mercoledì 30 settembre 2009

Afghanistan 2

29 settembre 2009 Ragionpolitica

La questione afghana è tutto meno che facile. L'evolversi della situazione in questi lunghi 8 anni ha fatto sì che il conflitto si trasformasse in modo inesorabile, passando da una guerra contro Al Qaida e i talebani ad una campagna di contro insorgenza, schierando la coalizione NATO entro una vera e propria guerra civile tra afghani. Oggi in Afghanistan si combattono una serie di conflitti molteplici - contro i talebani, contro i talebani pakistani, contro i vari signori della guerra, contro i narcotrafficanti, i banditi, guerra anche tra etnie, tra pashtun e alleanza del Nord e così via in un groviglio di difficile comprensione che finisce per chiamare in causa addirittura le potenze della regionali, dall'India alla Cina all'Iran, per non parlare del Pakistan ormai teatro di scontri.

Situazione drammatica per ogni democrazia occidentale e in primo modo per gli Stati Uniti, paese ferito dall''11 settembre, che sta pagando un tributo di sangue estremamente alto e che deve fare i conti con una opinione pubblica nazionalista ma anche con forti tendenze isolazioniste, segnata dal ricordo indelebile del Vietnam.

Da qui sempre la tendenza a cercare scorciatoie nelle guerre sporche, nelle small wars, nelle guerre d'oltre mare a fianco di personaggi scomodi come Karzai. E per gli USA cerare scorciatoie significa solo una cosa: la tentazione a ricorrere alla loro enorme superiorità tecnologica e logistica. Armi intelligenti, aviazione, informatica, truppe speciali, velocità. Questa è la formula magica della ormai celebre RMA (Rivolution in Military Affairs) portata al suo massimo sviluppo da Donal Rumsfeld, segretario alla difesa con Bush dal 2001 al 2006. Prima guerra del Golfo, Serbia, inizio della campagna afghana. Questi sono i successi veramente straordinari e impressionanti, basti immaginare cosa significhi portare di là dall'oceano per via aerea migliaia di carri armati, camion, cannoni e decine di migliaia di uomini e rifornirli continuamente, giorno per giorno.

Davanti ad una simile potenza di fuoco, ogni nemico che osi affrontare gli americani in modo convenzionale, in campo aperto, crolla dopo pochi giorni. E' successo così per tutti, anche per i talebani che incomprensibilmente scelsero una strategia di opposizione frontale. Ma il successo repentino comporta anche che il nemico collassi, non venga annientato, che sopravviva e possa quindi riorganizzarsi sotto nuove sembianze. E infatti così è avvenuto in Iraq, dove i fedeli di Saddam hanno formato i primi gruppi di resistenza e così è avvenuto in Afghanistan.

Ecco che di nuovo la dura realtà delle guerre asimmetriche si è dimostrata verificata. Per riuscire vittoriosi in questi conflitti, la potenza straniera deve saturare con la fanteria, con i soldati con gli scarponi, il terreno, perché il primo compito, chiave di ogni successo, è rappresentato dalla difesa della popolazione, dalla sua messa in sicurezza contro le azioni dei terroristi, guerriglieri o quant'altro. Ha ragione il giornalista di forti simpatie repubblicane David Brooks che in un articolo sul New York Times del 25 settembre – pubblicato sul Corriere domenica 27 – "Non esistono guerre leggere: più uomini per vincere a Kabul". "Non ci sono precedenti a sostegno di tali illusioni, anzi, l'evidenza storica suggerisce che queste mezze misure non fanno altro che creare situazioni in cui si hanno forze a sufficienza per accollarsi le responsabilità di un conflitto, ma non abbastanza per ottenere la vittoria".

Non ci sono scorciatoie. E questa è stata la strada scelta dal generale McCrystal ora in Afghanistan e prima di lui da Petraeus, ora sua capo, in Iraq. Certo davanti c'è l'interrogativo drammatico se il nuovo governo afghano, che uscirà dalle elezioni, si dimostri all'altezza della situazione riuscendo a fornire quelle garanzie di decente amministrazione che fino ad oggi sono mancate.

Non stupiscono quindi le voci che ancora una volta si levano da parte democratica, dove più forti sono le tendenze isolazioniste – si ricordi l'ex presidente Clinton e il suo comportamento 'aereo' nei confronti di Bin Laden- tutte indirizzate ad una strategia di contro terrorismo, con lo scopo di limitare l'obiettivo alla caccia ad Al Qaida e ai talebani "internazionalisti". Certo, questo significherebbe diminuire il numero dei soldati, concentrarsi su alcuni obiettivi, ma che succederebbe in un Afghanistan in balia della guerra civile? E del vicino Pakistan possessore della bomba atomica? E della credibilità dei più forti eserciti del mondo non in grado di sconfiggere un nemico straccione forte di 30 mila uomini in ben otto anni? E nemmeno in grado di aiutare i loro alleati?


 


 

Che fare in Afghanistan? 1

L'Occidentale 30 settembre 2009

AFGHANISTAN

Ci sono due modi per affrontare il problema Afghanistan e le difficoltà che troviamo ad aver ragione dei talebani. Due punti di vista diametralmente opposti si scontrano, ma spesso si intrecciano e si confondono fino a mascherarsi l'uno nell'altro. Il primo, possiamo definirlo per comodità pacifista a tutti i costi, che non aspettava altro di vedere le bare avvolte nelle bandiere per chiedere a gran voce il ritiro dei nostri soldati, definendo quella missione inutile, imperialista e quant'altro. Il secondo, invece, che vuole aprire una discussione razionale sul modo migliore di aver ragione sui talebani, sugli insorti, sui signori della guerra, che sogna un Afghanistan pacificato e non più base per il terrorismo internazionale di Al Qaida.

Vi è una grande difficoltà a tenere distinte queste due modalità, perché l'emozione, l'atavica disabitudine italiana a parlare di guerra, fa sì che dell'uso delle armi si discuta solo in momenti culminanti, quando la commozione è al massimo. Vi è inoltre il fatto drammatico dell'estrema sensibilità che l'opinione pubblica in una democrazia ha a tollerare il sacrificio dei propri giovani nelle guerre d'oltremare, difficili e lontane contro nemici nascosti, in conflitti scoppiati non per difendere immediatamente il suolo della nazione. Ma opinione pubblica vuol dire consenso, voti, con tutto quello che consegue sulle scelte dei partiti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: guerra mascherata da missione di pace, un incremento della sensibilità alle perdite, i cittadini trattati in modo paternalistico, protetti dal mondo, ma anche in balia di bande di assassini che con il minimo costo, un po' di autobombe e qualche kamikaze, raggiungono il massimo risultato mediatico. Così ancora una volta si conferma il punto debole, il "centro di gravità" direbbe lo stratega prussiano, tutto politico dei paesi occidentali: il fronte interno che può tracollare da un momento all'altro, basta aspettare. Kissinger aveva ben capito la lezione del Vietnam all'indomani dei negoziati di Parigi: per vincere agli americani non erano sufficienti le vittorie militari, mentre ai vietnamiti per vincere bastava non perdere, era sufficiente attendere che il nemico si stancasse. Anche in Afghanistan ricorrono alcuni elementi caratteristici di ogni guerra tra insorti e potenze occidentali. Disponibilità al sacrificio; pazienza; il Pakistan come santuario oltre confine; il consenso della popolazione ottenuto con convinzione, soldi e intimidazioni: questi sono gli elementi della strategia degli insorti.

Per riuscire a venire a capo del ginepraio dove siamo, è necessaria invece l'operazione opposta: la prima cosa da fare è rafforzare l'opinione pubblica, chiarirci le idee, dire la verità. Il Governo, i partiti assieme ai mass media e a tutti quelle agenzie che hanno influenza sulle coscienze dei cittadini devono aprire una discussione libera, la più ampia possibile, sui motivi della guerra, sugli obiettivi della missione e sulle strategie per raggiungerli. E' una discussione che mette al centro la stessa idea di "sicurezza nazionale", tema dato per scontato, per più di cinquant'anni per tutto il periodo della guerra fredda, perchè delegato agli USA.

Discorso razionale che implica che si riesca a parlare di strategia, di scelte tra opzioni diverse senza il peso e la distorsione dell'ideologia. Solo se apriamo la mente e ci togliamo gli occhiali opachi dei preconcetti, degli schemi della coazione a ripetere potremo affrontare la "questione afghana".

Ricordiamo, gli obiettivi della guerra all'inizio erano tre. Distruggere Al Qaida, possibilmente eliminandone tutta la dirigenza compreso Bin Laden; sconfiggere i talebani per il loro rifiuto a espellere AQ ed a consegnarne i capi; costruire un Afghanistan sicuro e democratico, liberandolo dall'oppressione dei fanatici studenti coranici. Ve ne erano altri due non detti: spezzare quell'asse sunnita fondamentalista, retroterra di ogni terrorismo internazionale anche di Al Qaida, che andava dall'Arabia, passava per il Pakistan (dotato di armi nucleari ) per finire all'Afghanistan; inserire gli Stati Uniti in mezzo ad un'area di assoluta instabilità, portando la guerra nel cortile di casa del nemico da dove era partita, allontanando così il pericolo dal suolo degli USA.

Dovendo fare un bilancio, se pur veloce, molti obiettivi sono stati raggiunti a pieno. Dopo l'11 settembre in America non c'è più stato nessun attentato; l'unica superpotenza mondiale è adesso saldamente nell'area (bisogna aggiungere anche la presenza statunitense in Iraq); quella catena di paesi fondamentalisti è stata spezzata e per la prima volta il Pakistan ha diretto le armi contro i propri talebani; Al Qaida è una sigla che copre terroristi internazionali in cerca continua di una nuova base da cui operare, dissolte le sicurezze dell'Afghanista e poi dell'Iraq; allontano è l'incubo della costituzione del Califfato per mano militare; gli stessi militanti talebani sono poco più di 20-25.000 su di una popolazione di circa 30 milioni. Da un punto di vista geostrategico l'unico problema nuovo derivato dall'azione americana è il rafforzamento dell'Iran, della componente scita nell'area, con la creazione del primo stato arabo scita – l'Iraq - obiettivo forse non previsto o valutato appieno dal Pentagono e raggiunto attraverso l'eliminazione dei due acerrimi nemici di Theran, Saddam e i talebani.

E allora che cosa è che non funziona in Afghanistan, che cosa va male, perché dopo otto anni la situazione è sempre così difficile; addirittura, a leggere il rapporto del generale McCrystal, è peggiorata? E che soluzioni alternative adottare?

Ogni strategia di contro insurrezione intrapresa da paesi occidentali, per avere le premesse di un successo e se non vuole essere improntata a strategie di annichilimento, deve essere centrata sul soddisfacimento dei bisogni della popolazione e basarsi sull'esistenza di un governo locale legittimo che riceva cioè il consenso dalla gran parte della stessa popolazione. Per raggiungere questo scopo, non deve essere visto, prima di tutto, come un governo di parte, né di etnia, né di clan, ma anzi deve condurre un'operazione di riconciliazione nazionale. Inoltre, quella legittimazione può essere raggiunta solo garantendo alla popolazione, con l'aiuto degli alleati stranieri, nell'ordine: sicurezza, servizi, lavoro. Per garantire la sicurezza ha bisogno di forze armate e di polizia ben addestrate, equipaggiate e motivate . Per combattere la piaga della disoccupazione, vero e proprio esercito di riserva per ogni tipo di terrorismo e criminalità, deve riavviare lo sviluppo economico. Agli eserciti stranieri spettano alcuni compiti principali: addestrare e rifornire di armamenti e strumenti le truppe locali; aiutare la polizia locali nelle azioni ordinarie; fornire una forza di pronto intervento rapido in situazioni difficili; garantire la sicurezza in zone particolarmente difficili o di particolare rilievo (come le frontiere con il Pakistan o la capitale); dedicarsi con particolare attenzione alla caccia a terroristi internazionali come gli appartenenti ad Al Qaida. Lo stesso discorso vale per l'offerta di servizi: l'aiuto degli stranieri, passato il omento dell'emergenza, dovrebbe essere limitato a situazioni eccezionali e a fornire invece il supporto logistico e il know how.

E' chiaro anche ad un osservatore distratto che le cose non sono andate così. L'Afghanistan appare come un paese povero; con uno stato debole, in alcune zone assente, in preda ad una corruzione dilagante; dove l'esercito non è in grado di integrare le truppe di tutte le etnie e la definizione weberiana dello stato come detentore totale della forza legittima risulta un sogno; un paese dove non sono garantiti i servizi essenziali, dalle scuole agli ospedali; un paese dove l'industria più importante è l'esportazione dell'oppio. Per quanto riguarda il governo centrale esso è sempre più come corrotto, familiare, di parte, non rappresentante tutte le etnie; la cartina di tornasole sano state le elezioni appena svolte nel paese, contrassegnate da non certo alta affluenza alle urne anche nell'area di provenienza di Karzai e da una diffusione di brogli da inficiarne la legalità. Il risultato è che oggi l'Afghanistan è attraversato da una moltitudine di uomini armati pronti a uccidere per i motivi più diversi. Talebani vecchi e nuovi, afghani e stranieri; signori della guerra; tribù ostili al governo centrale; bande criminali legate al traffico di oppio; gruppi armati finanziati da spezzoni dei servizi pakistani e iraniani e così via, con alleanze che si intrecciano e si sciolgono nello spazio di un lampo dettate da convenienze di tutti i tipi.

L'America, d'altra parte, ha le sue responsabilità: prima di tutto quella di aver sovrastimato le sue capacità di combattere più guerre simultaneamente, di essersi fidata troppo – come al solito – delle sue capacità tecnologiche, di non capire le guerre di contro insorgenza condotte in paesi lontani dove vigono culture altre. I paesi NATO portano la loro grave colpa, anche morale, di contare sugli sforzi dello Zio Sam, di non voler combattere – o come si dice adesso, di avere regole d'ingaggio troppo rigide – fino a essersi dotati nemmeno di una forza con un comando ben integrato.

Ecco che una guerra iniziata per dare la caccia a Bin Laden si è trasformata in'azione complessa di ingegneria sociale, di costruzione di una società in tutti i suoi aspetti. Se le cose stanno così, alle nazioni occidentali è richiesto un impegno molto diverso, e maggiore, da quello militare: un vero e proprio intervento coloniale destinato a durare a lungo.

McCrystal ha indicato una soluzione. Aumentare i soldati nel paese, saturare alcune aeree. Riprendere l'iniziativa per prendere tempo, dando respiro al governo centrale in modo che avvengano quei cambiamenti tanto necessari. Come si vede è una strategia difficile con ben tre snodi: deve riuscire a mettere in grave difficoltà i talebani, il governo centrale deve andare in una direzione di rafforzamento delle sue istituzioni e dare prova di imparzialità, i paesi occidentali e le relative opinioni pubbliche reggere nuovi sacrifici. E il punto debole, ma condizione sine qua non di ogni strategia vittoriosa di contro insorgenza, è proprio rappresentato dalla costruzione di un governo centrale che riscuota il consenso della maggioranza dei propri cittadini.


 

giovedì 24 settembre 2009

TESTAMENTO BIOLOGICO

A me l'idea del testamento biologico non mi va giù.

Non riesco a capire perché lo stato deve mettere bocca nella mia morte, fatto appunto che mi riguarda in prima persona. Ogni persona è un essere prima di tutto sociale: la sua vita appartiene a sé, alla famiglia, agli amici, alle comunità in cui vive, anche allo stato quando decide per che cosa è necessaria la guerra. Se esiste una zona dove né la scienza né lo stato hanno però diritto di dire qualcosa, è il passaggio tra la vita e la morte. Mi è insopportabile l'idea che ci sia una legge che stabilisce cosa è e cosa non è "accanimento terapeutico", perché cambia la tecnica, cambiano le condizioni oggettive e soggettive, dipende dallo stato di salute del malato.

L'idea di "testamento biologico" appartiene ad una cultura strampalata – post moderna?- che unisce un misto di individualismo assoluto, di stampo illuministico positivista, ad un idolatria statalista totalitaria, come se l'ente superiore potesse tutto, perché tutto vede e capisce (idea peregrina e ridicola; in democrazia vuol dire solo affidarsi ai voleri della maggioranza).

Ora mi sembra quindi che questa proposta di legge cada in una profonda contraddizione.

O non si legifera sulla vita e sulla morte – soluzione ottimale. O si legifera, ma lasciando nel vago della indeterminazione biologico antropologico il passaggio dai due momenti – soluzione di compromesso politico accettabile. O si legifera ma si lascia all'individuo decidere a quali cure si vuole sottoporre – soluzione, che non mi piace, a cui conduce la logica del testamento biologico. La strada peggiore, irta di contraddizioni, che condurrà ad una miriade di ricorsi, perché si scontrano tra loro principi diversi ugualmente forti – autodeterminazione, dovere della cura, volontà del legislatore - è quella di escludere dalle volontà del cittadino alcuni atti, come l'idratazione. Non solo, scegliendo la via giuridica così precisa si rompe il tabù del rapporto legge positiva-vita: d'ora in poi la definizione di cosa sia una vita dignitosa, la "vita buona", è in mano a maggioranze parlamentari! Bestiale.

Capisco che nel momento, davanti all'invadenza della magistratura (che è andata a inventarsi una presunta volontà della paziente), davanti alla scelta politica del padre di Eluana Englaro dettata dalla volontà, per me incomprensibile, di dare scandalo, si sia scelta la strada del Parlamento secondo il principio, "meglio la volontà dei rappresentanti dei cittadini, che quella dei magistrati".

Ma siamo sicuri che questa proposta di legge sia buona?

Afghanistan

Vedo due necessità che ogni paese democratico impegnato con truppe in Afghanistan deve compiere: la prima rafforzare l'opinione pubblica, dire la verità. Questa è una missione di guerra dove è possibile che cadano i nostri soldati, perché in guerra si muore. E' commovente, ma francamente fa pensare che si sia così sensibili a poche decine di morti in battaglia, quando in un anno in incidenti stradali muoiono decine di migliaia di persone.

La seconda, bisogna riuscire a parlare di scelte militari, di strategia, senza sovrapposizioni ideologiche. I fatti afghani sono drammatici: dopo otto anni di guerra, gli eserciti dei paesi più sviluppati del mondo non sono riusciti ad aver ragione di poche migliaia di guerriglieri, terroristi, insorti ecc. C'è qualcosa che non va e il motivo è semplice: noi non combattiamo, siamo pochi e lo stato afghano, come dimostrano le elezioni, è una barzelletta e ha uno scarsissimo seguito tra la popolazione.

E se invece di mandare più soldati, comunque pochi, si cambiasse strategia?


 

mercoledì 23 settembre 2009

LA STRATEGIA DI McCRYSTAL

Ragionpolitica, 23 settembre 2009


 

Il 30 agosto il generale Stanely McCrystal ha consegnato l'ormai celebre rapporto sull'Afghanistan al Segretario alla difesa Robert Gates. L'analisi è impietosa. Nonostante siano passati otto lunghi anni dall'invasione del paese, nonostante l'iniziale e rapida sconfitta dei talebani, nonostante la rotta di Al Qaida e nonostante che a Kabul sieda un governo 'democratico, tuttavia le cose non vanno affatto bene.

Le difficoltà incontrate dalle truppe occidentali sono enormi. Tre prima di tutto: 1) la debolezza del governo di Karzai che non riesce a essere visto come il governo di tutti gli afghani, e in modo speciale da quelle tribù del nord, scheletro portante della lotta antisovietica, 2) l'inconsistenza della società civile in un uno dei paesi più poveri e privo di infrastrutture dell'Asia centrale, 3) la piaga della coltivazione d'oppio, spesso l'unica fonte di ricchezza e brodo di coltura di ogni attività criminale. Il problema non è da poco, infatti uno dei punti fondamentali di ogni strategia di contro insorgenza ruota attorno al concetto di conquista della popolazione, insomma la visione deve essere "popolazione centrica". Un approccio di questo genere richiede per lo meno cinque passaggi. Prima garantire la sicurezza ai cittadini difendendoli dagli stessi talebani, pensare al loro benessere – costruire case, scuole, strade, ospedali – in modo da separare la popolazione dagli insorti; allo stesso tempo, ricostruire e addestrare le forze armate e la polizia locali in modo da renderle autonome, passo che a sua volta rimanda all'affidabilità delle istituzioni del posto; e infine sconfiggere militarmente sul campo i ribelli, terroristi o criminali che siano. In realtà le quattro fasi non sono in ordine temporale; è chiaro che le prime tre devono avvenire allo stesso tempo. Il quinto passaggio è rappresentato dalla chiusura ermetica dei confini in modo che non ci avvengano infiltrazioni di armati, soldi e rifornimenti dall'esterno.

In una strategia di coin ben articolata che non sia colonialista, cioè che non veda le potenze straniere sostituirsi agli indigeni, lo snodo centrale è dato dal funzionamento di un governo centrale locale che sia sufficiente credibile agli occhi dei suoi cittadini e che possa essere di fondamento alla nascita di un esercito. Alle truppe alleate insomma sarebbe demandato un compito di supporto delle forze locali, di messa in sicurezza di obiettivi particolarmente importanti, e di pronto intervento rapido. E queste due condizioni in Afghanistan sembrano mancare alla grande; limiti strutturali su cui poi si sono innestati gli errori degli americani e della NATO. Se poi si assommano gli altri due punti problematici, il traffico dell'oppio e l'inesistenza di confini con il Pakistan, a volte vero e proprio santuario per i talebani, la drammaticità del quadro è ben presto disegnata.

Così, al generale McCrystal non rimane che il ricorso ai numeri, alla richiesta di invio di maggiori truppe per saturare il paese. Adesso in Afghanistan ci sono circa 100.000 soldati e alcuni generali pensano che ne sarebbero necessari circa il quadruplo (!), numero ottenuto moltiplicando le truppe in Kossovo, dove si è svolta una missione di peace keeping vincente e molto più semplice, per i chilometri quadrati dell'Afghanistan. Ma si potrebbe anche riandare all'esperienza irachena, dove la surge contro Al Qaida, coinvolgeva una zona abitata da circa cinque milioni di sunniti.

Solo raggiungendo posizioni di forza sul campo, solo facendo un passo avanti verso un colonialismo neo paternalista che metta sotto tutela il governo di Kabul, sostituendosi addirittura ad esso in alcune funzioni vitali, è possibile impedire che il paese precipiti nel caos, trascinandosi con sé il Pakistan con tutto quello che ne consegue.

Altre alternative sono impraticabili: le democrazie non possono intraprendere la strada della pacificazione violenta intrapresa dalle potenze coloniali nel secolo scorso. Forse, ma andrebbe ben analizzata e a questo punto la situazione appare anche troppo compromessa, rimane aperta, in linea teorica, la strada del controllo a distanza: "non importa chi governi a Kabul, se talebani, Karzai o chi per loro, noi non entriamo nella faccende interne; l'importante è che nel paese non ci siano basi di Al Qaida, che dall'Afghanistan non partano azioni terroristiche; quindi, appena ne abbiamo il minimo sentore, interverremo con le truppe speciali e dall'alto".

lunedì 21 settembre 2009

AGGIORNAMENTO NOTIZIARIO

19 settembre 2009

Yemen

E' da alcuni mesi, con il culmine verso la fine di agosto, che i giornali stranieri riportano di veri e propri scontri nello Yemen, già teatro di più di una guerra civile.

Attualmente il governo centrale, a maggioranza sunnita, del presidente Saleh deve affrontare allo stesso tempo ben tre movimenti insurrezionali che agiscono ad intermittenza: una guerra civile a nord, un movimento separatista al sud e gruppi rivoluzionari sciti nel nord est, nel governatorato di Saada, che non disdegnano azioni terroristiche, ma sono presenti anche infiltrazioni terroristiche da parte di al Qaida che allarmano e non poco gli osservatori americani. E' proprio con il movimento scita che stanno avvenendo gli scontri a fuoco che hanno visto anche l'impiego dell'artiglieria e dell'aviazione e hanno già causato più di cento morti e qualcosa come 100 mila sfollati.

La rivolta scita, iniziata nel 2004, è contraddistinta da un misto di motivi tra loro inestricabili che coinvolgono motivi religiosi – apparentemente quelli più forti: gli sciti infatti vorrebbero la riapplicazione della legge islamica abolita con la rivoluzione delm 1962 - rivalità tra clan, tribù e inimicizie regionali tra lo scita Iran e la sunnita e wahbita Arabia. Lo scontro tra le due potenze regionali ha i suoi fondamenti cause religiose e di supremazia regionale: fin dalla nascita della Repubblica Rivoluzionaria dell'Iran, la conflittualità è esplosa a causa del tentativo di Khomeini di prendere la guida non solo degli sciti, ma di tutti i mussulmani accusando i regnanti sauditi di essere dei monarchi apostati, mentre l'Iran avanzava contro l'Arabia richieste territoriali. Il conflitto si è inasprito con il passare del tempo; Rihad ha letto la caduta di Saddam e la costruzione del primo stato arabo scita in Iraq come un semplice agente della Persia, ma è con le conseguenze dell'1 settembre, con la fine dell'asse sunnita saudita pakistano e talebano stretto introno al regime degli ayatollah, che le preoccupazioni sono aumentate fino ad arrivare al parossismo alla minacciosa notizia, ormai quasi realtà, della costruzione dell'arma nucleare iraniana.

L'Iran degli ayatollah fin da subito ha infatti portato avanti una politica estera che si basava su due colonne, l'esportazione della rivoluzione, sia in termini religiosi che militari, all'estero che la ricerca della supremazia militare nella regione, giocando per di più sulla scena internazionale su due registri, ora quello retorico delle parole roboanti, ora utilizzando un approccio più pragmatico.

Non stupisce allora sapere che lo Yemen sia diventato il crocevia dove le contraddizioni del Medio Oriente si incontrano; qui troviamo l'Iran che rifornisce di armi, soldi e istruttori i gruppi sciti, l'Arabia che appoggia il governo centrale e Al Qaida che invece utilizza il paese, a causa del caos, come santuario e in rinforzo ai movimenti indipendentisti sunniti.

Sarebbe però un errore a questo punto pensare, come spesso è stato fatto riguardo all'Iraq e anche all'Afghanistan, che sia possibile venire a capo dei pervasivi nodi riducendo tutti i conflitti ad un conflitto religioso. Gli antichi network tribali, che spesso sono interconfessionali come in Iraq e internazionali, rimangono infatti una delle forze più potenti in Yemen e in tutto il Medio Oriente; citando un diplomatico egiziano, "le nazioni arabe sono tribù in armi". L'organizzazione tribale è infatti precedente le nazioni e attraversa gli inventati e porosi confini post coloniali, esisteva prima dell'Islam, è più vecchia quindi dell'industria del petrolio e degli stati europei. Le tribù insomma costituiscono le più vecchie, e forse più forti, forze sociali del Medio Oriente. Invece che sparire con l'avvento della modernità, il loro ruolo è andato rafforzandosi a causa dell'indebolirsi dei governi centrali, delle guerre civili, della globalizzazione che si è portata dietro la conseguente crisi d'identità derivata dallo scontro tra modernità e tradizione.

Ma lo stato yemenita è debole, povero, incapace di rendersi indipendente economicamente e collocato in una zona strategica fondamentale nel Mar Rosso a controllo di una delle porte del canale di Suez. Il rischio è che diventi un nuovo stato fallito seguendo le sorti della dirimpettaia Somalia, in mano al crimine organizzato, ai pirati, base sicura di Al Qaida e tetro di un duro confronto per interposta persona tra Arabia e Iran.

APPUNTI INTERNAZIONALI

L'OCCIDENTALE 19 settembre

Questo numero è dedicato all'Iran e alla sua corsa verso l'acquisizione della bomba atomica. A fine mese infatti si terrà la riunione del consiglio di sicurezza dell'ONU dedicata alla decisione se prendere sanzioni, e in che misura, contro l'Iran. Il 1 ottobre inoltre Javier Solana incontrerà Jaeed Salili, il negoziatore iraniano per il tema dell'energia nucleare, riavviando i colloqui del gruppo dei 5+1 (Gran Bretagna, Russia, Cina, Francia, Usa, Germania a cui si deve aggiungere fuori conteggio il rappresentante dell'Unione Europea) con l'Iran. Saranno tutte scadenze importanti perché prima o poi la comunità internazionale dovrà decidersi. Come è riportavano i giornali anche italiani, "l'Iran è sempre più vicino alla Bomba. Per Glyn Davies, l'inviato americano all'AIEA (l'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica), Teheran possiede gli ingredienti necessari e la capacità per raggiungere la costruzione della bomba. Tutto dipende adesso da una decisione politica: se verrà impartito l'ordine gli scienziati potranno realizzarla. Quando? Forse già entro un anno, come hanno profetizzato indiscrezioni britanniche trapelate alla vigilia dell'estate. Oppure nel 2013, secondo un'analisi del Dipartimento di Stato americano" (Guido Olimpo sul Corriere della Sera, giovedì 10 settembre). In risposta alle richieste USA e del "gruppo dei 5+1", Ahmadinejad ha offerto, spostando il discorso, una collaborazione globale e un'attenzione particolare a risolvere la difficile situazione in Afghanistan, rifiutata dagli Stati Uniti perché elusiva riguardo all'argomento centrale. Il governo iraniano è maestro nella politica della dilazione, dell'inganno, del bluff, del tira e molla; metodo raggiunto un po' per precisa scelta (l'ambiguità aumenta la forza di deterrenza), un po' per un ondeggiamento in politica estera tra i due poli dell'esportazione della rivoluzione e pragmatismo e, terzo motivo, a causa della moltiplicazione dei centri di potere iraniani che spesso agiscono in autonomia l'uno dall'altro. Un esempio di tali ondeggiamento è dato dalle ultime dichiarazioni iraniane (Washington Post, 18 settembre). "Un alto negoziatore iraniano per gli affari nucleari ha dato una prognosi piena di speranze sull'andamento dei colloqui con gli Stati Uniti e le altre potenze mondiali, definendo la discussione una 'reale, nuova finestra di opportunità', affermando che la Repubblica islamica è preparata a confontarsi con le preoccupazioni americane sulle intenzioni nucleari iraniane. Allo stesso tempo, Ali Asghar Soltanieh, l'ambasciatore iraniano presso l'AIEA ha avvertito che la minaccia di nuove sanzioni contro il suo paese è vista come un vero e proprio atto di intimidazione che non raggiungerà il fine di bloccare la strada verso il possesso del nucleare per scopi civili, perché questo è un diritto del suo popolo."

E' stata la stessa Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica a rivolgersi alle Nazioni Unite a causa del comportamento di Theran; in base infatti alla stipulazione del Trattato di non Proliferazione Atomica nel 1968, un paese che voglia il nucleare per scopi civili e pacifici deve sottoporsi ai controlli della Agenzia e collaborare attivamente con essa, in cambio riceverà dagli altri aderenti assistenza, aiuto scientifico e materiale. L'Iran, come si sa, non ha certo brillato per collaborazione e, anzi, sono sicuri i suoi tentativi di raggiungere il possesso della bomba atomica. Per questi motivi, già nel 2006, l'AIEA aveva deferito la Persia all'ONU che ha già emesso 8 risoluzioni compreso il divieto di continuare nell'arricchimento dell'uranio. Prima delle ultime dichiarazioni sembrava che nel processo di arricchimento l'Iran fosse arrivato al 4-4,5 %; per l'uso civile è sufficiente il 5%, per quello militare è necessario raggiungere il 90%, ma il tempo per passare dal 5 al 90% è la metà di quello da 0 al 5%. Nell'ultimo report dell'Institute for Science and International Security, si riportano i dati preoccupanti relativi alla continua acquisizione di centrifughe, circa 5000, che il regime degli ayatollah sta portando avanti.

La strada di dure sanzioni economiche può dare i suoi risultati a causa della dipendenza dall'estero dell'Iran per l'approvvigionamento sia di petrolio raffinato che di macchinari specializzati per ammodernare i propri impianti di estrazione ormai obsoleti. E' chiaro anche che in questo caso i paesi europei, a partire dalla Germania e dall'Italia principali partner commerciali, si troverebbero in gravi difficoltà, mettendo in discussione la linea politica fino ad esso seguita di "cambiamento attraverso il riavvicinamento". Il 35% delle importazioni iraniane dall'EU arriva infatti dalla Germania, il 19% dall'Italia e il 16% dalla Francia.

Ma l'ostacolo principale sembra consistere nel rifiuto russo a inasprire le misure contro l'Iran ribadito pochi giorni fa a Mosca dal ministro degli esteri Sergei Lavrov con l'inequivocabile frase: "Non penso che queste sanzioni saranno approvate dal Consiglio di Sicurezza". Non a caso Obama ha cambiato approccio verso la Russia diventando più accondiscendete verso le sue richieste; infatti non si parla più della installazione di nessuna base, anello dello Scuso Spaziale, nei paesi dell'ex patto di Varsavia, sempre visto dal Cremlino come una minaccia.

Spesso l'attenzione internazionale si concentra sulla possibilità di produrre la bomba nucleare e invece niente si dice su che cosa succederebbe se essa fosse usata, magari contro Israele (si veda un'analisi del Center for Strategic and International Studies). Infatti non bisogna dimenticarsi che l'Iran rivoluzionario, tra le altre cose, è fortemente segnato da una visione apocalittica della storia; da qui discende il timore, non infondato, di un comportamento irrazionale, e di conseguenza anche l'impossibilità di affidarsi ad una politica di deterrenza come nel caso della guerra fredda. Il celebre esperto nucleare Albert Wohlstetter (si veda questo articolo del 1958 sullo stratega e il movimento neocon pubblicato su Le Monde) metteva in guardia già sulla precarietà, e immoralità, dell'equilibrio del terrore, anche tra attori razionali, basato sulla "reciproca minaccia di distruzione" (conosciuta in inglese come MAD, "mutual assured destruction"). Figuriamoci nel caso di stati con istituzioni caotiche che presentano una moltiplicazione delle catene di responsabilità e decisione come l'Iran!

Le opzioni per affrontare il paese del pavone dotato di armi nucleare non trovano tutti concordi. Accanto a chi sostiene la possibilità come ultima risorsa del ricorso alle armi, c'è chi spera comunque che siano sempre percorribili altre strade come la deterrenza e una strategia di containment. Una disamina completa di tutte le opzioni disponibili e degli scenari possibili, c'è offerto da questo esauriente documento "Which Path to Persia. Options for a new American Strategy for Iran" frutto di un convegno, tenutosi a giugno, promosso dal Saban Center for Middle East Policy e da The Brooking Institutions. Le opzioni, riassumendo brevemente, tra cui gli USA si trovano a scegliere, e che non si escludono a vicenda, sono le seguenti:

1 la scelta diplomatica nelle sue varianti di persuasione e coinvolgimento,

2 l'intervento militare che si suddivide in invasione terrestre (stile guerra all'Iraq) o raid aereo diretto a colpire gli obiettivi sensibili iraniani (basi, centrali e quant'altro) con la variante di lasciare ad Israele il lavoro sporco,

3 la strada del cambiamento di regime a Tehran attraverso un movimento popolare pacifico, "rivoluzione di velluto", o una insurrezione con il relativo supporto a gruppi armati, oppure da raggiungere con l'organizzazione di un colpo di stato,

4 l'ultima opzione, dal titolo emblematico "accettare l'inaccettabile", è rappresentata da un politica di containment di un Iran dotato di armi nucleari, con tutti i rischi che deriverebbero per la sicurezza nella regione e non solo.

Qualsiasi sia la strada scelta dalla comunità internazionale, rimangono certi alcuni punti fissi: l'Europa e gli USA devono decidere una linea chiara e non contraddittoria, se non lo faranno ci penserà Israele, che su questo tema non ha tempo da perdere.

Ma la corsa verso la proliferazioni delle armi nucleari, non è il solo pericolo che corre il Medio Oriente a causa della Persia. In questo bel documento, come al solito, l'ottimo Anthony Cordesman sottolinea la complessa strategia di sicurezza portata avanti dall'Iran che si basa sulla nozione di guerra ibrida, già provata dagli Hezbollah durante il conflitto del 2006 con Israele. Questa ulteriore modalità di guerra asimmetrica vede fondersi in un'unica strategia l'impiego di strumenti militari diversi, dal terrorismo all'esercito tradizionale, dalla guerriglia agli attacchi commessi da attori non statali in teatri distanti ecc. Dello stesso Codesman si può anche leggere quest'altro report (a slide) con una serie impressionante di tabelle, dati, diagrammi e quant'altro sia sull'importanza per l'economia internazionale dei paesi del Golfo sia dei pericoli provenienti dall'Iran.

Per un quadro a 360 gradi sulla situazione in Iran si può leggere l'esauriente volume della Rand "Iran pericoloso, ma non onnipotente". Lettura affascinante ed esaustiva nonostante la lunghezza, ma è disponibile un sommario, sulla complessa politica di sicurezza del paese articolato attorno al concetto, più volte introdotto, di "guerra ibrida", l'ultima sviluppo della guerra simmetrica.

Per riassumere, l'Iran, secondo gli analisti americani, costituisce un pericolo per la sicurezza internazionale per i seguenti motivi:

  • l'ambizione a dotarsi di armi nucleari e di missili balistici a lunga gittata;
  • il supporto al terrorismo internazionale;
  • l'opposizione al processo di pace in Medio Oriente e alla sua volontà di acquisire un potere d'influenza nella zona;
  • la corsa verso un'armamento offensivo;
  • la minaccia alla stabilità dei paesi del Golfo, per estendere il controllo sullo Stretto di Ormuz, attraverso continue rivendicazioni territoriali.


 

"L'Iran - ecco la conclusione- vuole arrivare a detenere armi atomiche per rafforzare il potere delle sue forze armate per raggiungere un sempre più efficace potere di proiezione fuori area e come mezzo per aumentare il suo status e prestigio".


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 

AFGHANISTAN: CHE FARE?

RAGIONPOLITICA 19 SETTEMBRE


 

Che fare adesso? Adesso, dopo che la morte è arrivata sui nostri soldati portandoseli via senza poter far niente in un attacco terroristico senza l'onore del combattimento, in un imboscata paurosa che porta il segno, atto uguale ormai purtroppo a centinaia di altri, dell'attesa di un messia d'odio, tradito dai suo stessi fedeli.

Che fare ora che i governi confrontano il da farsi sul campo, i doveri da statisti con i sondaggi? Alcuni punti prima di prendere qualsiasi decisione devono essere chiari.

In primo luogo. La guerra in Afghanistan è una guerra giusta, necessaria e legittima.

Giusta perché risponde senza equivoci ai criteri della guerra intrapresa per legittima difesa o ci siamo dimenticati del rifiuto dell'Afghanistan del mullah Omar, santuario sicuro di Al Qaida, di consegnare Bin Laedn. E infatti i risultati sono arrivati, dal giorno dell'invasione ad oggi, Al Qaida è braccata, costretta a scappare di paese in paese con un Bin Laden morto o nascosto in qualche buco di caverna e i suo assistenti uccisi ed eliminati uno ad uno.

Necessaria. C'era altra scelta? Non sto discutendo di tattiche o strategie sempre migliorabili, perfettibili, ma sempre dopo, sempre ex post dai nostri strateghi in poltrona, generali da bar, perché è ovvio che le scelte potevano e possono essere diverse. Ma prima di criticare Rumsfeld, la sua teoria della guerra leggera, non è forse vero che dopo il Vietnam, il terrore di ogni governo USA è di impelagarsi in una guerra di terra, con le televisoni che inquadrano implacabili le bare dei soldati che escono dalle enormi fauci dei cargo, odiati a casa e nel mondo. Non c'era nessuna altra scelta, il dovere di ogni stato è di assicurare la difesa dei propri cittadini, restaurare la credibilità e la sua forza di deterrenza se non vuole finire nuovo e moderno agnello sacrificale.

Legittima. Se c'è una atto sociale dove parlare di diritto è risibile è la guerra, ma questo conflitto porta, a differenza dei bombardamenti della Serbia con D'Alema al governo, la ratifica dell'ONU. E il nostro impegno risponde inoltre al dovere di rispondere all'Articolo 5 del Trattato Atlantico che ci impone di accogliere la richiesta d'aiuto di un paese alleato attaccato. O ce ne siamo già dimenticati?

Se c'è un errore che poteva e doveva essere evitato, è l'atteggiamento indulgente, pietoso e paternalistico nei confronti dell'opinione pubblica a cui sono state raccontate delle favole sulle missioni di pace, perché si è parlato di fiorellini finendo per far pagare ai nostri soldati il paternalismo ipocrita e politicamente corretto che porta il segno della mancanza totale di responsabilità. Sfido chiunque a trovare una qualche ragione logica al fatto che un'alleanza abbia regole d'ingaggio diverse contingente da contingente, con caveat strettissimi per noi italiani.

Quando un paese occidentale si imbarca in un conflitto all'estero, scatta un tassametro, ogni giorno che passa il consenso scende, i cittadini-elettori si domandano se questa guerra valga la pena, la pena dei caduti, dei soldi spesi, magari in momenti di crisi come questi; se i nostri alleati locali, spesso corrotti e mascalzoni come Karzai, si meritano il nostro sacrificio. E il tempo passa, e questo lo sanno i nemici, lo sa Al Qaida, lo sanno i Talebani, lo sapeva anche Mao Tze Tung quando teorizzava la guerra rivoluzionaria. "Voi avete la forza, le armi, la tecnica e noi abbiamo il tempo". Questa è la semplice verità rivoluzionaria di ogni guerra asimmetrica, insorgenza, guerriglia o chiamatela come vi pare.

E allora il dovere di ogni stato degno di questo nome è di avvertire e preparare la propria pubblica opinione, perché si non si distragga, sia forte, possa resistere all'usura dello scorrere del tempo e possa anche scegliere, ma in verità, tra opzioni diverse: può decidere anche di ritirarsi, ma non per stanchezza, non perché scopre che in guerra si muore.

L’AUTOBIOGRAFIA DI UN NEOCON ITALIANO (art, sul Secolo, 13-9-2009

Il passato con il suo peso, con i suoi nodi non risolti continua a riproporsi. Cronaca diventata ormai storia, questioni mai chiuse si ripresentano in nuove sembianze. A distanza di più venticinque anni , il caso "Calabresi-Sofri" costringe una generazione, e non la "meglio gioventù", a fare i conti con la verità. Stefano Borselli e altri, in "Addio a Lotta Continua" (Rubbettino, 2008, pagg. 69, 12€), ripercorre senza sconti la storia di quel periodo, per come un gruppo di ex, compreso il sottoscritto che ha curato anche l'introduzione, l'ha vissuta, senza nessuna pretesa di esemplarità.

Avevo 16 anni quando mi sono iscritto alla Federazione Giovanile Comunista Italiana, nella sezione ospitata nella Casa del Popolo "Il Progresso" a Firenze, dove il mio amatissimo nonno, sindacalista socialista, mi portava da piccino. Ma il vestito che mi ero scelto mi stava stretto. Era il 1970, il Sessantotto lo avevo visto dal "basso", la politica era ancora il mondo dei grandi: forse ora nessuno ne ha più memoria, ma allora gli adolescenti portavano i pantaloni corti, all'inglese con i bottoni di lato. Ricordo però che mi fecero impressione le cariche della polizia sul corteo di studenti in piazza San Marco, davanti al Rettorato; io ero là con un poster di Che Guevara, comprato per mia cugina più grande, arrotolato sotto il braccio.

Ero comunista? Non lo so. Crescere, ribellarsi contro i genitori, leggere "Lettera ad una professoressa", andare in parrocchia, i discorsi sui poveri, sulla chiesa post conciliare… Ecco senz'altro posso dire che se non ero comunista, ero cattolico, addirittura boy scout (quanto mi sono divertito!), e che quell'adesione mi sembrava lo sbocco naturale a tutti i discorsi che risuonavano nelle riunioni – c'è qualcuno che si ricorda la parola "adunanza"? Si parlava tanto, ore di discussione sul Vangelo, i preti operai, stare dalla parte degli umili… E tutti, ma proprio tutti, dicevano a Firenze queste frasi, anche i liberali. Ad un certo punto, questo lo ricordo bene, mi sembrò necessario concretizzare tutte quelle parole. Ero fissato con la coerenza di vita, e così mi ritrovai improvvisamente nel mondo della politica, nell'universo degli adulti. Insomma avevo fatto il salto, ero cresciuto. Da quel momento in poi la mia ribellione contro i genitori riceveva una benedizione dall'alto, dai cieli dell'ideologia; non ero più un ragazzino sedicenne che si divincolava per affermarsi, ma un giovane comunista che lottava contro il capitalismo! A quel punto il danno era fatto. Dopo l'adesione alla FGCI, un anno più tardi, venne Lotta Continua, una ventata di freschezza, di novità in confronto alla struttura organizzata del PCI.

Ero comunista? Non lo so, aderii a LC perché era veramente un'altra cosa rispetto anche al PCI; finalmente mi ritrovavo tra persone come me, con i miei stessi entusiasmi, la voglia di cambiare il mondo (ora dico, con la voglia di affermarsi nella vita cercando anche qualche scorciatoia), e il chiodo fisso della coerenza.

Il resto è noto, fa parte della storia nazionale. Mi sarei ripreso solo nel 1978. Nove lunghissimi anni di militanza rivoluzionaria segnati da una sensazione di durata che speravo non si dovesse ripetere mai più nella mia vita (e che invece doveva riproporsi poco dopo in uno strazio infinito al capezzale della mamma, scoprendo all'improvviso l'importanza della vita e la verità delle parole di Baget Bozzo: "la politica serve solo a contenere il male, a impedire che dilaghi nel mondo", non a cambiare la società!). L'intensità rivoluzionaria infatti è figlia della nevrosi, dell'adrenalina, della paura del vuoto, dell'orrore della noia; che ne sapevamo noi rivoluzionari – uniti nell'eccezionalità dell'esperienza eroica con i giovani avanguardisti di tutti i tempi - dell'eroismo quotidiano di guadagnarsi la vita onestamente ? Tutte le tappe rimandate, tutti gli appuntamenti evitati si sono presentati più tardi con gli interessi. Trovare la normalità non è stato facile. "Non c'era nessuna autodifesa, nessuna provocazione, c'era solo una rabbia spettrale, ideale… fredda, in quegli attacchi ritualizzati". Se c'è una categoria che spiega bene quei fenomeni è quella dell' assenza. "Manca la politica, manca la cultura, mancano le motivazioni… rimane una 'semplice' esplosione di ormoni… Quegli anni vanno restituiti al loro nulla".

Ero stato comunista? A questo punto, direi di sì. Avevo letto migliaia di pagine di Marx, Lenin, Rosa Luxemburg, Lukacs, Adorno, Horkheimer, Mao… Ora sapevo che cosa era il comunismo, il marxismo in tutte le sue varianti, da Gramsci a Bordiga.

Da un'esperienza simile si può uscire in molti modi . Ma dalle esperienze totalizzanti che fondono vita privata e attività sociale in un tutt'uno indistinto, in una militanza assoluta che richiedeva una dedizione senza freni, una strada seppur difficile è quella che richiede, a ciascuno secondo le sue possibilità, un doppio percorso, una elaborazione politica ed una auto analisi al limite del la terapia. Strada difficile, dolorosa e lunga, ma non ci sarebbe stata una letteratura tanto abbondante sull' "addio al comunismo" se così non fosse stato. Certo, qualcuno poteva buttare via tutta quella dannata esperienza con una scrollata di spalle, ma il prezzo sarebbe stato altissimo: "Non sono mai stato comunista" è una refrain che si sente spesso nella bocca degli ex PCI a partire da Veltroni, il leader del vuoto politicamente corretto. Oppure, l'opposto della leggerezza irresponsabile: il peso politico sulla scena italiana del nodo non risolto di chi non ha fatto i conti con il Crollo del Muro, la continuità del comunismo dopo la sua morte, il veleno rappresentato dalla presenza dei comunisti sopravvissuti indenni al 1989.

A noi reduci, storditi dai nostri errori, per riaversi furono necessari una serie di eventi dolorosi , vere e proprie rotture per l'intero nostro paese, che spesso significarono lutti per molti. La critica delle armi, della violenza nella lotta politica fu il grimaldello per la critica al comunismo. In "Addio a Lotta Continua" , Stefano Borselli racconta della necessità, del dovere morale ma passo politico fondamentale per riacquistare diritto di parola, di fare i conti con quell'esperienza segnata dalla adesione ad un'ideologia, e perfino pratica, di violenza. Violenza immorale e inefficace; mezzo bestiale che distrugge il mondo, tanto più disastroso in quanto peggiora la società. Lo schifo diventa insopportabile se scopriamo l'inutilità, la gratuità dell'atto. Avevo sperato nella sua necessità, nell'essere in guerra, ma non era vero. La guerra non esisteva, non c'era nessun fronte, nessuna trincea. La mamma mi svegliava la mattina, andavo a scuola o all'università, mio babbo tornava alle due dall'ufficio, c'era il torneo di calcio in piazza, andavo ad arrampicare sulle Apuane. Ma anche, passavo la giornata davanti alle fabbriche, in sede, facevo tardissimo la sera in fumose riunione, giravo in macchina o in lambretta a cercare inesistenti fascisti armati, a controllare movimenti di truppe che se ci fossero stati ci avrebbero spazzati via con un soffio. Ma noi non volevamo vedere la realtà, vedevamo il fascismo in Fanfani! In quel centrosinistra che aveva mandato i figli degli operai, dei contadini, della piccola borghesia per la prima volta al Liceo Classico. (Quando sento, anch'ora adesso, le accuse contro la prima repubblica corrotta, partitocratica, con al centro un sistema di potere a metà strada tra il clientelare e il mafioso, mi viene il volta stomaco. Penso allora a mio padre, anticomunista naturale socialdemocratico di ferro, che aveva fatto la resistenza con Badoglio, che faceva due lavori per mandare i figli all'Università, che andava al cinema una volta all'anno, e mi domando in che storia vivano i moralisti di professione).

Nella vita reale, nella società vera degli anni settanta non c'era nessuna centralità operaia, nessuna maggioranza di sinistra, nessuna rivoluzione in atto. Non solo! Se ci fosse stata, ecco la seconda scoperta, sarebbe stata peggiore di quella esistente. Ma addio al comunismo vuol dire riconoscere di essere persone uguali alle altre, non certo superiori a nessuno. Se le proprie azioni passate non si possono rinnegare, possiamo però sentirne il peso o anche la colpa. Chi c'eralo sa, nel profondo del suo cuore, di cosa siamo stati capaci, Borselli lo ripete tante volte.

All'inizio degli anni ottanta, Craxi segnò un epoca: libertà, democrazia, fine dell'asfissiante blocco catto comunista, un progetto per l'Italia, autonomia dal comunismo. E poi lo slancio teorico con coniugazione di meriti e bisogni, la scoperta dei filosofi americani Rawls, Nozick, del dibattito sulla razionalità delle scelte pubbliche, dell'economia del benessere, della tradizione riformista internazionale. Per chi era abituato all'ideologia, entrare nel mondo teorico del laboratorio del pensiero riformista, fu una scoperta liberatoria. E poi nel nostro cammino non si era soli: anche il marxista Colletti, uno dei nostri punti di riferimento, era uscito da quella chiesa sbattendo la porta.

Nemmeno oggi a distanza di trenta anni il riformismo di matrice socialista è qualcosa di scontato. Attenzione: non il PSI, ma solo Craxi seppe coniugare un progetto politico per quel pensiero liberale e riformista e infatti i nipoti di quella tradizione segnano le migliori politiche dell'attuale governo Berlusconi. I più accorti di noi sul piano teorico, ma non politico (mi riferisco alla scelta di aderire ai Verdi), si resero conto che alla soglia del XXI secolo vi erano anche altre sfide, la bio politica era lì con tutte le minacce ad una concezione tradizionale dell'antropologia, pronta ad offrirsi alle smanie costruttivistiche dei nipotini di Marx. Al di là della scelta di campo contingente, quella elaborazione era destinata a durare e rivelarsi in tutta la sua fertilità: la riscoperta della tradizione, dell'importanza dei vincoli sociali, del senso del limite come meta categoria antropologica, naturale e sociale.

In mezzo a questa riflessione faticosa, appassionata, tutta dentro la storia d'Italia, che riusciva a parlare con gli ex fascisti – Tarchi, Croppi, Veneziani ecc.- imparando anche dalla storia degli altri, e trovando terreni comuni nella critica alla modernità, arriva il ciclone tangentopoli. C'era da impazzire. Il partito comunista, finanziato da Mosca, che veniva fuori da un fallimento epocale come il crollo della sua ragion d'essere, adesso si ergeva a paladino della legalità e moralità pubblica! Non c'è da stupirsi se in fondo al viaggio si sia visto nella discesa in campo di Berlusconi l'aprirsi di uno spiraglio alla libertà.

In fondo, la differenza tra chi ha percorso questa strada e la maggioranza che proviene dal PCI è tutta qui, tra chi ha detto addio al comunismo con il muro ancora in piedi facendo i conti prima di tutto con se stessi e poi anche sul piano della teoria politica, e chi invece ancora si rifiuta di guardare alla propria storia, che ancora crede nella propria superiorità morale e antropologica. Non è un caso allora che nella battaglia politica odierna, il moralismo abbia il sopravvento sull'argomentazione, la diffamazione sia moneta corrente e la logica di guerra, con quella celebre dicotomia amico-nemico, tolga spazio al civile confronto delle idee. Alla fine della parabola, passata con lo scorrere degli anni anche le l'importanza delle genesi delle storie individuali, rimane proprio questa millantata diversità antropologica a segnare la differenza, a far dire che "il comunismo è morto ma non i comunisti". Il punto di partenza è sempre quello della doppia moralità, che a tutt'oggi sopravvive. "Una delle contraddizioni di ogni 'rivoluzionario di professione' come li chiama Camus nell'Uomo in rivolta' (è) quella di essere o credersi sostanzialmente un pacifista, perché il suo uso della violenza, anche se compie delle azioni atroci, è giustificato dal fatto che lo fa perché costretto e solo per liberare il mondo dalle guerre volute dalla borghesia per difendere i suoi interessi".