sabato 25 aprile 2009

Appunti internazionali n° 2 , 24 Aprile 2009


Afghanistan
In questo numero, il martoriato paese occupa uno spazio centrale.
Subito l’ultima notizia: il Segretario di Stato Hilary Clinton commenta preoccupata gli ultimi avvenimenti dall’Afghanistan dove i Talebani hanno occupato due città a sud di Kabul: si è lamentata del comportamento ‘arrendevole’, per usare un eufemismo, del governo afgano e dell’esercito. Appena pochi giorni fa, Hilary Clinton aveva accusato anche il governo pakistano“di aver abdicato agli estremisti”. (Anche i democratici sono preoccupati del troppo attivismo, della nuova “surge” in quel paese, che contrastano con le loro affermazioni pacifiste).
Segue un articolo che descrive bene il tipo di guerra che i paese occidentali combattono, dal titolo eloquente, e pessimistico, “Lawrence d’Afghanistan e la possibilità persa di avere il sopravvento sui combattenti talebani “. Negli anni scorsi i britannici furono duramente criticati dagli americani per i loro contatti con gruppi di insorgenti, ma “la dottrina era semplice: dividi il tuo nemico, impegnati con quelli che possono essere riconciliati, uccidi o cattura quelli che non lo possono”. Questo modus operandi sembra aver dato i suoi risultati se ben 5000 combattenti ex talebani sono passati dalla parte dell’alleanza.
La nuova strategia sembra quindi funzionare; a dimostrazione anche i successi su di un nemico acceso come il clan Hakkani, vicino ad Al Qaida. Di solito in Italia si pensa che esista solo Al Qaida e i Talebani, ma la situazione è molto più complessa. “Il network Haqqani è uno dei tre maggiori gruppi insorgenti con i talebani e Hizb-i-Islami-Gulbuddin (HIG). Tra questi, sono gli Haqqani ad aver orchestrato la maggioranza degli attentati suicida a Kabul e ad avere un’influenza significativa nelle province del sud. Nei suoi ranghi, il gruppo conta molti combattenti stranieri ed è molto più vicino ad Al Qaida. Questa rende il clan molto più estremista, anche perché il suo leader, Jalaluddin Haqqani, fu un influente comandante mujadeen e alleato degli USA durante la guerra con i sovietici. Più tardi servì come ministro nel governo dei Talebani…Dopo il 2001, passò in Pakistan dove costruì il suo network che emerse come gruppo insorgente indipendente alleato con i talebani”.
Uno dei maggiori problemi però che gli americani si trovano ad affrontare è costituito dalla doppiezza, ambiguità, falsità con cui agisce il governo di Kabul che, da una parte, dice di essere addirittura contrario ai contatti, dall’altro con questa scusa si permette di denunciarli prima che avvenissero, mettendo a grave rischio il successo dell’operazione e la vita dei mediatori, tra cui un leggendario irlandese, già operatore della ONG Oxfam. Questa è una delle tante storie che si possono leggere nel libro di David Loyn, "Butcher and Bolt - Two Hundred Years of Foreign Engagement in Afghanistan" che uscirà a settembre. Il giornalista pone molti quesiti, tutti centrati. Come hanno potuto gli impopolari Talebani riemergere dopo la sconfitta brutale del 2001; se vi sia qualcosa nel paese, e nella natura profonda del suo popolo, che fa sì che esso sia così refrattario a qualsiasi conquista; perché l’Afghanistan, una volta conquistato, sia così difficile da tenere; che cosa succeda sotto la superficie di una delle società più complesse al mondo; perché le riforme, tante volte annunciate, non siano mai state prese; perché gli invasori sembra non abbiano imparato niente da chi li ha preceduti nella medesima impresa e ripetano sempre gli stessi errori. Ma in fondo la coalizione deve ancora dare una risposta sensata alla domanda posta due secoli fa da un Kahn locale agli inglesi: “Avete portato il vostro esercito nel paese, ma ora come pensate di uscire da qui?”. David Loyn giustamente mette in risalto la quantità di attori stranieri che operano in Afghanistan per raggiungere i propri interessi, al di là magari di trovarsi a fianco degli americani. In primo luogo vi è il Pakistan che cerca di rafforzare la sua posizione contro l’india e quindi incoraggia il fondamentalismo sunnita nel Kashemir (ma in questa parte del mondo i confini sono inesistenti) anche se è alleato dei Talebani; poi ci sono i Sauditi che continuano a disseminare il paese di Madrassah sia in Pakistan che in Afghanistan (a questo proposito si legga il bel libro “Tre tazze di tè” di Greg Morrison, Rizzoli). Presenze inquietanti tra cui si trovano anche gli avversari degli Stati Uniti: l’Iran innanzitutto acerrimo nemico di qualsiasi regime sunnita, che opera nelle regioni confinanti abitate dalla minoranza scita. Sullo sfondo, la Russia alla ricerca, come nel Grande Gioco kiplinghiano, di raggiungere un’influenza in Asia Centrale, possedendo una formidabile arma di ricatto nei confronti dei paesi occidentali quale il controllo dei passi a Nord da cui transitano rifornimenti sicuri per gli eserciti alleati.
Il generale Petraeusin, in un discorso alla Harvard University’s John F. Kennedy School of Government a Cambridge, nota le differenze tra le guerre in Iraq e in Afghanistan e sottolinea come la pace “ sia raggiungibile, ma non usando le stesse strategie che hanno condotto ad un punto di svolta in Iraq”. La prime ovvie risiedono nella geografia: il paese dell’Asia centrale non dispone di risorse naturali, ed è chiuso, incassato tra le montagne con villaggi sparsi; la seconda è istituzionale, dato che non ha mai visto un governo centrale forte. Ma la guerra in Afghanistan, a differenza di quella in Iraq, ha avuto un sostegno internazionale esteso e quindi il conflitto non è unilaterlae non coinvolgendo, per lo meno idealmente, solo gli americani. E questo è senza dubbio un punto di forza.
Anche se il governo di Kabul afferma che non ci sono santuari di Al Qaida nel paese, vi è da registarer una dichiarazione di Ayman al-Zawahri, numero due di Al Qaida: “quello che Obama sta facendo con l’aumento delle sue truppe è soltanto di buttare benzina sul fuoco che sta bruciando”.
Il punto di vista del governo afgano è spresso nell’intervista condotta da Farred Zakaria, al presidente afghano e Richard Holbrooke. Tra le altre cose interessanti, si noti l’esilarante risposta a proposito della legge che sancisce la differenza tra i sessi, punisce le donne per adulterio, le costringe a chiedere al marito il permesso per uscire di casa, legalizza lo stupro tra le mura domestiche “Questa legge è stata firmata (da lui stesso, ndr.) senza conoscere gli articoli che conteneva. E’ una legge enorme che contiene molti articoli”. Comunque il presidente ha sostenuto, sempre nella stessa intervista, di non volere interferenza straniere riguardo agli affari interni. Certo è che anche gli americani sembra che cadano nell’errore opposto e moralizzino veramente troppo, come non fecero né in Germania, né in Italia, né in Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale. Infatti l’intervistatore chiede con il sopracciglio alzato, se il presidente è disposto a intraprendere negoziati con il mullah Omar e quest è la rispsta: ovviamente sì.
Per chi vuole approfondire, ecco l’ultimo report sulla situazione afgana del Center for American Pogress che partendo da un’analisi della situazione attuale non certamente buona, stabilisce per gli americani e i suo alleati, tre obiettivi generali estremamente realistici: assicurare che l’Afghanistan non diventi un santuario di nuovo per il terrorismo internazionale da cui possa lanciare attacchi in ogni parte del mondo, prevenire un vuoto di potere nel paese che potrebbe destabilizzare anche il Pakistan e l’inera regione, impedire che l’Afghanistan sia governato da forze estremiste come i Talebani.

giovedì 23 aprile 2009

Alia Nardini. Paladini dei valori Universali

L'amica Alia Nardini mi ha inviato un commento ai fatti relativi all'uso della tortura a Guantanamo.

Secondo i memorandum resi pubblici nei giorni scorsi dalla Casa
Bianca, nel campo di prigionia di Guantànamo istituito nel 2002
dall’Amministrazione di George W. Bush fu raccomandata la violenza
corporale, nonché la necessità di causare “sconforto psicologico” nei
detenuti. L’annegamento simulato (waterboarding), le percosse
(schiaffi e walling), la privazione del sonno, la manipolazione
dietetica e le torture con acqua gelata ed insetti (seppur innocui) erano
ritenuti a tutti gli effetti leciti metodi di interrogatorio. Sebbene
contrarie alla Convenzione di Ginevra, queste pratiche venivano
giustificate dall’affermazione che i presunti terroristi non erano
prigionieri di guerra, ma “combattenti irregolari” ai quali la normativa internazionale sulla detenzione non era applicabile.
Rendendo pubblici i dettagli degli interrogatori dei presunti terroristi affiliati ad Al Qaeda, Barack Obama ha fatto indubbiamente la cosa giusta. Fin troppo si è speculato su quanto accadesse tra le mura della base americana a Cuba. Ora il mondo saprà per certo quali tecniche di interrogatorio la CIA -così come il Partito Repubblicano allora al governo- sostennero a Guantànamo, nel tentativo di carpire informazioni vitali ai prigionieri.
Ciò nonostante, in contemporanea alla diffusione dei memorandum, Barack Obama ha confermato l’immunità giudiziaria per i perpetratori delle torture, in particolar modo all’interno della CIA.
Questo lascia perplessi molti esponenti dello stesso Partito Democratico statunitense, sebbene alcuni vedano nelle parole del Presidente un disegno politico più ampio. Abolendo le torture, chiudendo le prigioni speciali e modificando gli attuali canoni che regolano interrogatorio e detenzione dei sospetti di terrorismo -pur senza punire retroattivamente i responsabili- il Presidente agirebbe depotenziando l’intera questione Guantànamo per ripartire con un colpo di spugna, forgiando una nuova immagine dell’America più attenta alle normative internazionali ed al giudizio
dell’opinione pubblica.
Tuttavia, gli americani non possono e non devono accettare un simile compromesso. Già ai tempi di Norimberga non venne considerato sufficiente ricorrere alla catena di comando per giustificare l’esecuzione di ordini ingiusti: la responsabilità diretta ed individuale di un’azione non viene ancellata dall’idea di aver semplicemente eseguito un ordine, poiché alle disposizioni ingiuste un oldato ha modo di disubbidire.
Se Barack Obama reputa che ciò che fu fatto a Guantánamo debba essere reso noto al mondo, è ecessario anche un iter processuale che traduca il diffuso biasimo morale per le azioni compiute in n catartico giudizio legale. Solo così gli Stati Uniti, che seguitano a ritenersi i paladini della
moralità e dei valori universali, riacquisteranno credibilità internazionale".

mercoledì 22 aprile 2009

"La questione Afghana e il nuovo grande Medio Oriente"

Articolo pubblicato su Ragionpolitica 22 aprile 2009

"Al di là della differente retorica e delle modalità diverse d’azione dalla amministrazione Bush, Obama non è certo un pacifista. Lo dimostra l’invio di nuove truppe in Afghanistan (17.000 uomini) e la richiesta, semi rifiutata, di compiere uno sforzo ulteriore ai pigri alleati della Nato. Il presidente americano coadiuvato dal generale Petraeus ha infatti deciso di cambiare strategia nelle operazioni in Afghanistan, dopo ben 8 anni di guerra. Prima che si arrivi a rubricare il conflitto afghano come una delle tante “guerre senza fine”, Obama ha scelto di impegnarsi cercando di stabilizzare i due paesi a rischio, uno dei quali, il Pakistan, detentore di armi nucleari. Ma la situazione non è semplice.
Davanti agli Stati Uniti stanno tre opzioni – secondo il professor Paul Rogers conoscitore a fondo della realtà asiatica ed esperto di relazioni internazionali all’univerisà di Bredford - tutte di non facile scelta. La prima sostiene che la guerra contro i Talebani, appoggiati da Al Qaida, non può essere vinta ma deve essere contenuta entro un rischio ragionevole. Quindi a Kabul devono rimanere un numero sufficiente di soldati (stime sostengono 60.000 uomini) per un numero indefinito di anni. La seconda opzione afferma che anch’ora la guerra può essere vinta, ma è necessario compiere un ulteriore sforzo militare raggiungendo la ragguardevole cifra di 100.000 soldati e impegnandosi a fondo nell’opera di ricostruzione del paese –fatto, incredibile a dirsi, che non è fino ad oggi avvenuto. La terza, la meno ortodossa, porta una tesi paradossale: sono gli eserciti occidentali la causa della cronicizzazione della guerra che non cesserà fino a quando essi rimarranno sul territorio afgano. Solo un loro ritiro ed una loro sostituzione con truppe di peace building dell’ONU provenienti da paesi mussulmani potrà porre una svolta al conflitto.
Quale scegliere? Come al solito la realtà offre una serie di dati a favore di ogni scelta. A vantaggio della prima ipotesi vi un dato incontrovertibile. Negli ultimi mesi sono aumentati gli attentati a Kabul e il Pakistan è stato raggiunto da un’ondata di violenza capeggiata dai talebani locali. Ma anche la seconda opzione ha frecce nel suo arco: non è forse vero che le truppe Nato e americane si trovano ad affrontare non più di 20000 insorgenti e per maggior parte nella zona meridionale del paese o a Kabul, a differenza dei sovietici che dovettero affrontare una resistenza diffusa e di massa? Si calcola che quella guerra causò la morte di circa un milione di persone, secondo l’analisi di Peter Bergen ("Graveyard Myths", International Herald Tribune, 30 marzo 2009).
Comunque sia, la situazione rimane irta di difficoltà e gli Stati Uniti devono affrontare una bruttissima crisi regionale. Cambiamenti epocali come la globalizzazione, regionali quali il risorgere del fondamentalismo islamico e la rivoluzione iraniana, crisi locali – si vedano ad esempio le guerre del Golfo, quelle afgane, la crisi israelo palestinese, le tensioni con l’Iran- si trovano per la prima volta uniti in una stessa unica grande cornice geografica che ha fatto saltare definitivamente le vecchie categorie di “Medio Oriente” , “Asia Centrale” e “Asia Meridionale”. I differenti conflitti, anche a causa della loro pervicacia, si sono inscatolati l’uno nell’altro rendendo la situazione un puzzle complicatissimo. Ne è un esempio il difficile e complicato rapporto tra Stati Uniti e Iran. Il regime degli Ayatollah è impegnato in un confronto-scontro su più fronti con gli Stati Uniti, che lo vede ora stare dalla parte degli Stati Uiniti, ora acerrimo nemico. Da una parte minaccia di distruzione Israele, costruisce l’atomica, arma e finanzia Hezbollah e Hamas; dall’altra, in Irak è ben contento della cacciata di Saddam e di veder al potere i suoi amici sciti, fatto fino a pochi anni fa inconcepibile. Ma gli iraniani furono anche ben contenti di vedere cacciati i Talebani, loro acerrimi nemici e così adesso la loro maggiore paura è che una eventuale ridimensionamento occidentale riporti al potere quel regime acerrimo nemico degli sciti e di quella minoranza nel paese; non solo: anche il confinante Pakistan nel caos, terra del fondamentalismo sunnita salafista e dotato di atomica, non è certo uno scenario allettante.
Quello che da lontanissimo sembra chiaro è che le differenti crisi ormai sono interconnesse, che una soluzione non potrà esservi se non sul piano regionale, che per ogni questione è necessario coinvolgere il maggior numero di partner e che anche l’unica e solitaria superpotenza da sola non può farcela ad affrontare in modo coerente e vittorioso più conflitti allo stesso tempo. Forse una soluzione sta nel porsi obiettivi più raggiungibili, vedendo nella garanzia di stabilità e sicurezza anche i suoi vantaggi, differenziando il piano di lungo periodo da quello di medio e breve e mischiando politiche di intervento con quelle di contenimento.
Le ricette non sono facili, ma anche Bush era più realista della sua retorica".

sabato 18 aprile 2009

Bollettino di fatti internazionali n° 1, 18 aprile 2009

  • Le nuove sfide alla sicurezza
    Le nuove guerre si caratterizzano per una serie di fattori: dalla natura dei combattenti, ai modi di fare la guerra, dal contesto internazionale segnato dagli effetti e dai contraccolpi della globalizzazione. In questo articolo su Policy Review da titolo emblematico “The Power of Statelessness” , l’autore dipinge la comparsa di attori che sfidano l’ordine internazionale alla ricerca, non della conquista dello stato o alla creazione di uno nuovo, ma alla ricerca dell’esercizio del potere senza responsabilità di governo. La tesi è affascinante e provocatoria: lo stato moderno è nato per assicurare una migliore difesa di un determinato territorio, da qui il monopolio della forza. Se oggi le maggiori sfide arrivano da attori non statali, le comunità locali – si veda i gruppi di autodifesa sunniti e sciti contro Al Qaida in Iraq - si devono organizzare orizzozontalmente. Quattro sono i motivi individuati per questo trend:
    1. “lo stato non è più l’unico modo di organizzare a di gestire grandi gruppi …a causa dell’avvento di nuove tecnologie che rendono coesi individui e gruppi tra loro distanti”.
    2. “La proliferazione di armi dal doppio uso sfida il monopolio della violenza statale”.
    3. “La realtà di grandi potenze, e specialmente degli Stati Uniti, con capacità di distruzione totale incomparabili, serve come incentivo a tenere da parte di questi gruppi un basso profilo per non finire nel mirino”.
    4. “Molti di questi gruppi hanno idee radicali con elementi religiosi e estremistici che fanno sì che siano meno intressati al potere terreno compromissorio per sua natura con la realtà”.
    L’articolo cita una serie di fonti ormai classiche su cui basarsi per descrivere i nuovi fenomeni di collegamento al di fuori del controllo degli stati, primo fra tutti, quello delle reti. John Arquilla e David Ronfeldt, The Advent of Netwar (rand, mr-789-osd, 1996); John Arquilla and David Ronfeldt, eds., Networks and Netwars: The Future of Terror, Crime, and Militancy (rand, mr-1382-osd, 2001). Sulle nuove tecnologie ed il loro impatto sull’ “american way of war” il celebre articolo di Arthur K. Cebrowski e John J. Garstka, “Network-Centric Warfare: Its Origin and Future,” Proceedings (January 1998); Thomas Rid, “War 2.0,” Policy Review (Web Special, February 2007).
    Notevole l’idea l’utilizzo di internet per la creazione di un sistema di mobilitazione che prende il posto della rivoluzionaria. Si veda Audrey Kurth Cronin, “Cyber-Mobilization: The New Levée en Masse,” Parameters (Summer 2006); Timothy L. Thomas, “Cyber Mobilization: A Growing Counterinsurgency Campaign,” IOSphere (Summer 2006) e Madeleine Gruen, “Online social networks expand a sense of community among members and supporters of extremists groups” (June 9, 2008).
  • Afghanistan
    Articolo su Timesonline sulla ricerca di pace da parte dei Talebani moderati spiegato ai giornalisti in un incontro organizzato con i leader locali. Idea suggestiva: sotto l’etichetta “talebano” si muovono infatti una miriade di gruppi, per semplificare possiamo dire che appartengono grosso modo a tre categorie: i talebani veri e propri che si suddividono in due categorie stranieri e appartenenti alle comunità locali, quelli combattenti a tempo pieno e quelli part time, le tribù locali in rivolta contro la presenza di stranieri. Compito di una vera campagna di guerra non ottusa è di allontanare i guerriglieri “accidentali”, per riprendere un’ espressione di David Kilcullen che da il titolo al suo ultimo libro “The Accidental Guerrilla” (lunga recensione del sottoscritto sull’Occidentale). L’articolo riporta alcuni dati interessanti: 4500 diserzioni tra i talebani tra il 2005 e l’anno scorso; il 95% vuole la riconciliazione se viene loro assicurata una protezione adeguata; su 7000-11000 combattenti veri e propri, il nucleo d’acciaio è formato da non più del 5% mentre il 25% è stimato come incerto e il 70% afferma di combattere solo in cambio di soldi; la paga giornaliera è di 8 $ al giorno!
    La soluzine al conflitto sembra essere quella di creare un’opportunità di vita alla popolazione civile martoriata da decenni di guerra.
  • Israele
    Eccellente analisi di un ex ufficiale israeliano sull’ultima guerra a Gaza ispirato al più crudo realismo e pessimista riguardo ad una prossima pace tra Israele e palestinesi. Nel saggio si spiega la differenza con la guerra del 2006 in Libano contro hezbollah. Questo ultimo caso è diventato paradigmatico per capire i nuovi tipi di conflitto, le nuove guerre ibride dove un attore dalla natura incerta, irregolare ma anche a mezzo servizio di potenze straniere come utilizzi contemporaneamente tutti i mezzi a disposizione, leciti e illeciti, moderni e tradizionali, pur di neutralizzare la forza dell’avversario. L’articolo termina con una nota amara, priva di ogni speranza di pace con un’idea di “guerra senza fine”. “Non vi è nessuna cosa simile alla pace in questo nuovo tipo di guerra. La guerra è sempre in divenire con periodi di più violenza e altri di meno violenza, durante i quali il nemico si riorganizzerà e pianificherà nuovi attacchi. Quando percepiremo che il nemico sta diventando troppo forte, noi dovremo essere preparati per compiere attacchi preventivi, duri e veloci, colpendo gli biettivi chiave, con brutalità, come il nemico farebbe con noi. Solo allora potremmo raggiungere non la pace, ma periodi abbastanza lunghi di relativa calma” Per un approfondimento e su quale dovrebbe essee la posizione degli USA verso Israele, si veda la discussione su Foreign policy .
  • Iraq
    Rasfahani BAGHDAD / Aswat al-Iraq: Iran’s Expediency Council Chairman Ayatollah Ali Akbar Hashimi Rafsanjani said that reconstructing Iraq is a necessary and urgent thing, noting the expand of cooperation between Iran and Iraq after the topple of the former regime.This came during his meeting with Kurdistan Region delegation headed by Kurdistan Region Vice President Kosrat Rasul Ali on Tuesday (April 14), according to Mehr news agency.sostiene che per intessere relazioni di buon vicinato, è necessario avviare la ricostruzione dell’Iraq.
    Commento sulle elezioni provinciali in Iraq.
  • Iran
    Michael Rubin, membro dell’American Enteprise Institute ed esperto di sicurezza e di Medio Oriente, commenta la politica di apertura di Obama verso l’Iran, giudicandola “un miraggio”.
  • USA
    Con Obama i liberal amano la guerra!
    Anch’ora sull politica estera del nuovo presidente.
  • Pirati
    Mac Owens sul Wall Street Journal sostine, giustamente, che Obama per lo meno nella sua retorica ndr., non tiene conto della fine della differenza tra combattenti legali e illegali di questo nuovo mondo post 11 settembre.
    John Keegan pensa che con i pirati non si debba negoziare ma piuttosto”Devono essere colpiti e affondati questo è il momento di farlo”.


"Israele, Hezbollah e Hamas: nuove strategie"

Articolo comparso sabato 18 aprile su L'Occidentale

Il 9 agosto 2006, Molly Moore, sul Washington Post, affermava: “(La seconda guerre Libanese, ndr.) sarà studiata in tutte le accademie militari del mondo come un nuovo tipo di guerra che richiede nuove e senza precedenti definizioni di come combattere e come vincere”.
Il conflitto tra Israele e le milizie paramilitari degli Hezbollah era cominciato il 12 luglio 2006 e doveva durare fino al 14 agosto, quando alle Nazioni Unite fu raggiunto un accordo per il cessate il fuoco.
Dopo trentatre giorni di duri combattimenti, costati ai militanti islamici un numero di uomini caduti tra i 500 e gli 800, e causato la morte di circa mille civili e 120 soldati ad Israele, Olmert e Peres avevano raggiunto un risultato insoddisfacente. Ogni loro aspettativa era andata delusa e gli obiettivi che si erano prefissi quando era iniziata l’offensiva - in risposta all’assalto ad una pattuglia israeliana che aveva provocato la morte di tre soldati, il ferimento di due e il rapimento di altri due militari – non erano stati raggiunti. Dei cinque dichiarati - distruggere il comando iraniano occidentale, restaurare la credibilità israeliana dopo il ritiro dal Libano del 2000, forzare il Libano a diventare uno stato responsabile capace di impedire le azioni di guerriglia che partivano dal suo territorio, indebolire fortemente il movimento Hezbollah e riportare i soldati sequestrati a casa – era stato raggiunto solamente, e in parte, l’azione di ridimensionamento delle milizie comandate da Nasrallah. Non certo però era stato incrinato il rapporto di questa organizzazione con la popolazione, anzi. Impegnandosi a fondo attraverso la distribuzione diretta di fondi, aiuti logistici e tecnici per la ricostruzione delle abitazioni distrutte dalle forze armate nemiche, si può tranquillamente affermare che Hezbollah è uscita più forte e radicata di prima del breve conflitto: agli occhi della popolazione del sud del Libano e di Beirut erano loro, come al solito, gli eroi in grado di resistere all’incomparabile forza dell’esercito israeliano colpevole di distruzioni senza senso.
Israele infatti aveva deciso un’escalation “opzionale” secondo le parole dello studioso di strategia Anthony H. Cordesman autore, con George Sullivan e William D. Sullivan, dell’importante libro “Lessons of the 2006 Israeli-Hezbollah War”. Il fatto è che nelle guerre non necessarie, cioè intraprese dagli stati non per difendere la propria esistenza, per garantire la sopravvivenza, non basta a dichiarare la vittoria: esse si giustificano solo dal successo, dal raggiungimento degli obiettivi a differenza delle guerre ingaggiate per legittima difesa e quindi necessarie. Al contrario, per Hezbollah la sola resistenza era sinonimo di vittoria come aveva ben capito Nasrallah quando in quei giorni affermò: “La vittoria di cui stiamo parlando è quando la resistenza continua”.
E’ una lezione amara che risiede nella storia delle guerre di questo tipo. Sono innumerevoli gli insegnamenti, ma in questo caso sembrano importanti per lo meno quattro punti. Il primo è stato detto ed ha al centro la differenza di significato della vittoria, la seconda è che il successo sul campo da parte dello stato invasore deve essere trasformato in vittoria strategica e quindi, per raggiungere questo risultato, la dimensione militare è insufficiente. L’ultimo punto ha mostrato che la fiducia nell’impiego della tecnologia, utilizzata per affrontare nemici convenzionali, può essere mal riposta nelle guerre asimmetriche, e condurre a cocenti delusioni sul piano politico in grado di annullare qualsiasi vantaggio militare.
La storia del conflitto è abbastanza semplice. Il leader di Hezbollah fin da subito aveva dichiarato che nessuna azione di guerra sarebbe servita a liberare i soldati rapiti perché la chiave della loro detenzione stava nel rilascio di quattro miliziani detenuti in prigioni israeliane. Ma Israele, sottoposta ad un lancio continuo di missili provenienti dal Libano meridionale, aveva optato, comprensibilmente, per una risposta dura che eliminasse in modo definitivo quella continua minaccia. Così era stata intrapresa un’escalation nell’intervento. Innanzitutto cercò di bloccare il lancio dei missili, poi bombardò l’aeroporto di Beirut, il 13 luglio seguì il blocco dei porti libanesi, il 14 luglio ecco il bombardamento dello stato maggiore Hezbollah, il 27 luglio vennero richiamate 30 mila riserve, il 1 agosto arrivò il turno degli attacchi con elicotteri 125 km all’interno del territorio libanese, nella valle della Bekaa, a cui Hezbloah rispose con il lancio di 200 missili, l’11 agosto si assistè al tentativo di ricacciare le milizie scite dietro il fiume Litani. A questo punto, dietro pressione internazionale per arrivare al cessate il fuoco, il 13 agosto fu raggiunta la tregua, poco dopo che era stato dato l’ordine di attacco a terra. Alla fine l’aviazione israeliana aveva compiuto 15.500 sortite, attaccando 7.000 obiettivi e l’esercito impiegato 100.000 carri e 30 mila soldati. Hezbollah, invece, lanciato qualcosa come quasi 4.000 missili nel territorio israeliano, dimostrando, per tutta la guerra, una capacità di colpire il nemico. Hezbollah era stata quindi capace di tenere testa ad uno dei migliori eserciti del mondo.
Lo scandalo all’interno di Israele, già durante la guerra, fu enorme e venne istituita una commissione di inchiesta affidata al giudice Winograd, da cui il nome della stessa, che accusò di insipienza politico militare sia la leadership politica che i vertici dell’esercito.
Prima di arrivare a esporre i limiti e gli errori, è bene sottolineare alcune peculiarità strutturali e costanti che riposano nella storia e geografia del paese che aiutano a comprendere meglio la condotta strategica. In primo luogo, Israele non può difendersi in profondità all’interno del proprio territorio a causa delle stesse dimensioni, quindi è ossessionato dalla difesa dei propri confini che può avvenire solo combattendo oltre gli stessi; in secondo luogo, a causa sia della sua storia sia del numero di abitanti, è estremamente sensibile alle perdite; infine, sempre per gli stessi motivi e per la tipologia peculiare del conflitto, Israele non può intraprendere azioni di “clear, hold and build”, perché queste richiedono l’impiego di troppo tempo, troppi uomini; queste operazioni, inoltre, hanno comunque sempre esposto lo stato israeliano a rappresaglie isostenibili, dimostrandone la vulnerabilità: a riprova di quanto appena detto, la guerra del Libano del 1980. Questi elementi restringono le possibilità d’azione di Gerusalemme che deve trovare una difficile e intelligente soluzione per bloccare un nemico sfuggente, ideologicamente motivato e, adesso, dotato anche di armi moderne, senza scadere nella impossibile barbarie.
La tentazione in questi casi è di trovare una scorciatoia, magari affidandosi alla tecnologia, errore in cui sono caduti spesso anche gli americani. Le debolezze maggiori riscontrate dai critici, infatti, furono le seguenti. Israele sperava di assestare un colpo chirurgico affidandosi all’aviazione, arma in cui detiene il dominio incontrastato, che in questo caso si rivelò inefficace e, una volta che i risultati cominciarono a mancare, anche gli obiettivi della stessa guerra diventarono più confusi. Il capo di Stato maggiore, il generale dell’aviazione Dan Halutz, non aveva ben capito la necessità di intraprendere una fase di operazioni terrestri fin dall’inizio con l’impiego della fanteria per ripulire la zona di confine dai gruppi di miliziani; quindi aveva sovrastimato le capacità dell’aviazione in una guerra asimmetrica. Ma i bombardamenti di Beirut erano stati un fallimento da un punto di vista politico mancando l’obiettivo di indurre il governo libanese, se non a disarmare Hezbollah, per lo meno a indurlo a prendere le distanze dal movimento scita, rivelando, di nuovo, nella dirigenza israeliana una scarsa comprensione della situazione libanese, dei rapporti complessi che intercorrono tra le forze politiche, le differenti confessioni e la Siria e l’Iran, in un intreccio confuso e non lineare. Anche l’intelligence israeliana era risultata al di sotto delle aspettative. Perché non era a conoscenza dei tipi di arma degli Hezbollah, delle sua capacità di combattimento, della sua organizzazione? Perché non aveva visto o aveva sottovalutato i trasferimenti di armi, il numero dei combattenti libanesi compresi quelli part time e il livello di addestramento?
La responsabilità più grande, però, è da imputare alla leadership del governo israeliano che mancò di preparazione militare, di non conoscenza del nemico e rivelò scarsa flessibilità e prontezza nell’adeguare le risposte alla realtà imprevista.
Anche questo conflitto ha dimostrato che la deterrenza è un fatto di percezioni che si basano in modo parziale sulla realtà e non sono date una volta per tutte, perchè evolvono con il tempo e le circostanze. E’ vero che Israele, anche se non ha vinto, ha dimostrato una forza di distruzione notevole, ma la speranza che essa potesse funzionare da deterrente contro il governo e la popolazione libanese si è rivelata falsa. Anzi, ha reso i libanesi ostili a Gerusalemme, come nota sempre Cordesman; infatti, l’uso della forza può essere percepito come eccessivo e ottenere l’effetto contrario da quello sperato, e fare innalzare la rabbia invece che la paura, finendo per funzionare da incentivo al reclutamento di nuovi volontari in sostituzione di quelli caduti. A chi hanno dato la colpa i libanesi dei danni subiti (1110 civili morti, 3700 feriti, 980.000 sfollati al massimo livello della guerra, da 2 a 6 miliardi di dollari di danni e 150.000 case distrutte)? Secondo l’indagine di un giornale francese riportato dall’analista americano, l’87 % della popolazione supportava i seguaci di Nasrallah contro Israele compresi i cattolici maroniti, anche se non erano d’accordo con la loro politica, né con il fatto che siano una milizia di parte armata.
Rimane la constatazione che è difficile capire come usare la deterrenza non contro stati, ma rivolta contro attori guidati da una ideologia fanatica ed estremista dove il realismo trova poco spazio. Quello che è certo è il fatto che l’uso della forza da sola non basta ad avere il sopravvento del nemico specialmente nelle nuove guerre ibride dove tutte le tattiche e tutte le armi sono impiegate simultaneamente. Né è sufficiente accusarlo di terrorismo e di non rispetto delle leggi di guerra, perché non porta uniformi, si nasconde tra la popolazione civile e, peggio, si fa scudo di donne e bambini. Se uno stato occidentale vuole avere credibilità su questo piano, deve riuscire ad agire di conseguenza, evitando di colpire i civili, dimostrando di farlo e smontando in tempo reale le falsità della propaganda avversaria. Queste infatti sono guerre politiche, dove la comunicazione, l’informazione, la propaganda sono uno strumento fondamentale per conquistare, o inimicarsi, un terzo attore potente, l’opinione pubblica internazionale, in grado di spostare il peso della bilancia. La soluzione risiede nella capacità di dare una risposta proporzionata e allo stesso tempo efficace. E’ un tema delicato e Israele deve stare attento. Se la comunità internazionale percepisce la sproporzione, come avvenne nel caso del Vietnam, è la fine. Israele deve evitare di cadere nella trappola di infrangere leggi internazionali o di interpretarle in modo ristretto, perché in questo modo non riesce ad impedire che il nemico privi loro delle capacità di combattere, togliendo la superiorità militare e l’iniziativa.
Nell’ultima guerra a Gaza, Israele ha imparato la lezione, disegnando una curva di apprendimento sorprendentemente breve. Hamas, a differenza dei cugini libanesi, è sempre stata percepita da Israele come una minaccia reale a causa del lancio continuo di missili su Sderot; questo ha fatto sì che il movimento palestinese fosse sempre monitorato con attenzione dai servizi e dalle forze speciali. Ma il dato più rilevante è stata la condotta di guerra; questa volta l’obiettivo era estremamente limitato e definito riassumibile nel voler ridurre le capacità di Hamas nell’infliggere danni ad Israele; fin dall’inizio inoltre, a differenza che in Libano, è stato previsto l’utilizzo di truppe di terra addestrate a combattere in ambiente urbano. Quindi un mix di intelligence, addestramento adeguato e strategie opportune ha reso possibile il risultato ottenuto: una tregua guerreggiata. Ancora non è la pace, ma in questo momento forse è il massimo a cui si può aspirare.

lunedì 6 aprile 2009

"N.B su Kilcullen"

Sono stato a sciare in Val d'Aosta, bella neve, nuvole basse e non c'era nessuno sulle piste! Così non ho aggiornato il blog. Ci sono due nuovi articoli che in reltà sono due versioni, una lunga su l'Occidentale, l'altra molto riassunta sul Domenicale, sul nuovo libro del consigliere australiano del generale Petraeus. E' un bel testo per capire che cosa è Al Qaeda, chi sono i Talebani, insomma tutto il mondo del nuovo terrorismo islamista (non voglio usare l'espressione islamico che considero neutrale) e come si combattono. Il paradosso è che Kilcullen era contarrio alla guerra in Iraq.
Purtroppo è in inglese, comunque spero di averne dato un riassunto fedele, anche perchè ho la sensazione che ancora in Italia pochi l'abbiano letto.

"Le tesi di David Kilcullen sul nuovo terrorismo"




Recensione a David Kilcullen, “The Accidental Guerrilla. Fighting Small Wars in the Midst of a Big One”, Oxford University press, New York 2009, 27,95$)

Per chiunque sia interessato a capire qualcosa sulla guerra in Iraq e Afghanistan, su AL Qaida e le nuove guerre, questo è il libro da leggere e studiare. E’ un testo composito che spazia dall’antropologia alla scienza militare, dalla politica internazionale alla sociologia, ma che, soprattutto, si basa sull’esperienza ventennale dell’autore in guerre asimmetriche essendo stato testimone di un numero incredibile di guerriglie, insorgenze e quant’altro, passando da Cipro, all’Indonesia a Timor, dall’ Afghanistan all’ Iraq. David Kilcullen è un ufficiale che ha studiato a fondo i testi del capitano francese David Galula sulla guerra di liberazione algerina, del colonnello Robert Thompson a proposito della lotta combattuta vittoriosamente dagli inglesi contro la rivolta comunista in Indonesia. E assomma un ‘altro vantaggio, altrettanto importante, non è americano, ma proviene da una scuola militare di influenza inglese, quella australiana, che basa la propria dottrina sulla flessibilità, è abituata a ricorrere a risorse infinitamente inferiori a quelle dell’esercito statunitense e vede nel pragmatismo la chiave di volta per risolvere le contro insorgenze. Curriculum che lo ha portato ad essere scelto come consigliere in capo dal generale Petraeus, ai tempi del comando delle truppe in Iraq all’epoca della surge, e dal Dipartimento di Stato.
Per risultare vincenti nelle guerre asimmetriche, Kilcullen propone un modello composto, prima di tutto, da un’analisi dell’ambiente, cioè del mondo contemporaneo; in secondo luogo, del nemico, che per ora definiremo genericamente “terrorismo islamico”; in ultimo, nella definizione dei mezzi specifici per confrontarsi con la sfida. Quattro sono gli elementi che compongono l’ambiente delle nuove guerre. (a) La reazione violenta alla globalizzazione, contraddistinta dalla circolazione mondiale di merci, informazioni e persone, che provoca fenomeni contrastanti, dal divario di ricchezza alla disponibilità per chiunque dei nuovi mezzi da essa creata. (b) Un insorgenza dalle caratteristiche globali come quella di Al Qaida i cui obiettivi e il campo d’azione sono da ricercarsi nel mondo intero. (c) Una guerra civile tra mondo islamico estremista e occidente, secondo la tesi rivista di Huntingon; (d) in ultimo, il modello di guerra asimmetrica che vede lo scontro tra la forza di attori statali, che agiscono secondo le regole internazionali, e attori non statali che si muovono con la regola di non rispettare senza nessuna regola.
Ci troviamo davanti ad una guerra di lunga durata, epocale, come la guerra dei Trent’anni o la Guerra fredda - afferma Kilcullen. Con Philip Bobbit, in “The Shield of Achille”, possiamo aggiungere che ogni conflitto di questo tipo, comporta uno scontro tra schieramenti opposti per affermare la propria legittimità e il “secolo breve” ne è una riprova. In questo caso, a sfidare la democrazia occidentale, non sono più due modelli totalitari nati in seno alla tradizione europea, ma la ricerca di imposizione del “nuovo califfato”.
Che tipo di guerra è? “Guerra di guerriglia nella sua variante mussulmana” che si compone, secondo gli strateghi americani, di due differenti componenti. La “big war”, “grande guerra” per indicare la guerra al terrorismo o “War on Terrorism”, e le“small wars”, “piccole guerre”. Termine di origine coloniale introdotto dal colonnello inglese C.E. Callwell che, nel libro omonimo del 1899, le definì come "campagne intraprese per sopprimere ribellioni e guerriglie…dove eserciti organizzati lottano contro nemici che si scontrano con loro non in campo aperto”. Recentemente questi conflitti sono stati definiti in molti altri termini dalla letteratura militare anglosassone: "non- traditional missions," "low-intensity conflict," o "military operations other than war", ma prima della seconda guerra mondiale erano state chiamati da Kipling con la suggestiva e veritiera espressione "the savage wars of peace" (da qui il titolo di un celebre libro di Max Boot del 2003). Oggigiorno si preferisce usare l’espressione “guerre asimmetriche”, introdotta per la prima volta dallo studioso Andrew Mack in un articolo del 1975 dal titolo inquietante: “Perché le grandi nazioni perdono le small wars: le politiche dei conflitti asimmetrici”. In questo caso il riferimento evidente era alla guerra del Vietnam, ma prima c’era stata tutta la disastrosa esperienza francese in Indovina e in Algeria, quella degli Inglesi a Cipro e così via, per tutta la fine degli imperi.
Se cerchiamo una periodizzazione, oggi siamo alla terza generazione di questo tipo di guerre: in una prima fase sono venute le guerre coloniali; dalla seconda guerra mondiale agli anni ottanta sono seguite le guerre post coloniali o di “liberazione nazionale” ed oggi l’occidente si trova a combattere questo nuovo fenomeno in evidenza dall’11 settembre 2001. Fenomeno complesso, composto da elementi diversi, terrorismo, insorgenze, guerriglia, con radici religiose, tribali, etniche e combattuto in modo particolare in un’area che va dal Medio Oriente, passa per il Caucaso fino ad arrivare a Giava, all’Indonesia, alle Filippine.
Fenomeno difficile da far rientrare sotto l’etichetta di “lotta al terrorismo”. Per due motivi: Al Qaida è solo una parte dei problemi che affliggono quell’area e inoltre essa non usa soltanto il terrorismo come arma, cioè l’uccisione sistematica di civili innocenti. Questo è un punto centrale, poco sottolineato, ma il terrorismo, nella sua bestialità, è un mezzo militare come un altro per colpire il nemico. Ma l’uso di esso ha un alto valore simbolico, crea panico, costringe i governi a decisioni immediate, restringe il campo delle scelte, in una parola acceca lo nazione colpita.
Quindi l’etichetta “terrorismo”, che viene utilizzata per coprire il vasto mondo di sigle che attraversa il mondo islamico da Hamas agli Hezbollah ai Talebani ad Al Qaida, è troppo stretta e imprecisa. L’utilizzo di un solo termine comporta poi una conseguenza drammatica sul piano strategico: moltiplica i nemici, regala allo sfidante centrale, Bin Laden, attori che in realtà sono qualche cosa d’altro dai terroristi internazionali con il risultato, per la potenza sfidata, di combattere guerre diverse con gli stessi metodi e di trovarsi coinvolti in più conflitti allo stesso tempo.
Kilcullen opera di precisione e inizia a compiere una serie di differenziazioni a partire da quella centrale tra fondamentalismo religioso islamico, che ha tutto il diritto di manifestarsi, e Al Qaida che definisce organizzazione formata “terroristi takfiri” cioè apostati, secondo la definizione datane nel Messaggio di Amman dai 500 ulema riuniti dal Re di Giordania nel 2005. Quindi i salafisti, ma forse anche i Fratelli Mussulmani, non possono essere considerati movimenti fiancheggiatori di Al Qaida anche se alcuni seguaci di Bin Laden provengono da quelle organizzazioni.
La seconda differenza compiuta dallo stratega australiano, è tra Al Qaida e i movimenti locali. Al Qaida è un’organizzazione terroristica globale, “una forma globale di insorgenza”, del terrorismo orientato internazionalmente. Utilizza tutti gli strumenti moderni che la globalizzazione ha reso disponibili e applica una “strategia transnazionale di guerriglia”. Ha una visione arabo-centrica; il suo fine è la ricostruzione del nuovo califfato, attraverso al conquista del potere, ove possibile, come in Afghnaistan o in Iraq, per inseguito lanciarsi alla conquista, prima dell’ummah abbattendo i regimi arabi “collaborazionisti”, e dopo passare alla conquista dell’occidente. Si considera avanguardia dell’ummah e vuole essere il primo promotore del risveglio delle coscienze mussulmane attraverso azioni esemplari come l’attentato dell’11 settembre; i suoi strumenti sono appunto la provocazione, l’intimidazione, l’infiltrazione e l’uso della disponibilità del tempo contro la fretta degli occidentali e, in special modo, degli americani. Il tempo nelle guerre asimmetriche è, infatti, un’ arma potente nelle armi dei movimenti rivoluzionari, come insegna Giap, ma la tolleranza politica degli elettori americani per guerre non percepite come necessarie è limitata. I governi americani lo hanno capito bene, a loro spese a partire dalla guerra del Vietnam, ma prima di loro lo avevano compreso i francesi in Algeria (Jeffrey Record, The Wrong War: Why We Lost in Vietnam, Annapolis, MD: Naval Institute Press, 1998) che, quando i soldati vanno alla guerra, inizia un conto alla rovescia.
Le guerre locali, le “small wars”, odierne sono opera di fondamentalisti mussulmani che si oppongono alla presenza occidentale vista come opera di potenze neo coloniali che vogliono imporre i loro valori e cultura. Spesso questo tipo di insorgenze sono concepite dai protagonisti come lotta di resistenza contro l’invasore straniero; è il caso, ad esempio, delle province pashtuni a cavallo tra Pakistan e Afghanistan dove gli occidentali compiono azioni per combattere Al Qaida ma dove si trovano anche i talebani e perciò le truppe occidentali si trovano a violare enclave autoctone e nazionaliste, o della Jema’ah Islamica in Indonesia. Questi movimenti sono ortodossi, tradizionalisti, xenofobi, tribali, magari mistici, vogliono uno stato islamico nel proprio paese, ma non hanno nessuna intenzione di lanciare una Jihad globale.
Kilcullen definisce questo tipo di guerre, “guerriglie accidentali”, perché i combattenti si oppongono agli americani, alla Nato in Afghanistan, alle Forze della Coalizione internazionale in Iraq, perché si trovano nel loro spazio, nel loro paese. I locali insomma lottano per difendere casa propria, combattono per mantenere la loro identità. “Entrambi i gruppi sono anti occidentali; entrambi usano il terrore, la sovversione, e l’insorgenza. Ma uno ha uno sguardo mondiale, sottilmente arabizzante, mentre l’altro è più locale, con una forte dose di anticolonialismo e si oppone allo sradicamento. all’impatto della modernità nella sua versione occidentalizzata, nella sua forma americanizzata” XXVII.
E’ però nell’ incubatore delle guerre locali che avviene la saldatura drammatica e innaturale tra i terroristi internazionali di Al Qaida e la resistenza locale. La globalizzazione infatti, tra i suoi effetti, ha anche quello di far aumentare le resistenze alla sua diffusione e crea un terreno fertile per i fondamentalismi antimoderni che lottano per la difesa della propria diversità. In questo contesto si innesta, quando questi movimenti per un motivo o l’altro diventano violenti, l’opera di infiltrazione dei seguaci di Bin Laden. Insomma se le potenze occidentali non stanno più che attente a come agiscono, il futuro da incubo che sembra disegnarsi è quello della diffusione di grappoli di guerriglie accidentali che raggiungono lo zenith grazie all’infiltrazione di Al Qaida.
Questi nuovi conflitti portano una differenza fondamentale da lotte della generazione passata. Mentre questi disponevano di risorse scarse, quelli attuali possono attingere a piene mani nel ricco armamentario della globalizzazione, perché agiscono nella post modernità. Se lo scontro è asimmetrico, perché oppone stati nazione contro attori non statali, quest’ultimi utilizzano anche una quantità di strumenti diversi: terrorismo e guerriglia, armi moderne e della prima guerra mondiale, strumenti tecnici post moderni e culture arcaiche, azioni deliberate nella loro offensività e gratuite e accidentali. Il consigliere americano qui utilizza il termine “guerre ibride”, entrato nella letteratura militare nel 2005 ad opera del professor Erin M. Simpson (“Thinking about Modern Conflict: Hybrid Wars, Strategy and War Aims”) e presente nel dibattito corrente dal 2006 dopo la guerra tra Israele e gli Hezbollah. Scoperta strategica tardiva: c’erano già arrivati, nel 1999, i colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui in un libro giustamente famoso “Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione” (editrice La Goriziana) che esponeva due concetti fondamentali. Gli Stati Uniti si erano costruiti da soli una trappola: davanti al predominio assoluto delle forze militari americane, l’unica strada che rimaneva aperta a qualsiasi sfidante, o a chi si sentisse minacciato, era rappresentata dall’alternativa di utilizzare “il principio di addizione”, combinando cioè tutti i mezzi disponibili, da quelli informatici, alla diplomazia, alle guerre per procura, a strumenti economici politici di propaganda, al terrorismo al fine di coinvolgere gli USA, il “sistema dei sistemi”, in una guerra prolungata ed estenuante. La soluzione insomma per lo sfidante è quella di ingaggiare la super potenza in un conflitto senza regole “dove niente è proibito”.
Per rispondere a queste nuove sfide, è necessario prima di tutto costruire un nuovo quadro concettuale che sappia tenere assieme la lotta contro il terrorismo e la ricostruzione degli stati falliti, la contro insorgenza locale e quella globale, l’anti guerriglia e le strategie politiche di integrazione dei movimenti fondamentalisti. La prima osservazione a cui giunge Kilcullen è inquietante, soprattutto perchè detta dal teorico della vittoriosa surge in Iraq: l’occidente deve stare alla larga da questo tipo di conflitti perché richiedono un impegno enorme in anni, soldi, soldati e vite umane. E questa era l’idea di Petraeus che all’inizio delo conflitto aveva chiesto ai suoi superiori: “Ditemi come finirà questa guerra” e dell’ambasciatore Crocker che aveva criticato il piano d’invasione, accusato di creare una “perfetta tempesta”. Meglio allora puntare su soluzioni indirette e soft, metodo senz’altro più redditizio e possibile di modulazioni diverse, perché le guerre si sa come iniziano e mai come finiscono e in Iraq gli americani – afferma Kilcullen- non avevano previsto né la guerra civile causata da Al Qaida, né avevano ben realizzato il significato e le conseguenze nella regione della creazione del primo stato arabo scita.
Ma una volta in mezzo al guado, come in Iraq e in Afghanistan, le guerre devono essere vinte. Da queste premesse, discende la strategia per uscire fuori dal pantano delle “piccole guerre”; a dimostrazione l’applicazione datane dal Generale Petraeus in Iraq. Il nodo centrale per non soccombere è di rendersi conto che l’occidente ha davanti a sé due tipi diversi di nemici e di sfide e deve ammettere che se il terrorismo transnazionale ha scopi aggressivi, offensivi e in ultima istanza imperialisti, le insorgenze locali hanno obiettivi difensivi. Da qui discende il primo obiettivo strategico: è necessario operare una separazione tra le organizzazioni esterne – Al Qaida in primis – e i combattenti locali per mezzo di una azione coordinata politico-militare di disaggregazione, che tagli ogni rapporto tra i due tipi di combattenti, considerando i nemici i primi e possibili alleati i secondi attraverso il farsi carico della soluzione delle esigenze della popolazione, dal bisogno di veder garantita la propria sicurezza a quella di avere servizi funzionanti (luce, acqua, scuole, smaltimento rifiuti e così via). L’esercito, insomma, non può più agire con una visione ristretta puramente militare e i suoi sforzi devono essere coordinati con le autorità politiche e civili. Piuttosto che cercare di eliminare l’avversario in una visione nemico-centrica, è necessario controllare l’ambiente, renderlo sicuro unendo tutti gli strumenti disponibili in una visione centrata sulla popolazione: peace keeping, aiuti umanitari, azioni di forze speciali e quant’altro con il fine di rinforzare il potere locale mentre si ricostruiscono le istituzioni. Lo scopo strategico che le potenze occidentali devono ricercare è controllare la violenza invece di voler raggiungere, attraverso di essa come nelle guerre tradizionale, i propri fini politici. E questo è quello che è successo in Iraq con la strategia inaugurata dal generale Petraeus a cui è arrisa la fortuna di capitare in mezzo alla rivolta sunnita dei filo baathisti nel febbraio del 2007 e della tregua lanciata dal movimento scita capeggiato da Moqtada al Sadr. Fino a quel momento in Iraq – caso perfetto di unione di una “guerriglia accidentale” con una “insorgenza globale” - erano presenti per lo meno tre tipi diversi di conflitti, senza contare i fenomeni di banditismo e la delinquenza comune: il terrorismo di Al Qaida, l’insorgenza antigovernativa anti americana dei sunniti ancora pro Saddam, e un conflitto intercomunale che comprende sia il conflitto settario tra sciti e sunniti, che quello inter etnico tra curdi, arabi e turcomanni (pag 150). A causa della guerra civile scatenata dall’attentato di Al Qaida con l’attentato alla moschea scita di Samarra nel febbraio 2006, i sunniti si erano alleati con i seguaci di Bin Laden visti come gli unici difensori sia dagli squadroni della morte sciti che dalla polizia e dal governo di Mahliki accusato di parteggiare spudoratamente per questi ultimi. Ma Al Qaida, inseguendo la sua azione di infiltrazione nelle società locali perseguita con metodi violenti che ricadevano più che in una tattica militare in comportamenti patologici, si scontrò alla fine con le ben radicate tradizioni tribali. La scintilla, che fece scoppiare la già montante rabbia contro i combattenti stranieri, va infatti ricercata nella costrizione a dare in sposa agli alqaidisti le donne irachene, fatto che rappresentava una violazione appunto dei costumi tribali. A seguito del rifiuto delle tribù locali, Al Qaida, dimostrando una stupidità senza pari, reagì violentemente, in modo crudele e sadico, cercando di intimidire i locali, uccidendo capitribù e i loro parenti. E qui arriva l’intelligenza e l’esperienza dei nuovi strateghi americani,- Petraeus, Odierno, il colonnello Nagel (autore del celebre libro “Learning to Eat Soup with a Knife”), l’ambasciatore Crocker, ed il nostro - che appoggiarono i sunniti fornendo loro ogni supporto. In primo luogo, inviando nuove truppe per proteggere Baghdad e di seguito con una serie di misure diverse: facendo uscire i soldati dalle caserme, garantendo la sicurezza ai cittadini, conquistando la fiducia dei capi tribù, aiutando all’organizzazione e al finanziamento le milizie di autodifesa – “il movimento del risveglio”-, rafforzando il governo centrale, addestrando il nuovo esercito e le forze di polizia irachene. Il punto di non ritorno è rappresentato dalla alleanza con gli “insorgenti accidentali” sunniti e sciti e dall’aver garantito dal basso la sicurezza dello svolgimento della vita quotidiana degli iracheni, da cui è conseguito il crollo verticale del numero delle vittime. Ancora una volta si è dimostrata vera la definizione standard di contro insorgenza come “l’utilizzo di tutte le misure che un governo e i suoi alleati ritengono opportuno utilizzare” (183). Ma soprattutto questa terribile esperienza ha rafforzato la convinzione che nelle guerre asimmetriche la politica è sempre presente e deve guidare ogni azione.
Oggi l’Iraq è impegnato in un processo di “riconciliazione nazionale” ancora fragile e instabile, ma dal “paese più pericoloso del mondo”, definizione del 2006, è passato ad essere una situazione in via di stabilizzazione anche se nessuno è in grado di dire quale saranno gli svolgimenti futuri. “La surge ha funzionato: ma nell’analisi finale è stato uno sforzo per salvare noi stessi dalle più disperate conseguenze di una situazione in cui noi mai avremmo dovuto trovarci” (185).
Per tutto il libro, l’ufficiale australiano non fa altro che ripetere una serie di raccomandazioni per le potenze occidentali: le guerre ibride richiedono un dispendio di risorse enorme, sono di lunga durata e hanno un esito incerto, meglio un impegno indiretto; la sfida che proviene dal mondo mussulmano è composta da diversi attori con differenti strategie, è una sorta di piramide con al vertice al Qaida, nel mezzo la resistenza locale, alla base i movimenti tradizionalisti: le nazioni occidentali, per rispondere ad esse, non possono utilizzare un’unica soluzione, affidandosi all’opzione militare e alla tecnologia, cedendo alla propria hubris. Una volta intervenute in un conflitto, devono sapere che la soluzione non sarà semplice e che richiederà flessibilità strategica e intellettuale; che la curva di apprendimento è comunque lenta, ma, soprattutto, sanno che il primo obiettivo è rappresentato dalla ricerca e conquista della fiducia della popolazione locale.
Adesso che gli americani hanno fatto propri gli insegnamenti di David Kilcullen, del generale Petraeus e del colonnello Nagl - che hanno partecipato alla stesura degli ultimi due ultimi libri di testo per l’esercito degli Stati UNiti, The Counterinsurgency Field Manual” e “Small-Unit Leaders’ Guide to Counterinsurgency” – speriamo che non si ripeti più un “caso” Iraq .

"Sulla dottrina Petraes, contro Al Qaeda"

Articolo pubblicato sul Domenicale il 28 marzo 2009

Fino a tre anni fa, gli Stati Uniti hanno corso il rischio di rivivere in Iraq l’incubo del Vietnam. Poi nel 2007 tutto è cambiato. Il successo strategico si chiama “surge” e gli artefici portano ormai nomi conosciuti dal grande pubblico, primo tra tutti il generale Petraus, ma il teorico delle nuove e vincenti strategie di contro insorgenza è senz’altro l’ufficiale David Kilcullen che può vantare un curriculum di studi universitari in antropologia e una esperienza ventennale in guerre asimmetriche, guerriglie e quant’altro, passando da Cipro, all’Indonesia a Timor, dall’Iraq all’Afghanistan. Vantaggi a cui se ne aggiunge un altro, enorme, di non essere americano ma australiano e di poter utilizzare perciò una prospettiva interna e, allo stesso tempo, esterna ai conflitti dove gli americani sono coinvolti. Tutti fatti che lo hanno portato ad essere scelto come advisor del Consigliere alla Sicurezza Condoleeza Rice e, in seguito, consigliere in capo del generale Petraeus.
Nel suo primo libro, (“The Accidental Guerrilla. Fighting Small Wars in the Midst of a Big One”, Oxford University Press, New York 2009, 27,95$) Kilcullen offre una illustrazione completa delle sue idee strategiche a proposito della nuova stagione di conflitti portati alla ribalta, e innovati, da Al Qaida. “Guerra di guerriglia nella sua variante mussulmana”; fenomeno complesso, composto da elementi diversi, terrorismo, insorgenze, guerriglia, con radici religiose, tribali, etniche e combattuto in mezzo mondo. Realtà diverse che rientrano male entro l’etichetta di “lotta al terrorismo”. L’utilizzo di un solo termine comporta per gli Stati Uniti, secondo Kilcullen, una conseguenza drammatica sul piano strategico: moltiplica i nemici e regala allo sfidante centrale, Bin Laden, attori che in realtà sono altro dai terroristi internazionali con il risultato di combattere guerre diverse sempre con gli stessi metodi.
Il teorico australiano opera con il cesello e inizia a compiere una serie di differenziazioni a partire da quella centrale tra “fondamentalismo religioso islamico”, che ha tutto il diritto a manifestarsi, e Al Qaida composta da “terroristi takfiri” cioè apostati. La seconda distinzione è quella tra i movimenti armati locali e i seguaci di Bin Laden. Questi appartengono ad un’organizzazione terroristica, “una forma globale di insorgenza” che si considera avanguardia dell’ummah, utilizza tutti gli strumenti moderni che la globalizzazione ha reso disponibili e applica una “strategia transnazionale di guerriglia”. Al Qaida ha una visione arabo-centrica; il suo fine è la ricostruzione del nuovo califfato e vuole essere il primo promotore del risveglio delle coscienze mussulmane attraverso azioni esemplari, si veda l’11 settembre.
Le insorgenze locali, al contrario, sono concepite dai protagonisti come lotta di resistenza contro l’invasore straniero. Questi movimenti sono autoctoni, ortodossi, tradizionalisti, xenofobi, tribali, magari mistici, vogliono uno stato islamico nel proprio paese, ma a differenza di Bin Laden, non hanno nessuna intenzione di lanciare una Jihad globale. Kilcullen definisce questo tipo di guerre, “guerriglie accidentali”, perché i combattenti si oppongono agli americani, alla Nato in Afghanistan, alle Forze della Coalizione internazionale in Iraq, perché si trovano nel loro spazio, nel loro paese. “Entrambi i gruppi sono anti occidentali; entrambi usano il terrore, la sovversione, e l’insorgenza. Ma uno ha uno sguardo mondiale, …arabizzante, mentre l’altro è più locale, con una forte dose di anticolonialismo e si oppone allo sradicamento, all’impatto della modernità nella sua versione occidentalizzata, nella sua forma americanizzata”. E’ però nell’ incubatore delle guerre locali che avviene la saldatura drammatica e innaturale tra i terroristi internazionali di Al Qaida e la resistenza locale.
Per rispondere a queste nuove sfide, è necessario prima di tutto costruire un nuovo quadro concettuale che sappia tenere assieme la lotta contro il terrorismo e la ricostruzione degli stati falliti, la contro insorgenza locale e quella globale, l’anti guerriglia e le strategie politiche di integrazione dei movimenti fondamentalisti anche perché si sta assistendo ad un nuovo tipo di guerra. “Guerra ibrida”, la definisce il nostro, che punta all’esaurimento del nemico attraverso il protrarsi del conflitto e utilizzando una quantità di strumenti diversi: il terrorismo, la guerriglia, armi moderne e della prima guerra mondiale, strumenti tecnici post moderni e culture arcaiche, azioni deliberate nella loro offensività e altre gratuite e accidentali.
La prima osservazione a cui giunge Kilcullen è inquietante, detta proprio dal teorico della vittoriosa surge in Iraq: l’occidente deve stare alla larga da questo tipo di conflitti perché richiedono un impegno enorme in anni, soldi, vite umane e hanno un esito incerto. Meglio puntare su soluzioni indirette e soft, perché le guerre si sa come iniziano e mai come finiscono; in Iraq gli americani non avevano previsto né la guerra civile causata da Al Qaida, né avevano ben realizzato il significato, e le conseguenze nella regione, della creazione del primo stato arabo scita.
Una volta in mezzo al guado, le guerre devono essere comunque vinte. Da queste premesse, discende la strategia per uscire fuori vi dal caos vincenti; a dimostrazione, l’applicazione datane dal Generale Petraeus in Iraq. Il nodo centrale è rappresentato dal rendersi conto che l’occidente ha davanti a sé due tipi diversi di nemici e deve ammettere che, se il terrorismo transnazionale ha scopi aggressivi, offensivi e imperialisti, le insorgenze locali hanno fini difensivi. Il primo obiettivo strategico da raggiungere è operare quindi una separazione tra le organizzazioni esterne – Al Qaida in primis – e i combattenti locali per mezzo di una azione coordinata politico-militare di disaggregazione che tagli ogni rapporto tra i due tipi di forze e consideri i primi nemici da eliminare utilizzando una strategia “nemico-centrica” e i secondi, invece, possibili alleati secondo un approccio “popolazione-centrico”. Piuttosto che cercare di uccidere quanti più nemici possibile, in questo secondo caso, risulta più utile controllare l’ambiente, renderlo sicuro, unendo un altrettanto mix di strumenti. Lo scopo strategico che le potenze occidentali devono ricercare è insomma quello di controllare la violenza invece di voler raggiungere, attraverso di essa, come nelle guerre tradizionale, i propri fini politici. E questo è quello che è successo in Iraq con la surge inaugurata dal generale Petraeus a cui è arrisa la fortuna di capitare in mezzo alla rivolta tribale sunnita dei filo baathisti nel febbraio del 2007 contro Al Qaida. Qui arriva l’intelligenza e l’esperienza dei nuovi strateghi americani che hanno appoggiato fin da subito il nascente “movimento del risveglio”. In primo luogo facendo uscire i soldati dalle caserme, garantendo la sicurezza ai cittadini, conquistando la fiducia dei capi tribù, aiutando con tutti i mezzi le milizie di autodifesa, rafforzando il governo centrale, addestrando il nuovo esercito e le forze di polizia irachene. In una battuta, rimettendo la politica al centro del conflitto.
La conclusione è amara: “la surge ha funzionato: ma nell’analisi finale è stato uno sforzo per salvare noi stessi”.