"Nell'era della sorveglianza globale le guerre combattute dagli occidentali sono esercizi di trasferimento del rischio (dai politici ai militari e da questi all'ambiente di combattimento), il cui obiettivo sono gli eserciti nemici, ma che tendono a sacrificare in modo sproporzionato e molto più che in passato le popolazioni civili. Lo afferma Martin Shaw, professore di relazioni internazionali all'Università del Sussex, in L'Occidente alla guerra (Università Bocconi editore, Milano, 2006, 240 pagine 14 euro), un volume alla cui realizzazione ha contribuito anche un finanziamento del Centro militare di studi strategici del Ministero della difesa italiano. I politici occidentali hanno capito, dopo il Vietnam, di non potersi permettere guerre che comportino decine di migliaia di morti tra le proprie truppe, la devastazione del territorio interessato e l'esercizio indiscriminato della violenza sulle popolazioni civili. Si è sviluppato, allora, un nuovo modo di combattere che ha trovato la sua prima occasione di applicazione nella guerra delle Falklands. Il punto è che le guerre moderne si combattono nel mondo della sorveglianza globale, un mondo in cui ogni attore si trova a dover rendere conto del proprio operato ai media, agli avversari politici, alla società civile e, in ultima analisi, all'opinione pubblica. Accanto alla guerra sul campo se ne combatte, perciò, una mediatica fatta, in parte, di manipolazione e dissimulazione e, in parte, di comportamenti mirati a un effetto d'immagine anziché all'efficacia militare. La nuova dottrina, come la descrive Shaw, parte dalla costruzione cognitiva di un'economia del rischio, che misura benefici e danni in termini di consenso politico. Così la guerra dovrebbe portare vantaggi elettorali alle élite politiche, o almeno non pregiudicarne le prospettive. In questo senso, in un momento di crisi politica, Shaw sostiene che il rischio viene trasferito dai politici ai militari. Il loro obiettivo viene correttamente individuato nella distruzione dell'esercito nemico, ma secondo modalità che si discostano sostanzialmente da quelle della guerra occidentale tradizionale. Il cozzo frontale, violento e portatore di morte tra eserciti che ha caratterizzato per secoli l'arte occidentale della guerra non è politicamente proponibile in mancanza di una giustificazione difensiva cogente. Ogni volta che sale il numero dei caduti tra le file occidentali in guerre combattute lontano da casa cala infatti l'indice di popolarità dei politici che le hanno promosse. Gli eserciti occidentali cercano, perciò, di fiaccare la resistenza del nemico facendo affidamento sullo strapotere tecnologico, che gli assicura il controllo dei cieli. Nelle Falklands, in Iraq, nel Kosovo e in Afghanistan le operazioni di terra sono state precedute da lunghi bombardamenti. E dal momento che espressioni come "armi intelligenti" e "guerra di precisione" fanno parte più dell'arsenale mediatico che di quello militare, la minimizzazione del rischio per i militari occidentali si traduce in uno sproporzionato trasferimento del rischio in capo ai civili che vivono nelle zone di combattimento. Tale trasferimento, afferma con forza Shaw nel capitolo finale, che descrive il nuovo modello come già in crisi, è ingiusto sulla base dei criteri che gli occidentali stessi si sono dati per giudicare la moralità della guerra. Il lavoro di Shaw arriva a descrivere nel dettaglio, attraverso la formalizzazione di 15 regole, il nuovo modello occidentale della guerra, che viene poi sottoposto a un'attualissima verifica sul campo, applicandolo a ciò che sta avvenendo in Iraq. La verifica dà un esito tristemente positivo.
Nel quarto capitolo di L'Occidente alla guerra, Martin Shaw desume le regole della guerra risk-transfer, combattuta dall'Occidente nell'era della sorveglianza globale. Le riportiamo. 1. Le guerre devono rispondere a rischi portati a interessi, leggi e valori occidentali percepiti come plausibili. 2. Le guerre devono essere limitate quanto ai rischi che procurano ai sistemi politici, alle economie e alle società occidentali. 3. Le guerre sono assunzioni di rischio politico, quindi devono minimizzare i rischi elettorali per i governi e (se possibile) massimizzarne i vantaggi. 4. Le guerre devono anticipare i problemi della sorveglianza globale. 5. Le guerre devono essere strettamente limitate temporalmente: diventano guerre istantanee. 6. Le guerre devono essere spazialmente confinate in zone di guerra remote. 7. Le guerre devono, prima di tutto, minimizzare le perdite delle truppe occidentali. 8. Le forze occidentali devono contare principalmente sulla potenza aerea e vedere che altri – per quanto possibile – si assumano il rischio sul terreno. 9. Il nemico deve essere ucciso: efficientemente, rapidamente e discretamente. 10. Il rischio di perdite civili «accidentali» deve essere minimizzato, ma i piccoli massacri devono essere considerati come inevitabili. 11. Le guerre contano sulle armi «di precisione» per sostenere la propria legittimità. 12. La morte e la sofferenza non si devono vedere: più accettabili sono i rischi indiretti, meno visibili e meno quantificabili, per la vita umana. 13. I rischi a lungo termine del dopoguerra devono essere condivisi il più possibile attraverso una divisione internazionale del lavoro. 14. L'«umanitarismo» e le organizzazione «umanitarie» devono essere coinvolti per compensare la violenza inflitta ai civili. 15. La gestione dei media è essenziale: deve controllare le narrazioni che spiegano le immagini della guerra"
Ufficio stampa EGEA
Questo approfondimento è legato all'articolo "L'Occidente va alla guerra. Prime vittime, i civili"
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