma al contrario di essersi dimostrato disattento! (Avrei un dubbio, ma i militari dove erano? Che consigli davano tre anni fa?)

Ma la situazione interna continua a preoccupare gli alleati: l'indice di corruzione è infatti uno dei più alti del mondo gettando benzina sul fuoco delle tensioni interne e sulla stabilità del nuovo governo Karzai.

venerdì 20 novembre 2009

“L’Islam è il destino della Russia”.

Ragion Politica, 19 novembre,

"L'islam è il destino della Russia". E' una profezia, speriamo non si avveri, annunciata da Aleksei Malashenko, uno dei più attenti interpreti della realtà mussulmana dell'ex Unione Sovietica. Forse esagerata, forse no, la predizione disegna comunque uno degli scenari possibili, così sostiene Walter Laquer, il celebre saggista, esperto di terrorismo, Medio Oriente nonché autore di una pregevole storia della Repubblica di Weimar e molto altro ancora. A riprova l'andamento demografico, con il calo vertiginoso della natalità tra la popolazione slava e l'incremento altrettanto vertiginoso delle nascite tra le popolazioni mussulmane. Nonostante la Russia sia stata segnata da vere e proprie catastrofi demografiche (nel 1917-1922 in seguito alla rivoluzione, nel 1931-1932 per la carestia provocata dalla collettivizzazione forzata delle terre, nel 1941-1944 a causa della seconda guerra mondiale), la crescita della popolazione nel periodo sovietico è proceduta a ritmo sostenuto, soprattutto per l'immigrazione forzata dalle altre repubbliche sovietiche. Gli abitanti passarono dai 91 milioni del 1914 ai 116 del 1950 ai 147 del 1989. Ma dall'inizio degli anni novanta la popolazione è diminuita fino a sfiorare i 143 milioni di abitanti nel 2005, per poi scendere ulteriormente a 142 milioni (stima 2008). La causa della diminuzione della popolazione è l'incremento demografico divenuto fortemente negativo (-0,61% nel 2003) ed i consistenti flussi migratori in uscita, tedeschi verso la Germania, ebrei verso Israele, russi in cerca di lavoro verso l'Europa occidentale (dati tratti da wikipedia). Mentre i seguaci dell'Islam ammonterebbero a circa 30 milioni.

L'esistenza di questa fortissima comunità è a ricercarsi nella natura stessa dell'impero russo che nacque con un'espansione coloniale verso le terre limitrofe e non oltremare come avvenne per le potenze europee. Per gli zar, l'India e l'Africa erano a sud verso il Caucaso, a Ovest verso le pianure europee. Ma mentre a occidente le linee di espansione territoriale erano dettate da somiglianze razziali e religiose, l'attrazione negli altri casi era da ricercarsi in una supposta "naturalità" geografica.

Con il disfacimento dell'Unione Sovietica, le aree più esterne sia europee che asiatiche, i vari –stan, si sono resi indipendenti, ma entro i confini sono rimasti molte altre popolazioni non certo omogenee ai disegni del Cremlino. I fatti drammatici delle guerre caucasiche sono lì a dimostrarlo. Ma le tensioni non derivano solo da tensioni nazionalistiche interne: anche l'andamento recentissimo dell'impresa sovietica in Afghanistan ha segnato duramente la convivenza delle due comunità fino ad arrivare all'11 settembre, data esemplare per la saldatura di un problema interno con una minaccia esterna.

E qui avviene un fatto strano, che rientra appieno nella psicologia dell'elitè russa, che Laquer giustamente mette in rilievo. Invece di riconoscere il problema e la fonte del pericolo, fatto che avrebbe segnato elementi di unione e alleanza con gli stati Uniti e l'Europa, Putin ha visto nel confronto-scontro con l'occidente la prima fonte di ogni rischio per la Russia!

Questo strabismo non deve stupire. Ha colpito spesso, nel corso della storia, paesi ossessionati dai propri miti e fantasmi, basti pensare alla Germania nella Prima guerra mondiale e quindi non deve stupire che Mosca si dimentichi la propria storia, delle guerre con l'Impero Ottomano, dei racconti di Tolstoj per lanciarsi contro avversari inesistenti, in uno schema che ripete quello sovietico, dimenticandosi la realtà. Strano? No, se solo si ricorda che le biografie della leadership russa portano il segno del comunismo e dei servizi segreti. Il fatto semmai originale è che l'imprinting, invece di indebolirsi, si è andato rafforzandosi con la fine dell'impero comunista sposandosi con il rinascente nazionalismo russo di cui, ad esempio, l'ideologo Alexander Dugin è uno dei massimi esponenti. Nazional bolscevico, ammiratore di Evola e Guenon, consigliere di Putin, docente all'accademia militare, secondo Dugin la Russia ha una strada autonoma tra Oriente e Occidente in un panslavismo ortodosso che sappia prendere il meglio del fascismo e del comunismo in una sintesi, o salsa, slava. A parte la necessità di distinguere tra politica e storia delle ideologie, c'è da dire che questo pensiero, che per comodità possiamo definire tradizionalista e misticheggiante, risulta invece disorganico adatto più ad esprimere un malessere che ad offrire una risposta teorica e politica ai problemi individuati. Dugin, in una formula, è la risposta russa alla globalizzazione, è la reazione slava al mercato mondiale, alla vittoria del "valore astratto", direbbe Marx. Il punto d'avvio è una visione della politica di potenza, realista dove la geopolitica, nuova visione del modo post moderna, al posto dei vecchi "ismi", occupa il ruolo centrale di tutta la costruzione neo tradizionalista per concludersi in un anti americanismo forsennato. Se gli Stati Uniti sono la nazione con un "destino manifesto", la Russia non è da meno: ad essa spetta il ruolo di guida dell'alleanza eurasiatica contro lo strapotere atlantico. Ancora una volta terra contro mare, Sparta contro Atene. Nel mondo esistono più poli di potere, ogni popolo ha il suo destino e compito di Mosca è di difendere la propria tradizione ortodossa, slava, Europa che guarda ad Oriente entro il mondo moderno. Ecco allora la traduzione strategica: alleanza dei paesi dell' ex Unione Sovietica, riproposizione della logica delle sfere di influenza, asse con la rivoluzione nazional popolare dell'ariano Iran, sguardo benevolo verso la Cina.

Come al solito all'Europa spetterebbe un compito importantissimo , quello di rassicurare il potente vicino, tranquillizzarlo sulle nostre intenzioni pacifiche che trovano un potente alleato nelle nostre naturali esigenze energetiche. Forse, l'opposizione capirebbe di più se leggesse la politica estera di Berlusconi su questo sfondo invece di dare spazio ad escort e camere da letto.


 

 

giovedì 19 novembre 2009

Martin Shaw, “L’Occidente alla guerra “

"Nell'era della sorveglianza globale le guerre combattute dagli occidentali sono esercizi di trasferimento del rischio (dai politici ai militari e da questi all'ambiente di combattimento), il cui obiettivo sono gli eserciti nemici, ma che tendono a sacrificare in modo sproporzionato e molto più che in passato le popolazioni civili. Lo afferma Martin Shaw, professore di relazioni internazionali all'Università del Sussex, in L'Occidente alla guerra (Università Bocconi editore, Milano, 2006, 240 pagine 14 euro), un volume alla cui realizzazione ha contribuito anche un finanziamento del Centro militare di studi strategici del Ministero della difesa italiano. I politici occidentali hanno capito, dopo il Vietnam, di non potersi permettere guerre che comportino decine di migliaia di morti tra le proprie truppe, la devastazione del territorio interessato e l'esercizio indiscriminato della violenza sulle popolazioni civili. Si è sviluppato, allora, un nuovo modo di combattere che ha trovato la sua prima occasione di applicazione nella guerra delle Falklands. Il punto è che le guerre moderne si combattono nel mondo della sorveglianza globale, un mondo in cui ogni attore si trova a dover rendere conto del proprio operato ai media, agli avversari politici, alla società civile e, in ultima analisi, all'opinione pubblica. Accanto alla guerra sul campo se ne combatte, perciò, una mediatica fatta, in parte, di manipolazione e dissimulazione e, in parte, di comportamenti mirati a un effetto d'immagine anziché all'efficacia militare. La nuova dottrina, come la descrive Shaw, parte dalla costruzione cognitiva di un'economia del rischio, che misura benefici e danni in termini di consenso politico. Così la guerra dovrebbe portare vantaggi elettorali alle élite politiche, o almeno non pregiudicarne le prospettive. In questo senso, in un momento di crisi politica, Shaw sostiene che il rischio viene trasferito dai politici ai militari. Il loro obiettivo viene correttamente individuato nella distruzione dell'esercito nemico, ma secondo modalità che si discostano sostanzialmente da quelle della guerra occidentale tradizionale. Il cozzo frontale, violento e portatore di morte tra eserciti che ha caratterizzato per secoli l'arte occidentale della guerra non è politicamente proponibile in mancanza di una giustificazione difensiva cogente. Ogni volta che sale il numero dei caduti tra le file occidentali in guerre combattute lontano da casa cala infatti l'indice di popolarità dei politici che le hanno promosse. Gli eserciti occidentali cercano, perciò, di fiaccare la resistenza del nemico facendo affidamento sullo strapotere tecnologico, che gli assicura il controllo dei cieli. Nelle Falklands, in Iraq, nel Kosovo e in Afghanistan le operazioni di terra sono state precedute da lunghi bombardamenti. E dal momento che espressioni come "armi intelligenti" e "guerra di precisione" fanno parte più dell'arsenale mediatico che di quello militare, la minimizzazione del rischio per i militari occidentali si traduce in uno sproporzionato trasferimento del rischio in capo ai civili che vivono nelle zone di combattimento. Tale trasferimento, afferma con forza Shaw nel capitolo finale, che descrive il nuovo modello come già in crisi, è ingiusto sulla base dei criteri che gli occidentali stessi si sono dati per giudicare la moralità della guerra. Il lavoro di Shaw arriva a descrivere nel dettaglio, attraverso la formalizzazione di 15 regole, il nuovo modello occidentale della guerra, che viene poi sottoposto a un'attualissima verifica sul campo, applicandolo a ciò che sta avvenendo in Iraq. La verifica dà un esito tristemente positivo.

Nel quarto capitolo di L'Occidente alla guerra, Martin Shaw desume le regole della guerra risk-transfer, combattuta dall'Occidente nell'era della sorveglianza globale. Le riportiamo. 1. Le guerre devono rispondere a rischi portati a interessi, leggi e valori occidentali percepiti come plausibili. 2. Le guerre devono essere limitate quanto ai rischi che procurano ai sistemi politici, alle economie e alle società occidentali. 3. Le guerre sono assunzioni di rischio politico, quindi devono minimizzare i rischi elettorali per i governi e (se possibile) massimizzarne i vantaggi. 4. Le guerre devono anticipare i problemi della sorveglianza globale. 5. Le guerre devono essere strettamente limitate temporalmente: diventano guerre istantanee. 6. Le guerre devono essere spazialmente confinate in zone di guerra remote. 7. Le guerre devono, prima di tutto, minimizzare le perdite delle truppe occidentali. 8. Le forze occidentali devono contare principalmente sulla potenza aerea e vedere che altri – per quanto possibile – si assumano il rischio sul terreno. 9. Il nemico deve essere ucciso: efficientemente, rapidamente e discretamente. 10. Il rischio di perdite civili «accidentali» deve essere minimizzato, ma i piccoli massacri devono essere considerati come inevitabili. 11. Le guerre contano sulle armi «di precisione» per sostenere la propria legittimità. 12. La morte e la sofferenza non si devono vedere: più accettabili sono i rischi indiretti, meno visibili e meno quantificabili, per la vita umana. 13. I rischi a lungo termine del dopoguerra devono essere condivisi il più possibile attraverso una divisione internazionale del lavoro. 14. L'«umanitarismo» e le organizzazione «umanitarie» devono essere coinvolti per compensare la violenza inflitta ai civili. 15. La gestione dei media è essenziale: deve controllare le narrazioni che spiegano le immagini della guerra" 

Ufficio stampa EGEA

 
 

Questo approfondimento è legato all'articolo "L'Occidente va alla guerra. Prime vittime, i civili"

mercoledì 18 novembre 2009

Book - Martin Shaw - The New Western Way of War

Book - Martin Shaw - The New Western Way of War

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La Russia e l’Islam

Articolo dell'agosto del 2008

Sul blog
Middle East Strategy at Harvard è comparso un bell'articolo sul rapporto complesso tra la Russia e l'Islam da parte di Walter Laquer che apparirà prossimamente su RagionPolitica. Intanto ecco un mio articolo dell'anno scorso su una singolare figura di panslavista,Dugin, sostene di una terza via tra capitalismo e comunismo, tra Oriente e Occidente citato anche dallo studioso americano.

Adesso che in Georgia la situazione sul campo è purtroppo chiara – disastrosa sconfitta militare di Tiblisi, occupazione dell'Abkazia e dell'Ossezia del sud, pulizia etnica dei villaggi georgiani in quest'ultima regione, batosta economica, umiliazione dell'alleato americano - diventa urgente elaborare una risposta che limiti i danni e disinneschi una crisi ormai internazionale e costituisca una base di rilancio per una soluzione credibile dell'ennesima crisi caucasica. Per riuscire ad elaborare una simile strategia tutti i paesi occidentali, ma soprattutto quelli europei, devono capire la logica dell'azione russa, comprendere appieno la narrazione e le percezioni che hanno ispirato una reazione così forte e inaspettata. E la non previsione della rabbiosa risposta di Mosca infatti significa una drammatica sola cosa. Che le nostre cancellerie, servizi, analisti e quant'altro non hanno né informazioni né chiavi di lettura degli eventi adatti a leggere la "scatola nera" del Cremlino. Questa incomprensione delle vicende internazionali è una caratteristiche del dopo '89: sembra proprio che "la rivincita della storia" a seguito della chiusura definitiva del "secolo breve" caratterizzato dalla guerra civile europea, e la fine delle ideologie, sia solo uno slogan a cui ricorrere "dopo" che qualche catastrofe è successa. In altri termini, sembra che la storia non fornisca nessun strumento né di previsione né di elaborazione di possibili soluzioni politiche alle tanti crisi in atto. Conclusione drammatica: se così fosse, significa che la politica di cui oggi disponiamo – quella prodotta dagli Stati Uniti, dalla Unione Europea, dalle organizzazioni internazionali e quant'altro - non è in grado di governare gli eventi, che la politica è, in una parola, impotente o per lo meno sempre in ritardo e in affanno. Ripresa della storia vuol dire una cosa soltanto: riscoperta delle forze profonde di lunga durata, architravi della società nei tempi della globalizzazione e capire che ancora una volta, come nel caso dello scontro di civiltà tra occidente e islam, la chiave di volta sta lì nello snodo tra modernizzazione cosmopolita e storie e tradizioni particolari, nei contraccolpi che lo sviluppo del mercato globale provoca nei teatri locali. E' questo sfondo epocale che disegna e delimita il campo d'azione della politica, delle strategie dei vari attori, uomini in carne ed ossa, trait d'union tra presente e passato, tra innovazione e tradizione con le loro identità composte di storia, sensibilità e percezioni.

Comprendere la portata dei drammatici eventi georgiani vuol dire allora, come afferma Piero Ostellino sul Corriere della Sera del 5 settembre, cercare di leggere l'aggressione russa contro la Georgia entro un quadro culturale e ideologico della politica estera del gigante eurasiatico che ha attraversato tutte le vicende storiche a partire dall'epoca post napoleonica ad oggi, attraversando anche la Russia sovietica in sostanziale continuità dagli zar alla democrazia autoritaria post comunista di Putin. Si tratta di disegnare un quadro coerente che riesca a spiegare allo stesso tempo la matrice culturale, e sentimentale, delle reali azioni politiche. La parola magica usata dai commentatori in questo caso è "sindrome d'accerchiamento". La Russia agisce in modo aggressivo a causa della sua naturale situazione geografica, impero terrestre senza confini naturali che lo difendano dalle minacce esterne. E' sempre stato così dai tempi di Pietro il Grande a Lenin, che soffocò l'indipendenza della Georgia nel 1921, a Stalin per finire a Putin. Il tratto costante è sempre l'espansionismo territoriale che si afferma per volontà del governo centrale sulla base del nazionalismo russo. La Russia con la sua missione speciale di mondo diverso sia dall'occidente che dall'oriente, sia dal materialismo mercantile che dal mondo barbaro dell'Asia. Come tutte le ideologie, l'appello al ruolo unico di Mosca nella storia serve anche a giustificare e razionalizzare la sua situazione, a dare una spiegazione della cronica arretratezza e delle difficoltà con cui la Russia fa i conti con i processi di modernizzazione.

Anche oggi è così. A riprova si prendano le dichiarazioni dell'ideologo Alexander Dugin, nazional bolscevico, ammiratore di Evola e Guenon, nonché fondatore del movimento Eurasia, docente di geopolitica all'Accademia militare russa e consigliere di Putin. Una premessa necessaria. La cultura occidentale ufficiale, in modo particolare quella liberal, ha scarsa simpatia e dimestichezza con pensatori e idee non ortodosse e accademiche perché ha bollato il filone conservatore reazionario e tradizionalista, a causa della adesione dei suoi ammiratori nel campo della destra nazi fascista, come qualcosa di riprovevole, superato e non scientifico, frutto dei deliri irrazionali di qualche folle visionario spesso antisemita. Anche la asistemacità, una certa frammentarietà, una lunga consuetudine con il pensiero esoterico hanno contribuito a isolarlo dall'accademia internazionale esclusa una cerchia limitata di studiosi. A parte la necessità di distinguere tra politica e storia delle ideologie, c'è da dire che questo area di pensiero, che per comodità possiamo definire tradizionalista e misticheggiante, risulta disorganica e difficilmente assimilabile sia al nazifascismo che al comunismo. Lo dimostrano le vicende di un personaggio quale il tedesco Ernst Karl August Niekish, fondatore del nazionalbolscevismo, volontario nella prima guerra mondiale, aderente prima alla socialdemocrazia, poi al nazismo che lo mise in campo di concentramento da cui fu liberato dai russi, iscritto alla SED - il partito comunista della DDR – nella ricerca di un comunismo veramente tedesco e quindi messo al bando anche dai tedeschi dell'est perché approvò gli scioperi di Bertlino del 1953. Morì infine nella Germania occidentale nel 1967.

Dugin, in una formula, è la risposta russa alla globalizzazione, è la reazione slava al marcatismo tremontiano. In due interviste, una rilasciata a Marcello Foa sul Giornale dell'11 agosto e l'altra sul Los Angeles Times del 3 settembre, sostiene un quadro coerente e le sue posizioni estremiste, nonostante non siano certamente condivise dall'ala modernizzatrice, costituiscono comunque un orizzonte comune a gran parte del popolo e della leadership russa.

Il punto d'avvio è una visione della politica di potenza, realista dove la geopolitica, nuova visione del modo post moderna, al posto dei vecchi "ismi", occupa il ruolo centrale di tutta la costruzione neo tradizionalista per concludersi in un anti americanismo forsennato. Se gli Stati Uniti sono la nazione con un "destino manifesto", la Russia non è da meno: ad essa spetta il ruolo di guida dell'alleanza eurasiatica contro lo strapotere atlantico. Ancora una volta terra contro mare, Sparta contro Atene. Nel mondo esistono più poli di potere, ogni popolo ha il suo destino e compito di Mosca è di difendere la propria tradizione ortodossa, slava, Europa che guarda ad Oriente entro il mondo moderno. Ecco allora la traduzione strategica: alleanza dei paesi dell' ex Unione Sovietica, riproposizione della logica delle sfere di influenza, asse con la rivoluzione nazional popolare dell'ariano Iran, sguardo benevolo verso la Cina. Sembra di riascoltare un disco già sentito: la "grande proletaria", l'impero romano, l'arci italiano, l'anticapitalismo romantico contro le potenze anglosassoni. Ma non si sorrida sdegnati dall'approssimazioni teoriche o dall'antisemitismo o dalla rozzezza politica: l'uso del petrolio e del gas come armi stanno davanti a noi a rendere credibile qualsiasi sogno o sragionamento.

Rimane per i paesi atlantici ed in modo particolare per quelli europei il compito di dipanare una matassa internazionale estremamente intricata. Al di là delle superfetazioni retoriche, il senso della sfida è chiaro e verte su uno snodo centrale: la globalizzazione deve portare il sigillo dell'unipolarismo americano? E se così, gli Stati Uniti sono in grado, hanno la forza per mantenersi come unica super potenza imperiale? E per quanto ancora?

martedì 17 novembre 2009

KERRY E L’AFGHANISTAN

Ragion Politica, 17 novembre 2009

Il senatore Kerry, sull' ultimo numero di News Week, dedica un articolo al sempre eterno, per gli americani, problema storico per eccellenza: la guerra del Vietnam. Tema politico oltre che storico a dimostrazione della continua riproposizione dei dilemmi che allora si affacciarono alla leadership statunitense stretta tra doveri di difesa dall'espansione comunista, e quindi interventisti, e spinte isolazioniste. Non è quindi un caso che un simile dibattito ritorni adesso che il presidente Obama deve scegliere la giusta strategia per l'Afghanistan, indeciso tra un maggiore impegno, come richiesto dal comandante MCCrystal, e la stanchezza della guerra che si sta affacciando tra l'opinione pubblica americana dopo quasi otto anni di guerra che fa pendere la bilancia verso la scelta di una strategia meno dispendiosa che ora va sotto il nome di "antiterrorismo".

L'articolo è intitolato "Beware the Revisionists", "attenzione ai revisionisti", e ripete l'ammonizione che Shakspeare mette in bocca all'indovino cieco all'inizio del Giulio Cesare "Caesar,Caesar, beware the ides of march!" e dà un' idea precisa del rischio che interpretazioni sbagliate, secondo il senatore democratico, delle lezioni che vengono da lontano possano fornire alla politica. La catastrofe è lì, sempre pronta a inghiottire ogni sogno di riuscire a dominare le periferie del mondo. Kerry, veterano del Vietnam, si scaglia contro una rilettura del conflitto che attribuisce la sconfitta al crollo del fronte interno, al collasso della volontà americana di combattere. La tesi dei "revisionisti" è ben articolata e parte dal paradosso caratteristico di tutte le guerre di contro insorgenza dove uno stato enormemente più forte si scontra con un nemico molto più debole. Come è possibile che un esercito che non ha mai perso una battaglia sia costretto a levare le tende e tornare a casa? Perché tra la jungle o le maontagne di paesi in via di sviluppo, o del terzo mondo, le vittorie militari non si traducono in vittoria politica? E arriva alla conclusione che a cedere non fu il fronte esterno, ma a mancare fu proprio la volontà dei combattenti, dell'opinione pubblica, dei politici, insomma a crollare fu l'intero paese distrutto nel morale da una guerra di cui non capiva più la ragion d'essere. E ironia della sorte proprio mentre la nuova strategia messa a punto dal generale Abrams, che aveva sostituito Westmoreland dopo l'offensiva del Tet, stava funzionando. Fin dal suo arrivo, il nuovo comandante aveva infatti inaugurato una classica strategia di contro insorgenza diretta alla conquista delle menti e dei cuori dei vietnamiti del sud, cioè diretta a soddisfare le esigenze della popolazione, e non più solo concentrata sull'aspetto prettamente militare del nemico come era la famigerata dottrina d'attrito "search and destroy" di Westmoreland.

Kerry si schiera chiaramente contro questa interpretazione, appoggiata anche dal colonnello Nagl autore di un pregevole libro sulla guerra di contro insorgenza "How learn a soup with a knife" nonché consulente di prima di Petraeus in Iraq e adesso di MCCrystal in Afghanistan, sostenendo che questi revisionisti non capiscono un punto centrale. A mancare in Vietnam non fu la tattica, le vittorie sul campo, bensì la strategia. Con le parole di Sun Tzu, "la tattica senza la strategia è il rumore prima della sconfitta".

Il messaggio politico è chiaro. L'attuale discussione sull'Afghanistan è mal posta, quello che non funziona non è se sia giusto o sbagliato inviare qualche decina di migliaia di uomini in più, ma definire per che cosa stiamo combattendo, quali siano l'obiettivo politico e quello militare, la visione generale e il centro di gravità del nemico. Obama deve stare attento alle sirene- novelli Bruto?- che vorrebbero costringerlo ad un maggiore impegno in Afghanistan.

Ha ragione Kerry? Senz'altro porta argomenti da non sottovalutare, ma in Vietnam molti furono gli errori commessi dagli americani in un elenco senza fine. Ma se non vogliamo fare i grilli parlanti o gli indovini dopo che la festa è finita, le uniche osservazioni serie che si possono fare sull'attuale situazione in confronto al Vietnam sono le seguenti. La prima, in Vietnam come in Afghanistan e in Iraq, si sta combattendo una guerra limitata e non totale, cioè la guerra è al servizio della politica che deve mettere bocca sempre e comunque negli affari militari; in secondo luogo, è necessario definire chiaramente in che cosa consiste la vittoria militare e politica per gli americani e i loro alleati, obiettivo che può essere anche diverso da quello degli afghani, vero e proprio work in progress; terzo, ogni uso della forza che non tuteli la vita dei civili non è possibile, né tollerabile moralmente, politicamente e legalmente; quarto, nessuna small war può essere combattuta interamente per procura, i primi attori devono essere gli afghani stessi e in primo luogo il governo che si sono scelti; infine, uno dei fattori maggiori che influiscono sullo sconfitta degli eserciti occidentali è l'esistenza dei santuari all'esterno dei confini (allora era la Cambogia e il Laos, oggi il Pakistan).

Quello che è certo è che se sulla storia si può discutere all'infinito senza pagare nessun pegno, in guerra il tempo è una risorsa scarsissima e Obama farebbe meglio a decidere al più presto, perché lo spettacolo che sta offrendo è francamente poco edificante.

domenica 15 novembre 2009

Appunti internazionali 20

L'Occidentale, sabato 14 novembre 2009


 

E' uscito un nuovo report sulla Cina a cura del Center for American Progress che, assieme ai due precedenti A Global Imperative A Progressive Approach to U.S.-China Relations in the 21st Century del settembre 2008 e il recentissimo China's New Engagement in the International System In the Ring, but Punching Below its Weight (novembre 2009), da un'idea abbastanza esaustiva su quali saranno i punti principali del confronto con gli Stati Uniti. La filosofia consigliata, che ispira tutti e tre i report, è quella di andare verso un inserimento sempre maggiore della super potenza asiatica nel sistema internazionale e di coinvolgerla nelle trattative sulle grandi questioni strategiche globali quali la gestione dell'ambiente e il controllo degli armamenti nucleari. Il fine è quello di costruire tra i due paesi un clima costruttivo dominato dalla "strategic reassurance"— termine coniato dal sostituto segretario di stato James Steinberg - da raggiungere anche con la costruzione di un sistema di sicurezza regionale che preveda anche Pechino. Strategia certo meritevole d'attenzione ma che fino ad oggi si era scontrata con un problema pesante come un macigno, la questione dei diritti umani che la Cina si ostina a considerare fatti interni. Ora Obama, il premio nobel preventivo per la pace, sembra in nome della nuova politica aver accettato il punto di vista cinese e infatti si è rifiutato di ricevere il Dalai Lama in visita negli Stati Uniti.

Il limite di questa visione è sempre il solito, credere che l'altro attore sia mosso dalle stesse nostre buon intenzioni, speranza che comporta che lo si guardi senza pregiudizio, e questo è giusto, ma anche che ogni cautela venga messa da parte, ad esempio non organizzando una strategia di contenimento, e questo è veramente rischioso. E' quanto sostiene un bel fondo Daniel Blumenthal
dell'American Enterprise Institute.

Palestina

Se si dovesse fare un bilancio dell'attività di al Fatah, la storica organizzazione del popolo palestinese, non potrebbe essere altro che disastroso. Un partito segnato dalla corruzione, che non è riuscito a vincere le uniche elezioni importanti, attraversato da faide e lotte fratricide, che ha mancato nell'obiettivo di dare una terra al proprio popolo sia attraverso la forza che attraverso negoziati di pace e incapace perfino di autogoverno. Questa è oggi Al Fatah, ma è con questa realtà che dobbiamo fare i conti. Oggi l'organizzazione deve confrontarsi con la necessità di sviluppare una nuova politica che sciolga per lo meno tre nodi: il rapporto con Hamas, le modalità d'azione verso Israele, la chiarezza di rapporti e la divisione dei ruoli con l'Autorità Palestinese.

Iraq

Le cose sembrano andare meglio in Iraq adesso che il parlamento ha raggiunto un accordo sulla data e le modalità delle prossime elezioni amministrative. Questo risultato lo si deve, come ormai è risaputo, ad una molteplicità di fattori, dalla decisione dei sunniti filo Saddam di abbandonare Al Qaida, dalla tregua lanciata da Motqada Al Sadr – grazie alla mediazione iraniana -, all'efficacia della strategia americana intrapresa dal generale Petraeus. Ora arriva un bel documentario, "The Surge. The Untold Story" a cura dell'Institute for the study of War. E' il racconto dei fatti che vanno dal gennaio 2007, quando il presidente Bush decise l'invio di nuove truppe, al luglio 2008, data in cui fu ritirata l'ultima brigata inviata per l'operazione di anti insurrezione. La guerra civile tra sciti e sunniti era, infatti, diventata devastante dopo che una boma aveva distrutto, il 22 febbraio 2006, la moschea scita di Al-Askari Shrine a Samarra.

Afghanistan

Sempre restando in termini di documentari, si può vedere quest'altro filmato della PBS. E' estremamente interessante e rende l'idea di quello che sta accadendo laggiù, meglio di molti discorsi. C'è una pattuglia che gira tra lande semideserte e polverose, che non capisce bene dove si trova, con un interprete che non parla il dialetto del luogo, in mezzo ad un contrasto surreale tra la iper tecnologia americana e la miseria medievale di quelle campagne. Ad un certo punto, secondo me il climax di tutto il film, il comandante americano si ferma ad interrogare un gruppo di abitanti di un villaggio, sul perché non si ribellino ai talebani e un contadino, davanti a una casa di fango, risponde semplicemente e ridendo, "se non potete fare niente voi con i carri armati, gli elicotteri, che cosa possiamo fare noi?" A conferma, dopo poco, ecco che la pattuglia è presa di mira dal fuoco dei combattenti islamisti. Ma è un filmato tragico che mostra anche la faccia feroce della guerra con il ferimento grave di un giovane marine.

Bosnia

Venendo a casa nostra, ecco un aggiornamento sui Balcani, il pilastro europeo di quell'enorme arco di crisi che arriva fino all'Afghanistan. La situazione in Bosnia è sempre delicata e precaria date le frizioni continue tra le due entità para statali in cui è suddivisa la regione. Se entro breve termine non si troverà una soluzione, sarà difficile per l'Unione Europea e gli Stati Uniti riuscire delineare un futuro di sicurezza condiviso.

Da Leone a Marrazzo

Secolo d'Italia, 13 novembre 2009

Giuliano Ferrara, commentando i recenti scandali sessuali politico, ha fatto un paragone con la campagna contro il Fanfascismo che Lotta Continua lanciò contro la candidatura dell'uomo politico aretino per la presidenza della Repubblica nel 1971. Ma il paragone non tiene, quella seppure distorta era una campagna tutta politica che si basava su un'idea politica inesistente, Fanfani novello De Gaulle, e mistificatoria perchè vedeva nel presidenzialismo una sorta di totalitarismo, lanciata per di più da una piccola minoranza urlante. Se un confronto storico vogliamo farlo, possiamo trovare un precedente nel caso delle prime e uniche dimissioni della più alta carica dello stato a seguito dell'azione diffamatoria di quelli che oggi possiamo chiamare i soliti noti.

Sono passati più di trenta ani da quel 15 giugno del 1978, quando il presidente della Repubblica Giovanni Leone uscì dal Quirinale a bordo di una auto blu per non rimetterci più piede. Eppure avrebbe dovuto restarci ancora pochi mesi per finire il suo mandato naturalmente. Ma qualcosa si era rotto definitivamente nella vita politica italiana. Per la prima volta una campagna stampa, feroce, dura, senza esclusione di colpi, improntata al più puro moralismo, faceva sul campo una vittima illustre. Per la prima volta una battaglia politica non era prodotta e gestita dai partiti ma da agenti esterni, dai mass media innanzitutto.

Se le vicende di questi mesi, dalle escort di Berlusconi al caso Marrazzo, devono trovare un origine è in quelli anni e in quella montagna di menzogne lanciate contro il presidente napoletano.

Nessuna delle accuse sollevate contro di lui era vera, il casus belli – l'affaire Antilope Cobbler, storia di presunte tangenti pagate dalla Lookheed per la vendita degli aerei C-130 – si rivelò solo una semplice scusa per accanisrsi contro un simbolo del "malgoverno democristiano", preso come dato di fatto, al di là della legge.

Ecco questo è il punto del meccanismo diffamatorio valido allora come oggi.

Si costruisce un assioma, gli letti dal popolo non rappresentano la maggioranza del paese, i governanti sono giudicati immorali e indegni da un tribunale di auto proclamatisi giusti, e il risultato omicida giacobino è ottenuto. Questo meccanismo fu per la prima volta messo appunto in quella vicenda.

Una valanga di fango avvolse il presidente Leone, gettata a man bassa dallo stesso gruppo editoriale di adesso, dall'Espresso, da Repubblica a cui fecero da cassa di risonanza i radicali di Pannella e Bonino. Il PCI, ecco la seconda novità, si adeguò, seguì l'onda dell'indignazione extrapolitica chiedendo anche lui le dimissioni. Camilla Cederna scrisse anche un pamphlet di successo "Giovanni Leone. La carriera di un presidente" nel 1978 che le costò anche una condanna per diffamazione, quando il danno ormai era fatto, perché rimane sempre vero il detto di Goebbles,"diffama, diffama, qualche cosa rimane sempre".

Niente contò. Non importava che Leone fosse un fine giurista, allievo prediletto di De Nicola, che fosse salito in cattedra a 35 anni, che fosse stato nominato senatore a vita nel 1967, che avesse esercitato il suo mandato presidenziale all'insegna di un rispetto assoluto della Costituzione. Si rileggano i suoi scritti giuridici, ma anche quel messaggio alla Camera del 15 ottobre 1975 sullo stato di crisi delle istituzioni italiane per giudicare della sua competenza. Era napoletano, sposato con una splendida donna, faceva le scaramantiche corna contro il malocchio, i suoi figli erano esuberanti, tanto bastò a renderlo indifendibile!

Nel suo caso la DC di Zaccagnini non si rese conto che lasciare che si rompesse la diga della decenza voleva dire cedere davanti all'imbarbarimento del paese. Il copione come si vede è sempre lo stesso che poi si ripeterà sempre uguale, passando da tangentopoli fino ad arrivare ad oggi. Il solito gruppo editoriale all'attacco, qualche compagno di strada politico un po' stupido che spera di trarre un po' di guadagno dalla situazione e si lancia in prima linea contro il bersaglio, i comunisti che si adeguano, la sinistra DC, alleata del PCI, contro anche i suoi.

Tutti, ma non Camilla Cederna, dopo trenta anni!, a chieder scusa, a dire che si erano sbagliati e che Leone si era comportato con grande dignità. Nemmeno il coraggio di stare zitti per sempre, di rinchiudersi in un convento nel deserto. Si potrebbe obiettare che almeno hanno fato il gesto. Non è vero. Si prenda per esempio l'articolo che Gianluigi Melega scrisse il 10 novembre 2001 su Repubblica. "Forse la storia sarà ingiusta con lui e sinceramente me ne dispiace". L'articolo quindi inizia in modo civile con una atto di pietas che ci fa intravedere un uomo e non un giustiziere dietro la firma, ma poi a raffreddare la nostra empatia, ecco il colpo di grazia. Ma "Leone non capì mai che ciò che può essere tollerato in un cittadino qualsiasi, diventa assolutamente insopportabile in chi ricopra la carica di capo dello Stato. Leone al Quirinale ritenne di poter continuare a comportarsi come quando era un avvocato di successo, alla maniera un po' barzellettistica di un goliardico carosello napoletano, in cui ladri e avvocati e famigli e compari d' impresa e banchieri falliti e guitti e maneggioni d' affari e rappresentanti pubblici si scambiano le parti senza scandalo, cantando «O sole mio» ed esorcizzando il malocchio facendo le corna".

Quindi non importa che ci sia nessun reato, quello che importa è non piacere ad una elite giustizialista che si colloca su di un piedistallo, quello che contano sono comportamenti e atteggiamenti popolari sgraditi ad un gruppo editoriale, quello che conta è tenere il governo sotto scacco, dettare la linea alle opposizioni, diventare il vero partito di opposizione. Se c'è un colpevole, questo non è l'autore dello scatenamento dell'odio, chi ha scagliato la propria pietra, ma la vittima, perché il proprio comportamento era compatibile con quello del possibile corrotto. Roba da matti. C'è da impazzire davanti a questo modo di ragionare.

Il meccanismo è bestiale, infernale e implacabile nella sua semplicità, prima si infanga la vittima e poi si dice che non può svolgere quel ruolo istituzionale perché non all'altezza, perché ormai delegittimato dal suo stesso modus vivendi. E infatti ecco che il nostro giornalista sostiene con tranquillità: "ciò a cui assistiamo oggi, con protagonisti politici che ghignano impuniti quando vengono accusati delle più basse nefandezze, fa apparire uno scherzo quanto accadde allora e Giovanni Leone una vittima precoce dello sviluppo gangsteristico della politica italiana".


 

mercoledì 11 novembre 2009

Appunti Internazionali di sicurezza e difesa: quale strategia per gli USA nel mondo post-unipolare?

L'occidentale, 8 novembre

In questo numero, una lunga rassegna sulle scelte strategiche degli Stati Uniti con le posizioni a confronto dei neocon, del sottosegretario alla difesa e dello stratega e saggista Krepinevic e infine un docuemnto imprtante sull'islamismo.

Difesa Usa

Lo straordinario impegno militare degli Stati Uniti nel mondo ci ricorda sempre una verità fondamentale: l'America è, nonostante tutto, il garante ultimo dell'ordine mondiale, il produttore di sicurezza che tutti gli stati, e in modo particolare noi europei, consumiamo. Per questo merita particolare attenzione il dibattito sulla sua politica estera e di sicurezza che sta avvenendo sulle pagine e sui siti specializzati americani.

A dare inizio, un lungo saggio di Andrew F. Krepinevich Jr., analista militare autore di un celebre libro sul Vietnam "The Army and Vietnam"
(qui riportato un capitolo) dove sosteneva che gli Stati Uniti entrarono in guerra impreparati a combattere una guerra di contro insorgenza perché credevano di stare affrontando una propaggine dell'Armata rossa. (Idea vera solo in parte. E' vero che gli americani credevano di avere di fronte degli esecutori degli ordini di Mosca, è vero che vedevano il mondo comunista come qualcosa di unitario e monolitico, è anche vero che vedevano il pericolo del Vietnam del Nord, e non dei vietcong, sul modello coreano, ma avevano ben studiato la guerra rivoluzionaria di stampo maoista e che erano stati a fianco dei francesi fin dai tempi dell'Indocina. Forse erano più preparati allora alle guerre di contro insorgenza che alla caduta di Saddam).

In questo recente saggio su Foreign Affairs sul futuro della difesa americana, Krepinevich afferma che Washington deve ridisegnare un nuovo quadro strategico all'altezza delle sfide contemporanee, perché il vantaggio competitivo in termini di sicurezza degli U.S. A.,che assicurava loro "il dominio globale", si sta consumando. La supremazia militare garantiva agli Stati Uniti l'accesso alle materie prime, assicurava la salvaguardia della patria e permetteva di fornire la sicurezza globale. Supremazia tecnologica e logistica, sistemi d'arma all'avanguardia, una capacità di proiezione unica, un sistema di basi intorno al mondo e una rete di alleanze militari diffuse rappresentavano i pilastri che reggevano tutto l'edificio. L'obiettivo, fino alla conclusione della guerra fredda, si stagliava chiaro e netto. Contenere la potenza sovietica, scoraggiare un'eventuale aggressione, costruire un'economia americana forte e stabile, garantire la libertà di mercato per tutto il mondo, rassicurare gli stati amici. Questa era la cornice strategica disegnata da Truman e Eisenhower. Ma dalla caduta del muro ad oggi, complice l'11 settembre, gli Stati Uniti sono passati dall'illusione di un mondo unipolare alla necessità di fronteggiare nemici sconosciuti come il fondamentalismo islamico, gli stati falliti, le guerre asimmetriche, mentre nuove potenze mondiali, come la Cina, e sfidanti regionali agguerriti e "intelligenti", si pensi all'Iran, emergono con forza.

A stupire non è certo l'analisi delle capacità belliche della Cina, ma il risultato di un'esercitazione condotta nel 2002, "Millennium Challenge 2002", che simulava l'attacco ad uno stato del Golfo Persico, di certo l'Iran, dotato di armi HT, di una buona logistica, determinazione, e di una strategia simili a quella che lo stato maggiore di Theran sta elaborando (sistemi anti missile mobili, sottomarini veloci e piccoli, sciami di barchini anti nave ecc.). "Le forze 'iraniane', comandate dal Generale dei marines Paul Van Riper, si sono battute con successo contro le forze USA in ogni scontro". Dato di fatto che lede la indiscussa capacità di proiezione americana in tutte le aeree del mondo.

Ma alle nuove difficoltà strategiche devono essere aggiunto anche il declino degli USA come super potenza economica produttrice di ricchezza. La crisi economica, il debito estero, la crescente debolezza del dollaro sono segnali inquuietanti di cui bisogna tener conto per elaborare una nuova dottrina strategica all'altezza delle sfide attuali.

La soluzione avanzata è che gli interventi dell'Iraq e dell'Afghanistan devono rimanere un' eccezione e infatti il titolo è eloquente "The Pentagon's Wasting Assets", "Lo spreco del Pentagono". "Tutto questo suggerisce che gli Stati Uniti devono perseguire una strategia più modesta di quella avanzata da Bush all'indomani dell'11 settembre – una che rifletta un bilanciamento migliore tra scopi e risorse". Insomma l'America deve sviluppare un "approccio indiretto verso le aree di instabilità nel mondo in via di sviluppo" – leggi Iraq e Afghanistan – "conservando il nocciolo delle risorse per affrontare altre priorità strategiche", anche vista la tendenza degli alleati europei e del Giappone a non aprire il loro portafoglio per la difesa pur di non intaccare la spesa sociale.

Contro questa conclusione si scaglia Thomas Donnelly, studioso dell'American Enterprise Institute. "L' idea centrale di Krepinevich è che, dopo il collasso dell'Unione Sovietica, gli Stati Uniti dovrebbero concentrarsi sulla deterrenza di una grande potenza competitrice, con mezzi diversi dal fattore umano quali sistemi d'arma high-tech, forze speciali ecc. (Quindi), investire in tecnologia (in modo particolare per strike di lungo raggio), evitare impegni di forze terrestri (specialmente in conflitti di lunga durata contro forze irregolari) e riformulare una strategia alla luce di mezzi limitati (piuttosto che aumentare le spese)". Ed ecco la conclusione caustica dell'analista dell'AEI, "questo approccio è stato provato, ma ha fallito".

Anche Michele Flournoy, sottosegretario alla Difesa, e Shawn Brimley presentano una riflessione puntuale sulle nuove sfide strategiche. "La recente esperienza di guerra americana, combinata con intuizioni derivate da altri conflitti contemporanei, suggerisce che gli Stati Uniti andranno a confrontarsi con tre tipi di sfide: tensioni crescenti per l' approvvigionamento delle materie prime, minacce ibride che utilizzano metodi regolari e irregolari, e il problema degli stati deboli e falliti". Quello che però è necessario per gli USA è ridisegnare una grande politica del post guerra fredda individuando una visione e degli obiettivi condivisi da tutte le nazioni di buona volontà.

Nel frattempo, Obama ha firmato il National Defense Authorization Act per l'anno fiscale 2010 attraverso cui vengono stanziati 550 miliardi alle normali funzioni e altri 130 miliardi a finanziare le operazioni in Iraq e Afghanistan.


 


 

Islam

A volte sembrano incredibili alle nostre orecchie i comunicati di Al Qaida, ben più estranei alla nostra capacità di comprensione delle deliranti affermazioni delle BR degli anni Settanta e Ottanta. Eppure sono veri, come reale il progetto, per noi pura fantasia, della possibilità di rinascita di un nuovo califfato che comprenda anche l'Europa e alla penetrazione della legge islamica, non solo della religione dell'Islam, in America. L'organizzazione islamica Hizb ut-Tahrir (HT) ha tenuto la sua prima conferenza sul Khilafah (parola araba per "califfato") negli Stati Uniti il 19 luglio scorso all'Hotel Hilton a Oak Lawn, Illinois a cui hanno partecipato circa 400 persone. La conferenza dal titolo "Caduta del capitalismo e nascita dell'Islam" ha patrocinato la causa della propagazione del sistema finanziario islamico e le tappe per stabilire il califfato islamico globale.

La retorica americana è inutile di fronte alla minaccia iraniana

Ragionpolitica 11 novembre 2009

C'è sempre per lo meno un tocco di ingenuità che segna la politica estera americana. Se è giusto mostrare il ramoscello d'olivo verso il mondo per dimostrare che il rifiuto arriva sempre dall'altra parte, spesso però la retorica sembra essere troppo sdolcinata e senza costrutto, come se le parole fossero non solo la forma ma anche il contenuto. Il risultato è un impasse a livello internazionale quasi incomprensibile per non dire autolesionista. Prendiamo ad esempio il caso dell'Iran. Non c'è dubbio che il paese del pavone sia una nazione piena di contraddizioni e sia governato da un regime tutt'altro che monolitico che presenta scricchiolii anche incoraggianti. Ma un occhio critico non può non negare la natura ideologica della rivoluzione khomenista che nasce con il duplice scopo di cercare l'egemonia del mondo mussulmano, la lotta contro il secolarismo occidentale, contro la modernità e i suoi massimi protagonisti gli Stati Uniti cristiani e massoni e il nemico cosmopolita giudaico, Israele, senza dimenticarsi che entrambi gli obiettivi passano attraverso il passaggio intermedio della ricerca di un predominio regionale.

Un approccio realista ma attento alla portata delle idee non può misconoscere la realtà di un simile comportamento insensibile ad ogni tentativo di dialogo razionale e pragmatico; insomma l'Iran di Ahmanidejad non vuole parlare, i suoi obiettivi non sono negoziabili; ogni concessione è solo tattica e fatta per prendere tempo. Minacce e promesse hanno poco effetto su di un regime i cui leader percepiscono l'esistenza dei due Satana come un pericolo, di per sé, alla prosecuzione di quel regime teocratico.

Chi si dimentica la natura dell'ideologia, il suo essere refrattaria alla ragione, dimostra di non aver capito niente del secolo breve e della natura dei totalitarismo occidentali e si dimentica che entrambi hanno perso le unghie non certo attraverso il dialogo.

Se si vuole fermare la corsa verso il nucleare iraniano abbiamo solo due possibilità: o un cambio di regime interno o l'uso della forza a cominciare da un'applicazione dura delle sanzioni.

lunedì 2 novembre 2009

I’omicidio di Napoli, il video e un giudizio di Giovanni Formicola

Gentilissimo Signor Direttore,

 
 

la registrazione dal vivo di un omicidio commesso in pieno giorno e nel cuore di Napoli, con feroce e fredda indifferenza l'abbiamo vista tutti.

 
 

Sono certamente facile profeta se prevedo che esso sarà - anzi, probabilmente già è - un video-cult (come oggi si dice) sui telefonini e pc di giovani e meno giovani, e non solo della malaNapoli. Ma sono almeno altre due le riflessioni che la visione di quel filmato impone.

 
 

La prima riguarda la sanzione da infliggere, se sarà individuato ed assicurato alla giustizia, al colpevole. Sfido chiunque a dimostrare che qualunque pena che sia meno dell'impiccagione possa essere giusta (e si legga in questo "giusta" tutta la pregnanza propria del termine). Lo dico da cattolico convinto e osservante: l'unico modo reale di amare il prossimo è impiccare gli autori di simili orrendi - lo ripeto, per indifferenza, ferocia e "faciltà" - crimini. Amore autentico per le vittime, e soprattutto per tutti quelli che potrebbero essere attratti dal cattivo esempio, in mancanza di una sanzione che sia autenticamente pedagogica, naturalmente non solo - ma anche - per il colpevole. De Maistre aveva visto giusto e lontano: l'abolizione della pena di morte avrebbe scatenato (scatenato, non creato) e moltiplicato i mostri, e il sangue sarebbe scorso a fiumi. Il problema vero è che oggi uomini e istituzioni non hanno la caratura e il quadro morale di riferimento per legittimare l'uso di un simile tremendo ed estremo mezzo di conservazione della società e del bene.

 
 

La seconda riflessione riguarda la mia città e il mio popolo. Sono napoletano e napoletano davvero, ma non sopporto più chi ogni tanto si adonta, come vergine ferita, delle critiche, anche quando suonano come invettive e insulti, "leghiste". Quel video, oltre la disumana ferocia del killer, che con ciò solo si è (si è) privato del diritto alla vita avendo perso radicalmente l'innocenza e l'umanità che lo fondano, documenta l'incanaglimento e persino la ferinità del popolo napoletano. Nessuna paura, nessuna abitudine, nulla ma proprio nulla, possono giustificare il silenzio, l'indifferenza davanti al corpo esamine di un uomo appena morto ammazzato, che viene addirittura scavalcato come se fosse un ostacolo non rimosso sul marciapiede. Questo "popolo", questa gente, questa massa informe ormai non è più difendibile.

 
 

Con amarezza La saluto

Giovanni Formicola