martedì 23 giugno 2009

Appunti internazionali, n° 8, 20 giugno

Iran
L’Iran occupa le prime pagine di tutti i giornali da giorni quindi, come si dice, “è ben coperto” anche riportando commenti e analisi della stampa estera. Da qui la scelta di saltare la rassegna stampa. Lasciateci però qualche soddisfazione per il nostro lavoro di surfisti della rete. Un fumetto ironico e paradossale: “Perché non siamo rimasti a casa, invece di scendere in strada a protestare contro i risultati?”- domanda una manifestante scappando davanti ad un poliziotto. “Perché rifiutiamo l’american way of life”, gli risponde l’altro. Due cartine ben fatte che fotografano il voto regione per regione (fa impressione la differenza tra Ahmadinejad e Mousavi) e una seconda riguardo alle zone di contestazione del voto.
Qui il parere di Paul Wolfowitz il duro neocon contro il silenzio del presidente sui fatti iraniani, a cui si contrappone Kissinger a favore invece delle scelte di Obama: “Penso che (la scelta di non prendere posizione sulle vicende iraniane, ndr.) sia la scelta giusta; infatti il supporto all’opposizione potrebbe essere solo usata da Ahmadinejad contro Mousavi”.
Infine, è interessante rileggere gli sfondoni di un cosidetto grande intellettuale del pensiero antiautoritario, radicale di sinistra: Michel Foucault. Proprio sull’Occidentale, Davide Gianluca Bianchi riportava, un anno e mezzo fa, le analisi ‘sopraffine’ dell’autore di “Sorvegliare e punire”. Nei suoi “Taccuini persiani” pubblicate sul Il Corriere della Sera, all’epoca diretto da Franco di Bella, fra il settembre 1978 e il febbraio 1979 (ora raccolti nel libro omonimo edito da Guerini e associati, 1998) “Foucault, nell’intento di dare conto delle caratteristiche di questo tipo di ordinamento, afferma che “nessuno in Iran intende un regime politico nel quale il clero svolga un ruolo di guida o di inquadramento. Mi è sembrato che l’espressione fosse usata per designare due ordini di cose: un’utopia […]. Un’ideale […]. Per quanto riguarda le libertà, esse saranno rispettate nella misura in cui il loro uso non nuocerà al prossimo; le minoranze saranno «protette» e libere di vivere a modo loro, a condizione di non danneggiare la maggioranza; tra l’uomo e la donna non vi sarà «disuguaglianza», perché vi è una «differenza di natura». Per quanto concerne la politica, che le decisioni siano prese a maggioranza, che i dirigenti siano responsabili dinanzi al popolo e che ciascuno, com’è previsto dal Corano, possa alzarsi e chiedere conto a colui che governa”. Ricostruzione molto benevola del programma khomeinista, benevolenza che raggiungeva il colmo nella chiusa dell’articolo: “cercare, a prezzo della loro stessa vita [si riferisce agli insorti, seguaci di Khomeini], quella cosa che noialtri abbiamo dimenticato nel modo più assoluto, dal Rinascimento e dalle grandi crisi del Cristianesimo in poi: una spiritualità politica? Sento già degli europei ridere; ma io […] so che hanno torto”.

USA
L’Italia non si deve preoccupare in prima persona delle scelte relative né alla difesa nucleare, né a quella strategica, compiti delegati agli Stati Uniti. Questo dato di fatto si è tradotto nelle elitè, e di conseguenza nella opinione pubblica, in un disinteresse totale accompagnato dalla relativa ignoranza su tutti gli aspetti fondamentali di sicurezza. Ma la necessità di sapere è resa sempre di più dalla diffusione di simili armi in mani non troppo rassicuranti: l’Iran è a poche migliaia di chilometri, Hamas dispone già di missili potenti e di rampe di lancio mobili. Stati falliti, terrorismo internazionale, stati al di fuori delle regole della convivenza sono purtroppo una realtà sempre più frequente. Senza per altro dimenticarci dei classici competitors anti occidentali, Russia e Cina.
Un report “Missile Defense, the Space Relationship, and the Twenty-First century” , lunghissimo ma con una buona e efficace introduzione, elaborato da “Indipendent Working Group” sponsorizzato da un numero incredibile di centri (American Foreign Policy Council, Claremont Institute, Department of Defense and Strategic Studies, Missouri State University, Free Congress Research and Education Foundation, George C. Marshall Institute, The Heritage Foundation, High Frontier, Institute for Foreign Policy Analysis, Institute of the North) ci informa sulle nuove sfide e minacce a cui urge dare risposta attraverso una strategia a largo spettro di contro proliferazione che includa la difesa missilistica. “ Gli…scopi (del documento, ndr.) sono i seguenti: 1) esaminare le minacce in corso portate dalla proliferazione missilistica agli Stati Uniti, alle forze oltremare e contro i suoi alleati, 2) esaminare le necessità di una difesa missilistica nell’ambiente del ventunesimo secolo, 3) valutare il corrente programma missilistico alla luce delle opportunità tecnologiche in un mondo caratterizzato dal trattato ABM (trattato antimissili balistici del 1972, ndr),4) porre quattro raccomandazioni per un difesa missilistica robusta, stratificata, degli Stati Uniti”.
La causa di questa diversa ottica strategica tra i paesi europei, compresa l’Italia, e gli Stati Uniti risiede in una pluralità di fattori: dal ‘peso’ diverso, alla collocazione geografica, dalla storia alla cultura. Robert Kagan scrisse all’indomani dell’11 settembre un celebre libro “Paradiso e potere. America e Europa nel nuovo ordine mondiale” (Mondadori, 2003) dove si spiegava la diversa attitudine dei due continenti verso al guerra con una metafora efficace, Marte verso Venere (se volete Hobbes vs. Kant), dove la dea ha potuto permettersi di giocare il suo ruolo grazie, e sulle spalle, al dio della guerra americano. La diversità americana, di cui l’esempio più indiscutibile è la capacità di sopportazione alle perdite di migliaia di giovani vite (impensabile in un qualsiasi paese europeo, escluso forse l’Inghilterra), è certo dovuta al ruolo diverso di superpotenza, ma risiede anche nella cultura e nelle tradizioni di quel popolo contrassegnato da tre eventi durissimi: la guerra d’indipendenza contro la Gran Bretagna, la lotta combattuta non solo dai militari contro i nativi indiani, la guerra civile (dove perì il 2% dell’intera popolazione) definita la prima guerra moderna. In un lungo saggio su The American Interest, “Blood Brothers The Dual Origins of American Bellicosity “, lo storico esperto di strategia Stephen Peter Rosen ritorna sull’argomento. “Ciò che sembra ovvio riguardo a noi stessi diventa un puzzle se smettiamo di rifletterci. E’ ovvio alla maggioranza degli americani che gli Stati Uniti sono un paese amante della pace….Ma ciò che ovvio è sbagliato…Non solo gli Stati Uniti sono stati coinvolti frequentemente in guerre, la maggioranza delle quali sono del tipo diverso da quello suddetto: guerre aggressive, guerre civili e guerre imperiali”. Mi sembra che riprenda la tesi di Russel Mead in “Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti” (Garzanti, 2005), in cui sostiene che accanto ad un anima isolazionista, ad una seconda definita “interventismo democratico”, inaugurata da Wilson ai tempi della prima guerra mondiale, ve ne è una terza dura e selvaggia attribuibile al presidente Jackson che risponde alla logica del colpo su colpo, dente per dente, occhio per occhio, in modo deciso, brutale che si è forgiata negli anni delle guerre indiane.
The American Interest nasce nel 2005 da una costola di The National Interest ed è diretto da Francis Fuuyama, l’ autore del famoso saggio e libro “La fine della storia”; ad esso collaborano, tra gli altri: Nial Ferguson, Andrew Bacevich, John Lewis Gaddis, Bernard henry Levy, Robert Kaplan, Walter Russel Mead, Ralph Peters. Si distingue per le sue posizioni conservatrici, ma critiche nei confronti della politica estera di Bush.
Avanza il “politicamente corretto” nella terra che lo ha inventato e ovviamente nelle Università. Un allarmato articolo è apparso sul New York Times a proposito del declino degli studi diplomatici, storici, strategici a favore della storia della cultura come i cosidetti “gender studies”, o relativi alle minoranze, immigrati ecc. “All’Università del Wisconsin, su 45 insegnamenti, uno riguarda la storia diplomatica, un altro la politica estera americana, 13 sono dedicati allo studio di genere, razza o etnicità, mentre l’unico specialista nell’impero degli Stati Uniti include la storia culturale come area di interesse. Per finire, il professore del dipartimento di studi internazionali ha centrato il suo corso sulle vittime dei genocidi!”
Continua il dibattito sui metodi di interrogatorio usati dopo l’11 settembre. Discussione non solo morale, ma che riguarda anche i delicati meccanismi di equilibrio tra poteri in una democrazia.
Sempre a proposito di minacce alla sicurezza nazionale, ecco i 132 modi per importare una bomba negli
Stati Uniti: aerei commerciali, cargo, containers, porti areoporti ecc. Una analisi impietosa dei punti nevralgici delle società aperte. Il rimedio ovviamente non è chiudere il paese, ma monitorarlo continuamente in tutti i modi fino a dotarlo di una rete di sensori, sensibili anche alle radiazioni.
Nord Corea
Continuiamo questo numero con un’ analisi delle minacce nucleari, campo in cui la Nord Corea occupa un posto di primo piano. Il fatto grave e nuovo, che aggiunge preoccupazione a preoccupazione, è l’incognita dei motivi che spingono paesi poveri sull’orlo del crack economico, isolati nella comunità internazionale a investire nel nucleare. “Le motivazioni che hanno spinto la Nord Corea a compiere il suo secondo test nucleare sono, come molte delle sue azioni, largamente impenetrabili. Possono rappresentare l’ultimo passo verso la meta dello stato nucleare o una pubblicità verso eventuali acquirenti internazionali. Possono servire ad alzare il prezzo che gli altri paesi devono pagare affinchè la Nord Corea receda dai suoi intenti oppure un tentativo da parte di
Kim Jong per rafforzare il suo prestigio tra i militari. Più verosimilmente, il programma nucleare della Nord Corea serve a molteplici scopi”.
Pyongyang dispone attualmente di 600 testate nucleari a corto raggio, una variazione dei missili scud, che possono raggiungere la Corea del Sud, 320 missili Nodong e tra 6 e 12 armi nucleari o per lo meno ordigni esplosivi. Gli esperti sono divisi sulla capacità tecnologica della Nord Corea, ma ogni test avvicina il momento finale”.
Ad aggravare il quadro, vi è il possesso da parte del regime comunista di armi chimiche e batteriologiche, armi escluse dai colloqui con i sei paesi incaricati di condurre le trattative (Sud Corea, Cina, Giappone, Russia, Stati Uniti e ovviamente la Corea del Nord).

Pakistan
Nei numeri precedenti del nostro lavoro, abbiamo sottolineato più volte l’altissimo numero di rifugiati, tra i due milioni e mezzo e i tre, che l’offensiva dell’esercito pakistano nel nord del paese sta provocando. Abbiamo anche espresso dubbi su questi metodi di azioni repressive basate non sulla “messa in sicura” della popolazione, ma tutta centrata sull’eliminazione del nemico. Ora si apprende che i rifugiati non sono minimamente assistiti dal governo e in pratica sono abbandonati a se stessi e all’aiuto internazionale. Il risultato è che con questi metodi si reclutano terroristi, estremisti fondamentalisti e basta. Di seguito la testimonianza di un osservatore sul campo. “Se il Pakistan e i suoi partner internazionali non vanno incontro ai bisogni dei rifugiati, lo faranno gli Jihadisti come avvenne nell’ottobre 2008 nel caso del terremoto a Quetta. Per venire a questi giorni, le organizzazioni jihdiiste stanno ottenendo il ruolo di onlus sociali offrendo cibo, ricovero, educazione e in generale aiuto e tutto in una volta sola… Non è una sorpresa che i terroristi siano così efficaci in Pakistan”. Si potrebbe concludere amaramente: come tradire tutti gli insegnamenti della guerra contro Al Qaida in Iraq!

lunedì 15 giugno 2009

Appunti internazionali, n° 7, 13 giugno 2009

In questo numero troviamo le reazioni al discorso di Obama al Cairo, positive, negative, nei paesi mussulman e in Occidente; la situazione in Afpak con due importanti documenti elaborati dai maggiori consulenti del generale Petraeus, Nagl e Kilcullen; una valutazione delle elezioni libanesi e di quelle iraniane, a spogli appena iniziato e una sorpresa divertente.

Pakistan Afghanistan
Dall’Afghanistan continuano a giungere notizie preoccupanti che coinvolgono anche il nostro contingente. Il generale americano Stanley McChrystal, nella sua prima intervista da quando è stato nominato comandante delle truppe in Afghanistan (ben 170.000 uomini a cui vanno aggiunti i 35.000 soldati dei paesi alleati), ha sostenuto sul Wall Street Journal del 12 giugno, che la strategia di eliminazione del nemico fin qui usata non ha funzionato. “Dobbiamo convincere il nemico, non ucciderlo. Dall’11 settembre, ho osservato come l’America abbia cercato di spegnere il fuoco con un martello, ma non funziona. Le strategie di decapitazione non funzionano”. Anch’egli, come Petraeus - adesso suo comandante d’area - e gli altri “ufficiali laureati” della campagna contro Al Qaida in Iraq, ha un curriculum di studi internazionali di tutto rispetto (qui l’intera trascrizione dell’intervista). Anche il giornalista pakistano Ahmed Rashid (autore di molti libri tradotti in italiano sui talebani e sull’Asia centrale) commentando l’offensiva dell’esercito pakistano nella Swat Valley, sostiene, dando ragione al generale McChrystal, che la lotta combattuta è per la conquista delle menti e dei cuori della popolazione che stanno subendo le durezze della guerra in modo impressionante (sembra che il numero dei profughi si aggiri adesso sui 2 milioni e mezzo, una cifra pari all’esodo dall’Uganda). Conclude notando, a ragione, come il presidente Obama “sembra che sia l’unico leader del mondo che si stia preoccupando della situazione dei profughi. Gli Stati Uniti hanno stanziato 110 milioni di dollari che si vanno ad aggiungere ai 200 già dati dall’inviato speciale della Casa Bianca, Richard Holbrooke” . Rimprovero agli altri paesi Nato fatto propria dal ministro della difesa afghano Abdul Rahim Wardak in visita a Bruxelles; si è augurato che gli europei compiano il loro dovere fino in fondo fornendo un aiuto ulteriore alla missione. “Il fardello deve essere suddiviso equamente”.
Per offrire un quadro sistematico sulla situazione nei due paesi, il report prodotto dal think thank democratico vicinissimo ad Obama Center of New American Security, “Triage: the Next Twelve Month in Afghanistan and Pakistan” . Tra gli autori anche l’ormai famoso, per lo meno per i nostri lettori, David Kilcullen. Il documento fa proprie le raccomandazioni del suo ultimo libro, “The Accidental Guerrilla”, già recensito sull’Occidentale, e propone una strategia a macchia d’olio: il primo compito delle forze alleate è garantire la sicurezza alla popolazione in alcune aree; il secondo organizzare le forze di polizia locali, il terzo legittimare le istituzioni locali. La situazione in Afghanistan, dopo otto anni è terribile, e per di più adesso la guerra ha coinvolto anche il Pakistan, vero centro di gravità del conflitto. La strategia dei talebani è semplice e chiara: sfinire la pubblica opinione sia occidentale che locale, togliere la legittimità ai governi locali e far crollare il consenso interno a quelli occidentali. Uno degli avvertimenti più forti è che le forze occidentali e i loro alleati hanno come compito la protezione della popolazione e non l’eliminazione dei talebani, quindi non sono ammissibili azioni che producono “danni collaterali”, cioè la morte di civili innocenti. “La natura della contro insorgenza non è fissa, ma mobile; evolve in risposta ai cambiamenti di forma dell’insorgenza”. E’ una brutta situazione, ma i paesi occidentali devono uscire vincitori, se Al Qaida e i talebani trionfassero sono immaginabili le conseguenze, due soprattutto: la perdita di prestigio e credibilità degli Stati Uniti e dei suoi alleati, e la creazione di aree sicure per i terroristi.
E’ per questi motive che il Center of New American Security è particolarmente attivo nell’analisi del rapporto tra terrorismo- estremismo fondamentalista-Grande Medio Oriente alla ricerca di migliori metodi per affrontarlo. Tra i ricercatori che hanno redatto questo ulteriore report, “Beyond Bullets: A Pragmatic Strategy to Combat Violent Islamist Extremism”, troviamo un altro collaboratore di Petraeus, John Nagl, co-autore del celebre “Counterinsurgency Field Manual”, la nuova Bibbia dell’esercito americano che ha passato la prova dell’Iraq. L’ex colonello è anche autore di un bel libro intitolato “Learning a Soup with a Knife” che riprende la metafora utilizzata da Lawrence d’Arabia per descrivere il lavoro di Sifiso nella guerra asimmetrica. Il report disegna una complessa strategia per affrontare il “terrorismo catastrofico”, definito “un remoto ma grave rischio” (definizione equilibrata, ndr), e sostiene che “devono essere riconosciute la varietà di motivazioni e interessi che distinguono i gruppi estremisti violenti, come i filoni ideologici e organizzativi da loro intessuti. Il governo americano e le forze armate non possono e non dovrebbero essere al centro di ogni sforzo per combattere l’estremismo violento.”
AlJazera ha affermato che la CIA ritiene che Bin Laden sia ancora vivo e che si nasconda in Pakistan.

Commenti e reazioni al discorso di Obama al Cairo.
Continuano le riflessioni sulle parole pronunciate dal presidente americano nella capitale egiziana. Le annotazioni si possono dividere grosso modo in due gruppi: quelle che si concentrano sull’aspetto teorico e quelle invece che si soffermano sulla nuova strategia disegnata per il Grande Medio Oriente. Al primo gruppo appartiene questo durissimo commento di Charles Krauthammer . Dopo aver contestato a Obama le deboli affermazioni sull’Iran, sulla tolleranza religiosa facendo confronti insensati tra mondo mussulmano e occidente, e uguaglianza delle donne, conclude: “Distorcere la storia non è dire la verità ma dire dolci bugie. Creare false equivalenze non è morale, ma abdicazione morale. E soprattutto, librarsi nell’aria sopra tutto (riferimento a Dio nella Genesi, ndr.) non è un segno di trascendenza, ma di un ambivalenza disturbata verso il proprio paese”.
Per il versante arabo dei commenti al discorso di Obama, si può leggere il sito Jihadica, in inglese, interamente dedicato all’analisi dei blog estremisti. E’ frutto di un ricercatore Thomas Hegghammer che compie un lavoro superbo monitorando i siti arabi inneggianti alla guerra santa. “Per cominciare, non dobbiamo aspettarci di vedere nessuna reazione positive all’iniziativa di Obama…In secondo luogo non vi è nessuna tradizione tra gli strateghi jihadisti di analizzare logicamente i discorsi presidenziali. Possono attaccarsi ad una singola parola (come il riferimento di Bush alle “Crociate”) e usarlo per i propri scopi. Ma generalmente questi ragazzi non ascoltano cosa l’America dice, ma osservano cosa fa.” Qui un’altra lista di commenti tratti dalla stampa e media arabi: oltre il rifiuto, c’è che definisce la nuova politica di Obama verso il mondo arabo come soft e capace di far leva su corde emotive ed empatiche. World Politics Review conclude che “Quello che sembra chiaro è che lo sforzo del presidente Obama gli ha guadagnato un consenso sulla buona volontà tra le persone che ha cercato di convincere. Potrebbe essere sfruttato se sarà seguito da specifiche iniziative politiche con particolare riferimento al conflitto israelo palestinese”.
Senz’altro uno dei commenti più interessanti, per la fonte che parla, è quello che proviene dal capo dell’ufficio politico di Hamas, Khaled Meshall che ha sostenuto che “il discorso era scritto in modo intelligente (sic!) e ben indirizzato al mondo mussulmano, ma penso che non sia abbastanza. Ciò di cui abbiamo bisogno sono fatti, azioni sul terreno e un cambiamento di politica”.
Obama al Cairo ha tenuto inoltre un’importante conferenza stampa con i giornalisti locali dove ha specificato meglio il suo punto di vista. L’attenzione questa volta, più che sulla retorica usata e sugli esempi storici più o meno felici,si è concentrata sugli aspetti strategici. La prima domanda è stata infatti sulla decisa, e unica , proposta concreta riguardo a Israele e i palestinesi: il netto rifiuto della nuova amministrazione americana al riconoscimento degli insediamenti ebraici in Cisgiordania. La scelta dell’obiettivo non è stata casuale; permette agli Stati Uniti di criticare Israele su di un punto, trovando del consenso nell’opinione pubblica israeliana senza mettere in discussione la sua politica di sicurezza.

Libano
Intanto arriva un’importante notizia, come ormai sappiamo, dal Libano dove il fronte antisiriano al governo ha vinto le elezioni, anche se uno sguardo più attento ai dati ci dice che la vittoria è avvenuta nel conto dei seggi, ma per numero di voti hezbollah ed i suo alleati hanno ottenuto la maggioranza dei voti, il 50,4% contro il 46% dei partiti al potere! Da qui le contestazioni del partito scita Amal. E’ un successo storico anche grazie allo straordinario sforzo economico e politico dei paesi sunniti, in primo luogo dell’Arabia Saudita, e degli Stati Uniti. Il 22 maggio il vice presidente Biden ha infatti visitato Beirut avvertendo che vi sarebbero state gravi ripercussioni se hezbollah avevve prrevalso. Si delinea così la strategia di Obama: neutralizzare il conflitto palestinese iniziando dal contorno, Siria e Libano per poi arrivare ai nodi centrali. Si ricorda che il governo americano ha appena rinnovato le sanzioni contro la Siria.
Il Libano si conferma essere un’eccezione democratica e pluralista, la più avanzata, nonostante tutto dei paesi arabi. In queste elezioni, il marketing politico ha fatto passi da gigante, fino a coinvolgere i nuovi media: internet, blog, e mail e sms sono stati usati a tutto spiano.

Iran
Ieri si sono tenute le elezioni in Iran. L’esito sembra scontato nella teocrazia dove il controllo politico è saldamente in mano all’autorità religiosa, ma comunque anche sotto la cenere qualcosa cova. Ahmanidejad è il favorito anche se lo sfidante sembra godere dell’appoggio di una gran parte del ceto medio e degli abitanti delle città. Il dato di fatto certo è che il potere del presidente è assolutamente limitato alle “relazioni esterne”, all’educazione, all’economia e poco altro. Il reale potere è tenuto dal leader spirituale o rahbar; titolo appartenuto all’Ayatollah Khomeini fino al 1989, anno della sua morte, e poi a Alì Hoseyni Khamenei; è lui che detiene il reale potere dalla politica estera, alla difesa, alla giustizia, all’esecutivo.
Intanto il mondo si chiede che cosa cambierà nella corsa verso il nucleare. John Bolton, analista dell’American Enterprise Institute, in un articolo tradotto sull’Occidentale, si interroga sulle possibilità che Israele possa attaccare Tehran se continua nel suo progetto, come già fece nel 1981 distruggendo il reattore nucleare iracheno di Osirak e nel 2007 quando bombardò un secondo reattore siriano costruito dai nord coreani. Le eventuali risposte iraniane potrebbero essere: la chiusura dello stretto di Hormuz, il taglio delle esportazioni di petrolio con il conseguente innalzamento dei prezzi sul mercato mondiale, un attacco alle forze americane in Iraq, un aumento al supporto del terrorismo internazionale, una rappresaglia missilistica su Israele, dare il via libera agli attacchi verso Israele di Hamas e Hezbollah.
Emanuele Ottolenghi, collaboratore anche del Foglio, direttore dell’ Transatlantic Institute di Bruxelles e autore del libro” Under a Mushroom Cloud: Europe, Iran and the Bomb (Profile Books, February 2009)”, ha scritto un lungo pezzo su The Australian su come l’occidente si deve rapportare ad un Iran nucleare. Già il titolo “Una nuova Yalta” rende bene l’idea. In un articolo pieno di dubbi, riconoscendo la razionalità degli iraniani ma anche la loro vocazione a espandere la rivoluzione scita e il loro potere nell’area, si sofferma sulla difficoltà di raggiungere un accordo con un eventuale Iran nucleare, notando le enormi differenze con la situazione della guerra fredda, quando le due super potenze ben si conoscevano e avevano attivato una molteplicità di canali di comunicazione ufficiali e non. Anche quindi una nuova Yalta e una relativa spartizione dell’area in zone d’influenza, non riparerebbe il mondo da un eventuale guerra nucleare.
Nel frattempo, continua la corsa iraniana verso il nucleare. La Reuters riporta che Iran e Nord Corea collaboreranno per lo sviluppo di un missile balistico.

Cartoon
Per finire, grazie alla segnalazione di Costantino Pistilli, due cartoni animati in arabo con sottotitoli in inglese su due terroristi stupidotti che non riescono a compicciare niente di buono. Buon esempio di contro propaganda creato da due ragazzi israeliani!

domenica 7 giugno 2009

"Note Internazionali", n° 5; 6 giugno 2009, L'Occidentale

Discorso di Obama in Egitto
Qui il testo completo, in inglese, dell’importante discorso (appena sfogliato) del presidente Obama nella capitale egiziana. Bisogna dire che la retorica inclusiva del presidente è efficace, si noti la presa di distanza dalla laica Europa riguardo ai costumi religiosi delle donne mussulmane. “Ma per capire se il discorso assurgerà alla storia, bisognerà ricercare la risposta – nota giustamente lo Spiegel - non nell’Università del Cairo ma nelle moschee e nei palazzi del mondo arabo e allora si capirà se avrà raggiunto i cuori e le menti”.
Notizia interessante: nella troppo semplificata visione manichea italiana, la visita di Obama al Cairo è ridotta ad un gioco semplicistico tra filo israeliani e filo arabi. Le iper semplificazion non sono una prerogativa italiana, anche gli americani non scherzano; c’è chi è arrivato a criticare il presidente perché ha salutato e ringraziato in arabo! E il Washington Indipendent si domanda ironicamente: “ma anche il generale Petraeus non sarà di nascosto un mussulmano viste le parole di commiato che pronunciò in Iraq erano anch’esse in arabo?”.
L’Egitto è una pedina fondamentale nello scacchiere medio orientale. Anche se non riveste più il ruolo di guida indiscussa dei paesi medio orientali, come ai tempi di Nasser, occupa pur sempre una casella centrale, cerniera tra Europa, Africa e Asia con il canale di Suez dove passano le rotte per l’Oceano indiano, e contrappeso all’influenza scita e iraniana. Così si spiegano le attenzioni americane per la terra dei faraoni e il fantasmagorico aiuto di 1 miliardo e 600 milioni di dollari versati nelle sue esangui casse l’anno scarso. Ora Newsweek si chiede se ne valga ancora la pena visti gli scarsi passi verso la strada della democrazia.
Il mondo arabo musulmano è più complesso di quanto sembri; ecco allora l’invito ai Fratelli Mussulmani egiziano, gruppo integralista, ma non terrorista, perseguitato da Mubarak, di essere presente al discorso del presidente americano all’Università del Cairo. La delegazione include il Dr. Saad Al Katatni, leader del blocco che ha affermato: “l’invito rappresenta un compromesso tra l’amministrazione USA e il governo egiziano, considerate la pressione crescente della stampa Americana sull’amministrazione sulla necessità di incontrare tutti i membri dell’opposizione”.
Certo è che il sentiero su cui si muove Obama è stretto tra realismo e difesa dei diritti umani - sviluppo della democrazia, e quindi alleanza con i regimi sunniti come Egitto e Arabia, non certo campioni di democrazia in lotta contro chiunque minacci il potere. Obama, ecco la preoccupazione di molti commentatori, deve riuscire a rafforzare l’idea nel mondo che gli Stati Uniti non sono disposti a scambiare i principi democratici con la sicurezza nazionale e la difesa dello status quo. Certo è che non seguirà l’insistenza di Bush sulla necessità di cambiamento di alcuni regimi come quello iraniano.
Le aspettative nei confronti della politica in Medio Oriente di Barak Hussein Obama sono alte. Ben il 50% degli arabi ha fiducia in lui (qui un sondaggio USA sull’opinione pubblica egiziana), ma il nodo da sciogliere rimane sempre il conflitto arabo israeliano ormai radicalizzatosi in una dimensione religiosa fondamentalista che rende per ora improponibile la formula “terra in cambio di pace”. E’ l’opinione pessimistica del professor Ramez Maluf, docente all’Università americana di Beirut e autore cinque anni fa di una nota per il sottosegretario Karen Huges su “Come vendere gli Stati Uniti in Medio Oriente”. Comunque si consideri la situazione palestinese, rimane fuori di dubbio che senza una qualche forma di sviluppo economico non vi potrà essere nessun stato degno di questo nome.
Per valutare appieno la strategia di Obama per la pace in Medio Oriente, si veda il video con l’intervista a Brian Katulis e l’osservazione che Obama sta “seminando in diversi campi –Iran, relazioni israelo siriane e israelo palestinesi- per capire quale sarà la strada da seguire”.
Certa è però la sensibilità araba. Mubarak, pochi giorni prima dell’arrivo di Obama, ha dichiarato senza equivoci che nonostante l’Iran rappresenti una comune minaccia “il problema palestinese rimane la priorità senza riguardo ai numerosi pericoli e minacce in Medio Oriente”.

Libano
L’altro fronte caldo del Medio Oriente in questi giorni. Più volte è stato detto che l’ago della bilancia nelle prossime elezioni politiche sarà il cristiano maronita Micheal Aoun schierato a fianco degli Hezbollah. Additato dai democratici della coalizione del “14 marzo” come un traditore (Aoun, nel 1980, fu esiliato dai siriani che aveva combattuto durante la guerra civile), il suo ruolo non è chiaro. Se alle elezioni vincerà la coalizione cristiano scita, i giornali di mezzo mondo scriveranno che Hezbollah avrà vinto: ora è vero che il partito di Nasrallah è l’unico dotato di una forte milizia armata per di più supportata dall’Iran e dalla Siria, ma la maggioranza dei seggi andrà al Blocco del cambiamento e il Napoleone del Libano o il megalomane, a seconda dei gusti, potrebbe essere l’ago della bilancia. A quel punto si vedrà se saprà giocare il ruolo di riconciliatore nazionale (aspirando alla carica di presidente della repubblica) o ritrovarsi ad essere solo un alibi per gli estremisti mussulmani.
Dedicato al Libano anche l’ultimo preoccupato report dell’International Crisis Group che avverte che le elezioni potrebbero significare non un’ apertura di una nuova fase di pace verso la “terza repubblica” caldeggiata da Aoun, ma risolversi in un disastro. Ora è vero che il conflitto è passato dai combattimenti per le strade alle urne, e questo è un buon segno, ma troppe sono ancora le influenze esterne che trovano un campo fertile di settarismi e odi inter religiosi per stare tranquilli. La soluzione migliore sarebbe un governo di unità nazionale: Hezbollah non vuole infatti ripetere l’errore di Hamas che, a causa del suo estremismo, ha trasformato una vittoria elettorale schiacciante in un isolamento internazionale quasi assoluto mentre l’attuale maggioranza sa che senza un accordo con gli sciti e Aoun e sarà impossibilegovernar, ma in Libano tutto può succedere.

Iraq
Notizie allarmanti giungono dall’Iraq. Il governo di Mahliki, che si sente più forte dopo le elezioni amministrative del gennaio scorso, è sulla strada di compiere il terzo disastroso errore nella storia dell’Iraq libero. I primi due, commessi dagli americani, sono noti e sono lo scioglimento dell’esercito iracheno e la debathificazione totale dell’apparato pubblico, fattori che comportarono l’arruolamento di migliaia di sunniti tra le fila, prima, della resistenza filo Saddam, e poi di Al Qaida. “Adesso la terza disastrosa decisione, questa volta ad opera dei leader al governo e diretta principalmente contro gli arabi sunniti… con le loro milizie paramilitari dei ‘figli dell’Iraq’ trattati come potenziali nemici”.

Afghanistan
Un concetto fondamentale nelle guerre asimmetriche, quelle in cui una grande potenza si scontra con avversari infinitamente più deboli come ad esempio nella guerra del Vietnam o in quella algerina, è che la vittoria militare sul campo significa poco. Quello che gli insorti vogliono è logorare il nemico, neutralizzando così la sua superiorità militare. Steve Metz, stratega americano e docente al Collegio di guerra, ripete in questa intervista e in modo chiaro questa verità purtroppo ancora poco capita. “Gli americani in Afghanistan hanno vinto, i suoi alleati sono al potere, ma adesso la guerra è psicologica. Nel campo di battaglia psicologico, i due lati sono sfortunatamente vicini ad essere uguali”.
E i problemi in Afghanistan sono sempre molti perché quel teatro ha sofferto della mancanza di attenzione e di risorse, anche intellettuali, da parte degli americani, e dei suoi alleati NATO compresa l’Italia. Semplicemente, Petraeus era in Iraq e non lì.
Se poi qualche lettore vuol sapere cosa i soldati USA sono consigliati di portare con sé in quelle terre….

Pakistan
L’offensiva governativa contro i talebani nelle province del nord non si sa se abbia raggiunto l’obiettivo di riprendere il controllo di quelle zone: quello che è certo è che ha prodotto qualcosa come tre milioni di profughi in una zona a maggioranza pashtun, l’etnia dei talebani, e la scomparsa dei guerriglieri (perché ritirati). Sinceramente ci si domanda a cosa servano questi metodi.
La novità è che adesso una parte della la popolazione pakistana, quella che prima considerava i talebani come fratelli, disgustata dai loro metodi barbari, si è loro rivoltata. Sembra che si ripeta la storia dell’Iraq: proprio per questo allora è necessario che il governo non sbagli strategia e si inimichi con azioni discutibili la popolazione.

Iran
Tehran continua la politica d’azione su molteplici piani. Il generale Petraeus ha affermato che l’Iran continua l’opera di disturbo anche con infiltrazioni militari in Iraq.
In attesa delle elezioni che si terranno il 12 giugno, la campagna elettorale si riscalda dimostrando che nel paese esiste una relativa libertà di parola. Ecco per esempio uno scontro con accuse gravissime tra Ahmadinejad e il suo principale rivale Hossein Mousavi.
Se Obama apre all’Iran, i sentimenti e le aspettative dei parlamentari americani sono chiari: fermezza e tempi definiti.