venerdì 29 gennaio 2010

Intervento del premio Nobel per la Pace Elie Wiesel pronunciato alla Camera dei Deputati

Ringraziamo il senatore Paolo Amato per averci inviato questo post.

"Cari Amici,

mercoledì scorso i due rami del Parlamento e le più alte istituzioni della Repubblica hanno celebrato il Giorno della Memoria, solennità nazionale istituita dieci anni fa per preservare il ricordo delle vittime della Shoah nella ricorrenza di quel 27 gennaio del 1945, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz.

A questo proposito, sperando di fare cosa gradita, vi inviamo nel link http://nuovo.camera.it/106 il video del toccante intervento del premio Nobel per la Pace Elie Wiesel pronunciato alla Camera dei Deputati di fronte al Presidente della Repubblica Napolitano e al Presidente del Consiglio Berlusconi."


 


 

giovedì 28 gennaio 2010

Il giorno della memoria

Dall'amico Costantino Pistilli su Israele, un brano di Begin

Il giorno della memoria è ricordarsi d'Israele, oggi. Perché le minacce di sterminio continuano e, a differenza del periodo della follia, c' è un ebreo in più da difendere: Israele. Nazione sorta da lotta, sacrificio e unione. Senza analgesici colloqui di pace, enti internazionali o tutor rights e nonostante la debolezza del popolo Ebreo sfinito dall'Olocausto, pignorato dalla Corona inglese, rinnegato dalla santa madre Russia e avversato dalla scimitarra di Maometto. Ce lo racconta in un (introvabile) libro " La rivolta e fu Israele" Menachem Begin, manovale e architetto della costruzione dello Stato ebraico, fino a diventarne Primo ministro. Eccone dei passaggi:

La più oscura delle notti scese sugli Ebrei europei. I treni della morte trasportavano un milione e mezzo di bambini alle camere a gas e milioni furono uccisi a colpi di fucile, annegati, linciati, asfissiati o sotterrati vivi. Quando l'uomo diventa una bestia l'Ebreo cessa di essere considerato una creatura umana. Non bisogna farsi illusioni: non solo i nazisti ci consideravano come microbi che dovevano essere distrutti, ma anche il mondo che si autodefiniva "illuminato", cominciò ad abituarsi all'idea che gli Ebrei non fossero creature umane simili alle altre. E non ci si impietosiva della loro sorte più di quanto non si facesse per il bestiame condotto al mattatoio di Chicago. È una dura verità ma non ci si impietosisce su coloro che vengono sterminati. Si supponeva che anche in Israele avrebbero invocato, tremanti, protezione. Ma Vladimir Jabotinsky, creando l'Irgun nel 1937, insegno a tutta una generazione a resistere, a essere pronta al sacrificio, alla rivolta e alla guerra. David Raziel, il più grande genio militare ebreo della nostra generazione, compì il passo decisivo: il primo attacco armato ebreo. L'armata ebrea clandestina ,l'Irgun Zvai Leumi, era nata. Un'organizzazione clandestina conosciuta con il nome di "Combattenti per la libertà d'Israele" o gruppo Stern ( dal nome del suo capo Abraham Stern), gli fece seguito. Una nuova generazione sorgeva e voltava le spalle alla paura.

Essa si mise a combattere invece di supplicare. La rivolta esplose nei nostri cuori. E quando le macabre notizie dall'Europa furono confermate, capimmo di non dover combattere solo per la libertà del nostro popolo, ma per la sua stessa esistenza. Non c'era altra via per il nostro popolo decimato oltre quella di un sollevamento rivoluzionario. È naturale che l'unica via sia anche quella giusta. Le due parole che hanno fatto la storia e che ne hanno cambiato il corso, erano state lanciate nell'arena di Eretz Israel: " Libertà o Morte". Due parole, grandi e semplici. Nella nostra mente era sempre presente la sorte che la politica inglese ci riservava;ancora risuona il rantolo dei convogli della morte in Europa. Perché redigere memorandum o pronunciare discorsi? Quando si è attaccati da un lupo in una foresta, si tenta forse di convincere la bestia a non dilaniarvi o magari che non è un lupo ma una brava pecorella? Noi non avevamo scelta. O combattere o essere annientati. Combattere era il nostro unico modo di sopravvivere. Quando Cartesio disse "Pensiamo dunque siamo" esprimeva qualcosa di profondo. Ma ci sono momenti nella storia dei popoli che il solo pensare non basta ad affermare la propria esistenza. Un popolo può "pensare " e tuttavia i suoi figli, con i loro pensieri e a dispetto di questi, possono essere trasformati in schiavi o in cenere. Ci sono momenti quando il rispetto dello stesso essere umano esige che si resista al male. Combattiamo, quindi, siamo.

lunedì 25 gennaio 2010

Osservatorio 23 gennaio


 

Grande e tanto materiale sullo Yemen a cura dell' American Enterprise Institute. Adesso, in quella che era l'Arabia felix dei romani, sono in corso ben tre conflitti contemporaneamente: la rivolta delle tribù scite degli Houti al nord, i secessionisti al sud e le azioni di al Qaida che gode di forti appoggi e protezioni nel "Palazzo". Mentre le prime due insorgenze sono di carattere politico locale, è il caso di sottolineare il carattere di minaccia globale rappresentato da Al Qaida. Il consiglio è di iniziare a studiare la cartina del paese per riuscire a localizzare i luoghi degli scontri, ma il 'pacchetto' dell'AEI contiene anche la testimonianza di F.Kagan davanti al senato e l'analisi delle azioni contro al Qaida.

Altro caso esemplare, per la complessità dei problemi che comporta, è la Somalia, sull'orlo della scomparsa come entità sovrana minacciata dalla criminalità organizzata, dai signori della guerra locali e dalla pirateria. Tutti fattori che la rendono un'ottima base per l'insediamento di Al Qaida. Ma quando si parla di stati falliti non si dice solo sfide alla sicurezza internazionale, ma anche dramma per la popolazione civile, per i milioni di persone minacciate da una crisi endemica. Quali sono allora gli impegni per la comunità internazionale?

Uno studio ottimo sulle conseguenze degli stati endemici di conflitto, il caso qui dell'Eritrea, è la disgregazione del tessuto di relazioni sociali, elementi da ben tenere presente quando ci si impegna in guerre estenuanti e prolungate come quelle dell'Afghanistan.

I casi di corruzione in Russia quest'anno hanno avuto un incremento dell'11%. Interessante anche questa specificazione sulla natura della mafia russa secondo cui è vero che esiste il crimine organizzato, ma il termine italiano non è quello giusto per definirlo perché si riferisce ad un tipo di illegalità con rapporti stretti con la politica, mentre in nel caso russo questi legami mancherebbero. A me sembra un'analisi un po' povera, forse una caratteristica della mafia nostrana era/è anche il controllo del territorio e la funzione alternativa nell'amministrazione della giustizia, oltre ovviamente all'uso micidiale della violenza.

Le questioni cinesi – un po' troppo trascurate dalle nostre osservazioni – sono presenti in questo numero con il bollettino sempre ben fatto della James Town Foundation. Particolarmente interessante questo articolo sulla politica di sicurezza dove si riferisce della mission dell'esercito cinese: "1) consolidare l'attuale status della Repubblica popolare,2) difendere la sovranità, l'integrità territoriale e la sicurezza domestica per continuare lo sviluppo nazionale, 3) salvaguardare gli interessi nazionali in espansione,4) aiutare a mantenere la pace nel mondo".

Un accusa pesantissima da parte di Israele contro Obama. Gli Stati Uniti starebbero venendo meno agli accordi con Gerusalemme a proposito degli impegni di aiuti alle forze armate. Infatti tutto il vantaggio della forza dell'esercito israeliano sui paesi arabi si basa su tre presupposti: 1) la quantità e qualità degli armamenti, 2) la tattica e l'addestramento dei soldati, 3) la qualità della leadership. Israele è indipendente solo per l'ultimo punto, per il resto è essenziale l'aiuto americano. Ora fino a che c'era la guerra fredda, tutto è andato bene ma al crollo del muro le cose sono cambiate, a causa anche delle alleanze americane con alcuni paesi arabi – Arabia, Egitto – a cui forniscono sistemi d'arma di ultimissima generazione (e, visto le risorse enormemente superiori di Ryad, in quantità ben più rilevanti di quelle date all'IDF) e addestramento, tutti fattori di oggettiva tensione con Israele.

Ecco una rassegna stampa sul primo anno di presidenza di Obama. Ci sono tutti i maggiori commentatori e analisti: Robert Kagan (World Affairs), Abe Greenwald , William Kristol and Fred Kagan, Eliot Cohen, Charles Krauthammer, Akbar Atri and Mariam Memarsadeghi (Wall Street Journal), Elliott Abrams wrote (Weekly Standard) ecc. Molte sono le sfide alla politica di Obama uno dei problemi maggiori che proviene dal Medio Oriente è nella capacità di tenere assieme ben tre sfide allo stesso tempo, il processo di democratizzazione dell'area, la politica di sicurezza degli Stati Uniti e l'impegno alla salvaguardia dei principi di autodeterminazione dei popoli, obiettivi che spesso collidono tra loro. A questo proposito si veda questo documento dell' United States Institute of Peace.


 

Sempre a cura del German Institute of Global and Area Studies è il working paper sull'Algeria e l'influenza dei fattori economici, leggi il petrolio, nella passata guerra civile. Come si sarà notato, salta agli occhi la differenza di impostazione dei centri studi europei da quelli americani, i primi sempre più interessati ai fattori sociali dei conflitti.

sabato 16 gennaio 2010

Appunti internazionali

Guerra simmetrica e ruolo della religione

Incominciamo con un documento molto importante, Religion and Resistance: Examining the Role of Religion in Irregular Warfare per l'originalità della riflessione che di solito, e stranamente, manca nei consueti trattati militari che affronano di sfuggita il ruolo della religione nella guerra asimmetrica. Questa critica vale anche per la nuova Bibbia dell'esercito americano, il Counterinsurgency Field Manual del 2006 a cura degli ufficiali laureati di Petraeus, da Kilcullen a Nagl. E' ad opera dei militari canadesi, uno degli eserciti più attenti ed esperti in missioni altre dalla guerra convenzionale; non è un documento nuovisimmo (marzo 2009) ma appunto è originale e utile, perché teso a colmare il vuoto della tradizionale sottovalutazione della funzione della religione come fattore di coesione sociale, elemento pesante che fonda, o per lo meno influenza, anche tutti gli altri ambiti di vita. D'altronde è ben strana questa mancanza, dato appunto il carattere delle maggioranza delle insurrezioni post guerra fredda, dove il carattere religioso ha soppiantato la motivazione ideologico politica che pure disponeva di una forte componente spirituale, anche se travisata.

Guerra moderna e Al Qaida

Philip Bobbit è un filosofo della politica e studioso di questioni militari di cui abbiamo già parlato per i suoi due celebri libri, The Shield of Achilles (Lo scudo di Achille) e Consent and Trerror
entrambi sulle trasformazioni della guerra e il significato del terrorismo nel XXI secolo.

Adesso sul settimanale NewsWeek ha scritto un pezzo 9 imperativi nella lotta contro il terrorismo nel mondo post 11 settembre. Nell'attuale dibattito che si è aperto in USA dopo gli ultimi tentativi terroristici e che hanno visto polarizzarsi le posizioni a favore e contro Obama, troppo morbido con i terroristi oppure ancora seguace della linea Bush-Cheney, Bobbit estrae una tesi niente male. L'amministrazione Bush aveva ragione a valutare il vecchio status quo legislativo inadeguato davanti alle nuove sfide lanciate da Al Qaida, ma ha peccato di "decisionismo emergenziale" (l'espressione e mia) perché si è rifiutata di far passare i nuovi atti (tra cui intercettazioni telefoniche, detenzione preventiva) attraverso la discussione del Congresso. Ora per Bobbit la lotta contro il terrorismo moderno è essenzialmente una lotta di legittimazione e di diritto. Nella lotta contro nemici non statali – che non è contessa nè per il territorio né per la conquista di risorse naturali - il significato di vittoria va al di là della sconfitta del nemico, ma significa difesa dei civili nel rispetto della legge. Ed è quello che ha fatto Petraeus in Iraq. "Se le leggi sono inadeguate, esse vanno adattate al nuovo contesto strategico".

Sempre sullo stesso periodico, vi è un altro notevole articolo (ma perché i direttori italiani non imparano?) sul significato di "vittoria" nelle guerre moderne, Addio alla vittoria. Una volta le guerre finivano con vincitori e perdenti, adesso si sono complicate. E' un articolo complementare al precedente e basandosi sulle tesi della studiosa della Columbia Page Fortna sostiene che, se sempre "la guerra come l'amore è più facile da iniziare che da finire", adesso nell'epoca post guerra fredda le guerre moderne, dati alla mano, nella loro grande maggioranza non riescono a terminare mentre dal 1816 al 1948 la percentuale era molto superiore: più del 50%. Perché? Perché è cambiata la guerra, perché gli stati più forti non traducono la loro superiorità militare in quella militare impediti da un quadro legale e morale, nazionale e internazionale, completamente diverso da quello di cinquanta anni fa, perché poche sono le guerre simmetriche, perché cambiate son o le motivazioni per cui si va in guerra ecc.

USA

Lo stato dello stato: una proposta per la riorganizzazione di Foggy Bottom. E' uno studio proposto dal PPI, Progressive Policy Institute; Foggy Bottom è il nome del Dipartimento di Stato che prende il nome dal quartiere dove sorge a Washington. Il problema a cui l'Amministrazione Obama è chiamata a rispondere è per niente semplice: da una parte a causa dell'11 settembre si è assistito ad un crescendo di compiti e allo stesso tempo ad una militarizzazione degli interventi, dall'altra la globalizzazione e la rivoluzione informatica hanno reso obsoleta la vecchia struttura piramidale.

Lawrence Korb, assistente al segretario alla difesa nell'amministrazione Regan, sottolinea, con ragione, nell'articolo I generali dovrebbero essere guidati dalla verità, non dalla politica
un punto centrale nella divisione del lavoro tra politici e militari, ma si potrebbe dire tra politici e tecnici. Gli esperti del settore non devono prendere decisioni politiche, non spetta a loro, ma nemmeno forzare la realtà per compiacere la politica. I generali hanno il compito di dire le cose come stanno, anche se sono spiacevoli e a questo proposito riporta una serie di esempi. Per venire ai nostri giorni, i comandanti in Afghanistan precedenti a Mc Crystal hanno fatto quello che hanno potuto con i mezzi messi loro a disposizione, con quelle forze sul campo non potevano aver ragione del nemico.

Yemen

Frederik Kagan e Cristopher Harnisch commentano sul Wall Street Journal la situazione in Yemen dove il governo locale deve far fronte a due insorgenze diverse, Al Qaida e le popolazioni scite al nord appoggiate dall'Iran e contrastate dall'Arabia.Ora viste le simpatie, i rapporti tribali, religiosi e ideologici con Al Qaida, il governo di Sana percepisce come nemico principale gli irredentisti sciti e l'espansionismo regionale di Theran, mentre per gli Sati Uniti e per l'occidente ovviamente il pericolo maggiore è esattamente l'opposto o per lo meno i due nemici non sono barattabili. Allo stesso tempo è chiaro che gli USA non possono intervenire con truppe e iniziare guerre in ogni angolo del mondo. Kagan propone una soluzione semplice: se lo Yemen vuole essere aiutato contro l'Iran, deve allora impegnarsi nella lotta contro Al Qaida, iniziando ad epurare i suoi mal messi servizi segreti, Come applicare lo 'smart power' in Yemen, appunto.

Afghanistan

Brezinski, il grande vecchio della politica americana, iper critico con tutta la politica di Bush contro la guerra al terrorismo mondiale, ha rilasciato una lunga intervista televisiva sulla guerra afghana. Data la rilevanza del personaggio, merita di essere ascoltata (prima e seconda parte).


 

venerdì 8 gennaio 2010

Egitto, Gaza e Yemen. Non è che l’inizio del 2010

Nella lotta contro il terrorismo jahdista, appena le cose sembrano andare bene, o per lo meno meglio, da una qualche parte, ecco che subito si apre una voragine da un'altra. Ecco che arrivano le notizie dallo Yemen, della strage di cristiani dall'Egitto, degli scontri a Gaza tra Hamas e forze di sicurezza egiziane.

Fatti diversissimi tra loro distanti migliaia di chilometri sono in realtà uniti da un filo rosso comune: la matrice religiosa dei responsabili delle azioni e la violenza quale metodo politico. Il fatto più grave tra tutti, ma anche quello che spiega ogni cosa, è l'assassinio feroce e gratuito dei cristiani copti dovuto ad un odio selvaggio che la dice lunga sulla volontà di annichilimento degli estremisti islamici. Se ancora qualcuno non lo avesse capito, i nemici da uccidere e sottomettere siamo noi, è l'occidente cristiano e giudaico; da eliminare assieme ai governi arabo mussulmani secolari e apostati come quello egiziano. Tragico destino quello dei cristiani in Medio Oriente a cominciare dall'Iraq e grave risulta essere il silenzio colposo della vile Europa, sempre pronta ad alzare la voce in difesa di qualche minoranza super protetta a casa nostra, ormai diventata anche potente lobby ,e distratta invece quando si parla della difesa della nostra tradizione ormai minoranza.

Le violenze egiziane però la dicono lunga anche sulla fragilità delle istituzioni di quel paese che, finita l'epoca del nazionalismo panarabo, stenta a trovare una propria via tra modernità e tradizione e che ancora è sulla soglia di una realizzazione completa della democrazia. Compito non certo facile, specialmente se lo si affronta con una economia non certo florida e con profondi squilibri sociali, ma il nodo dell'assorbimento di gran parte dei movimenti tradizionalisti e fondamentalisti entro una dialettica democratica e pacifica è la chiave di volta per uscire, in un processo lungo e faticoso, dalla crisi post nasseriana.

Anche lo Yemen porta le cicatrici di una storia lunga e difficile attraversata da tutte le contraddizioni del 900, la decolonizzazione, il sogno del nazionalismo arabo, il miraggio del socialismo per ricadere nella morsa delle sue ataviche contraddizioni, in una lotta tra clan, etnie, religioni, tra sciti e sunniti, tra Iran e Arabia, tra Al Qaida e gli Stati Uniti. Qui l'America si trova ad affrontare un ginepraio non facile perché deve destreggiarsi contemporaneamente tra due nemici: se da parte di Bin Laden, come nel caso dell'11 settembre, provengono gli attentatori alla sicurezza nazionale, il pericolo strategico regionale più grande avviene ad opera del'Iran , in grado di destabilizzare tutta la regione.

Per paradossale che possa essere, la situazione migliore è rappresentata dalla questione palestinese, compresa la striscia di Gaza, dove Israele è riuscita sul piano militare a trovare una soluzione contro il lancio dei missili e contro gli attentati suicidi della seconda intifada. Si obietterà che non "la" soluzione; è vero perché sul tappeto c'è la questione dello stato palestinese, l'aspetto simbolico del problema, il mantenimento di una piaga purulenta che infetta ogni discorso sul Medio Oriente, ma il muro tanto criticato dalle anime sensibili occidentali e l'azione contro Gaza nel 2009 hanno prodotto uno status quo che non mette in pericolo Tel Aviv, e questo risultato, nel caotico mondo medio orientale, non è un fattore di poco conto. Che le misure israeliane abbiano funzionato, lo dimostra il fatto che alcune di esse, come la costruzione del muro, sia stata ripresa dall'Egitto per fermare il continuo contrabbando, dalle armi ai generi di lusso, tra i due paesi. Si può obiettare che i traffici illeciti esistono perché mancano prima di tutto i generi di prima necessità a causa del blocco israeliano e questo è vero, ma non si tiene conto del punto di partenza: l'assoluta mancanza del principio di realtà del mondo arabo, precedente al'avvento del fondamentalismo. Da Gaza Israele è andata via lasciando serre e fabbriche, perché distruggere tutto e riniziare a vivere in una economia di guerra dove ad arricchirsi sono sempre i soliti?

Il punto di partenza per ogni ragionamento sulla pace, che può anche per retorica e consenso rimanere nascosto e non detto, sta proprio nella necessità di riconoscere in tutti i casi lo stato dei fatti, l'esistenza dello Stato Israeliano, l'impossibilità di ricostruire il califfato mondiale come l'impossibilità di uscire dalla modernità. Altrimenti il futuro che ci resta davanti è rappresentato da una gestione delle crisi medio orientali in un equilibrio tra azioni militari e politiche, cercando di tenere sotto il livello di guardia e bilanciandosi tra interventi di state building ,come nel caso dell'Afghanistan e dell'Iraq, e interventi mirati come ora in Yemen. Equilibrio non facile.