domenica 15 novembre 2009

Da Leone a Marrazzo

Secolo d'Italia, 13 novembre 2009

Giuliano Ferrara, commentando i recenti scandali sessuali politico, ha fatto un paragone con la campagna contro il Fanfascismo che Lotta Continua lanciò contro la candidatura dell'uomo politico aretino per la presidenza della Repubblica nel 1971. Ma il paragone non tiene, quella seppure distorta era una campagna tutta politica che si basava su un'idea politica inesistente, Fanfani novello De Gaulle, e mistificatoria perchè vedeva nel presidenzialismo una sorta di totalitarismo, lanciata per di più da una piccola minoranza urlante. Se un confronto storico vogliamo farlo, possiamo trovare un precedente nel caso delle prime e uniche dimissioni della più alta carica dello stato a seguito dell'azione diffamatoria di quelli che oggi possiamo chiamare i soliti noti.

Sono passati più di trenta ani da quel 15 giugno del 1978, quando il presidente della Repubblica Giovanni Leone uscì dal Quirinale a bordo di una auto blu per non rimetterci più piede. Eppure avrebbe dovuto restarci ancora pochi mesi per finire il suo mandato naturalmente. Ma qualcosa si era rotto definitivamente nella vita politica italiana. Per la prima volta una campagna stampa, feroce, dura, senza esclusione di colpi, improntata al più puro moralismo, faceva sul campo una vittima illustre. Per la prima volta una battaglia politica non era prodotta e gestita dai partiti ma da agenti esterni, dai mass media innanzitutto.

Se le vicende di questi mesi, dalle escort di Berlusconi al caso Marrazzo, devono trovare un origine è in quelli anni e in quella montagna di menzogne lanciate contro il presidente napoletano.

Nessuna delle accuse sollevate contro di lui era vera, il casus belli – l'affaire Antilope Cobbler, storia di presunte tangenti pagate dalla Lookheed per la vendita degli aerei C-130 – si rivelò solo una semplice scusa per accanisrsi contro un simbolo del "malgoverno democristiano", preso come dato di fatto, al di là della legge.

Ecco questo è il punto del meccanismo diffamatorio valido allora come oggi.

Si costruisce un assioma, gli letti dal popolo non rappresentano la maggioranza del paese, i governanti sono giudicati immorali e indegni da un tribunale di auto proclamatisi giusti, e il risultato omicida giacobino è ottenuto. Questo meccanismo fu per la prima volta messo appunto in quella vicenda.

Una valanga di fango avvolse il presidente Leone, gettata a man bassa dallo stesso gruppo editoriale di adesso, dall'Espresso, da Repubblica a cui fecero da cassa di risonanza i radicali di Pannella e Bonino. Il PCI, ecco la seconda novità, si adeguò, seguì l'onda dell'indignazione extrapolitica chiedendo anche lui le dimissioni. Camilla Cederna scrisse anche un pamphlet di successo "Giovanni Leone. La carriera di un presidente" nel 1978 che le costò anche una condanna per diffamazione, quando il danno ormai era fatto, perché rimane sempre vero il detto di Goebbles,"diffama, diffama, qualche cosa rimane sempre".

Niente contò. Non importava che Leone fosse un fine giurista, allievo prediletto di De Nicola, che fosse salito in cattedra a 35 anni, che fosse stato nominato senatore a vita nel 1967, che avesse esercitato il suo mandato presidenziale all'insegna di un rispetto assoluto della Costituzione. Si rileggano i suoi scritti giuridici, ma anche quel messaggio alla Camera del 15 ottobre 1975 sullo stato di crisi delle istituzioni italiane per giudicare della sua competenza. Era napoletano, sposato con una splendida donna, faceva le scaramantiche corna contro il malocchio, i suoi figli erano esuberanti, tanto bastò a renderlo indifendibile!

Nel suo caso la DC di Zaccagnini non si rese conto che lasciare che si rompesse la diga della decenza voleva dire cedere davanti all'imbarbarimento del paese. Il copione come si vede è sempre lo stesso che poi si ripeterà sempre uguale, passando da tangentopoli fino ad arrivare ad oggi. Il solito gruppo editoriale all'attacco, qualche compagno di strada politico un po' stupido che spera di trarre un po' di guadagno dalla situazione e si lancia in prima linea contro il bersaglio, i comunisti che si adeguano, la sinistra DC, alleata del PCI, contro anche i suoi.

Tutti, ma non Camilla Cederna, dopo trenta anni!, a chieder scusa, a dire che si erano sbagliati e che Leone si era comportato con grande dignità. Nemmeno il coraggio di stare zitti per sempre, di rinchiudersi in un convento nel deserto. Si potrebbe obiettare che almeno hanno fato il gesto. Non è vero. Si prenda per esempio l'articolo che Gianluigi Melega scrisse il 10 novembre 2001 su Repubblica. "Forse la storia sarà ingiusta con lui e sinceramente me ne dispiace". L'articolo quindi inizia in modo civile con una atto di pietas che ci fa intravedere un uomo e non un giustiziere dietro la firma, ma poi a raffreddare la nostra empatia, ecco il colpo di grazia. Ma "Leone non capì mai che ciò che può essere tollerato in un cittadino qualsiasi, diventa assolutamente insopportabile in chi ricopra la carica di capo dello Stato. Leone al Quirinale ritenne di poter continuare a comportarsi come quando era un avvocato di successo, alla maniera un po' barzellettistica di un goliardico carosello napoletano, in cui ladri e avvocati e famigli e compari d' impresa e banchieri falliti e guitti e maneggioni d' affari e rappresentanti pubblici si scambiano le parti senza scandalo, cantando «O sole mio» ed esorcizzando il malocchio facendo le corna".

Quindi non importa che ci sia nessun reato, quello che importa è non piacere ad una elite giustizialista che si colloca su di un piedistallo, quello che contano sono comportamenti e atteggiamenti popolari sgraditi ad un gruppo editoriale, quello che conta è tenere il governo sotto scacco, dettare la linea alle opposizioni, diventare il vero partito di opposizione. Se c'è un colpevole, questo non è l'autore dello scatenamento dell'odio, chi ha scagliato la propria pietra, ma la vittima, perché il proprio comportamento era compatibile con quello del possibile corrotto. Roba da matti. C'è da impazzire davanti a questo modo di ragionare.

Il meccanismo è bestiale, infernale e implacabile nella sua semplicità, prima si infanga la vittima e poi si dice che non può svolgere quel ruolo istituzionale perché non all'altezza, perché ormai delegittimato dal suo stesso modus vivendi. E infatti ecco che il nostro giornalista sostiene con tranquillità: "ciò a cui assistiamo oggi, con protagonisti politici che ghignano impuniti quando vengono accusati delle più basse nefandezze, fa apparire uno scherzo quanto accadde allora e Giovanni Leone una vittima precoce dello sviluppo gangsteristico della politica italiana".


 

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