mercoledì 25 febbraio 2009

“Il New Deal non è un buon esempio”

“Non è stato il New Deal a far uscire l’America dalla Grande Depressione del ’29, ma la Seconda Guerra Mondiale”.
Questa è la forte, e vera tesi, di Michael Barone, giornalista e commentatore neoconservatore autore dell’ annuale “The Almanac of American Politics”, in un articolo del 17 febbraio e pubblicato sul sito neoconservatore dell’American Enterprise Institute. La conclusione è ovvia: attenti alle politiche interventistiche!
Dopo otto anni di New Deal, la disoccupazione rimaneva al 15%; solo la guerra fece crescere gli occupati da 44 milioni nel 1938 a 65 milioni nel 1944. Così non potrebbe essere saggio copiare le misure statalistiche del New Deal come cura per l’attuale crisi, anche perché non esistono mai due crisi uguali. Ma la fama della politica economica di Roosvelt è dura ad essere smitizzata e specialmente i democratici pensano che essa abbia funzionato fino alla fine degli anni sessanta. Secondo Barone, il quadro di quegli anni è molto più complicato e il successo elettorale nel 1934 e ‘36 dei democratici in molte città, prima repubblicane, va attribuito non ai successi economici, ma alle politiche filo sindacali del partito delll’asinello. Ma il legame con le Trade Unions e i programmi di assistenza vennero spesso denunciati come qualcosa di poco limpido, al limite della corruzione e infatti nelle elezioni del 1938, i Democratici persero 81 seggi alla camera, 51 dei quali nella cintura industriale dalla Pennsylvania fino al Midwest passando per New York e così passò ai repubblicani anche le zone da dove era partito lo sciopero dei lavoratori dell’auto del 1937.
Anche al Congresso, a causa dell’opposizione di molti deputati democratici del Sud oltre a quelli repubblicani, le politiche del New Deal incontrarono una forte opposizione e spesso venivano bocciate.
Con la guerra, le cose cambiarono completamente: la vittoria del democratico Roosvelt è certamente da attribuirsi ai difetti dello sfidante, l’inesperto Wendel Wilkie, che ai successi economici, ma l’elettorato aveva giustamente capito che l’America aveva bisogno di un presidente con esperienza internazionale.
“Dal mio punto di vista –continua Barone- furono gli sforzi bellici, la mobilitazione di massa, l’allargamento delle funzioni del governo, la produzione altrettanto di massa con l’estensione del fordismo a tutti i settori, più che il New Deal, a risollevare le sorti dell’America. L’orgoglio della vittoria, la fiducia nello stato e nel governo che essa aveva diffuso, contribuì a creare un mito composto, come sempre, di verità e bugie, di cui i democratici si impossessarono, e che fece accettare agli americani politiche che negli anni ’30 avrebbero sdegnato”.
Conclusione: l’esempio del New Deal deve rimanere un caso isolato e le soluzioni per la crisi attuale sono tutte da trovare. "

Pubblicato su RagionPolitica martedì 24 febbraio 2009

martedì 24 febbraio 2009

"I confini della politica"

Panebianco sul Corriere della Sera di lunedì 23 febbraio, a proposito della vicende di Eluana Englaro, compie un ampio ragionamento e sostiene un punto centrale (che annaqua in un po' di cerchiobottismo nello stile di via Solferino).
La democrazia non è in grado di gestire il problema della vita e della morte. "La democrazia può occuparsi di tutto, tranne che dell'essenziale (le questioni della vitra e della morte). Non è attrezzata per affrontare un conflitto filosofico radicale fra opposte concezioni della vita". La politica doveva " (come si è sempre fatto) rimanere 'al di qua' dello spazio pubblico, affidare al silenzio, agli sguardi e alle parole a mezza bocca scambiate fra medici e assistiti o fra medici e le persone affettivamente vicine agli assistiti". Vi è insomma una dovere di "preservare una zona grigia protetta...da una 'necessaria ipocrisia' (che) in qualche occasione è una virtù" che consente di trovare soluzioni lontane dai riflettori.
Sono osservazioni del tutto condivisibili.
Quello che hanno compiuto i giudici di Cassazione, il babbo di Eluana, i liberal portatori della teoria dei diritti dell'individuo è qualcosa di mostruoso: hanno portato lo stato dentro a quella sfera grigia, elevando il diritto a Moloch in grado di scegliere in modo imparziale! Una pura follia dettata da statolatria. Anche l'idea del testamento biologico, delle volontà di fine vita portano il segno di questa ideologia di poter scegliere razionalmente di se stessi. E' ovvio che l'individuo è l'ultimo depositario della sua volontà, ma la propria vita appartiene a una rete di relazioni familiari, amicali e sociali.
Ora, in conseguenza a quest'atto dei giudici, avremo il bel risultato di scrivere leggi sulla fine della vita ispirate a questo o a quel modello filosofico: uno stato etico "alla carta".
Leonardo Tirabassi

venerdì 20 febbraio 2009

“Firenze e la vicenda dell’area Fondiaria”

Cari amici,
ripubblico un ariticolo ormai vecchio, ma le recenti vicende della Scuola Marescialli nell'area Castello, lo rendono di nuovo attuale riguardo alla confusione urbanistica, edilizia, amministrativa, politica di questa finenda amministrazione. In un articolo di ieri, giovedì 19 febbraio su La Nazione, il giornalista Cosimo Zetti metteva ben in risalto il groviglio legale e amministrativo in cui quella orripilante costruzione, concepita sotto l'amministrazione Primicerio, è caduta. Sulla decisione del proseguo dei lavori sono state chiamate a pronunciarsi: la Corte d'Appello di Roma, la Corte dei Conti, il Ministero delle Infrastrutture e il Consiglio superiore dei lavori pubblici, un collegio arbitrale. Insomma, "grande la confusione sotto il cielo" e il tutto per aver sbagliato (deduco da parte di qualche ufficio pubblico, ma posso sbagliarmi) nel contratto affidato alla Baldassini e Tognozzi i coefficienti antisismici: 1,0 invece di 1,4.

“Gaetano Quagliariello conclude il suo bell’articolo, a proposito della bufera giudiziaria caduta sul comune di Firenze, con una speranza. Che il centro destra, il nuovo Partito delle Libertà riesca a raccogliere la sfida politica, “a cogliere l’opportunità” alle prossime elezioni.
Non si può che essere d’accordo sia con l’analisi delle radici storiche della crisi sia con l’invocazione e prendo spunto dal suo pensiero per offrire qualche elemento di riflessione.
1) Partiamo dal basso. A essere in discussione non sono le azioni di assessori qualsiasi del PD, ma dei due assessori centrali a tutte le operazioni della giunta, uomini dalla lunga storia all’interno del PCI.
Graziano Cioni è un vecchio dirigente del PCI, proviene da una delle federazioni più dure e ottuse di Italia, quella di Empoli; per 14 anni deputato, visto come la longa manus di Pecchioli durante gli anni di piombo, con un pacchetto di voti propri per Firenze notevole (poco più di 2000). E’ uno dei pochi che sa come si ottiene e come si gestisce il potere. In sé, assomma la ridicola cifra di quasi 15 deleghe che spaziano dalla salute alla polizia municipale (il primo amore non si scorda mai).
Gianni Biagi, coetaneo del sindaco, architetto, già funzionario della regione, da sempre PCI; si occupa di urbanistica anche da sempre, appartiene all’ala riformista del partito simpatizzante di Morando, non ha mai svolto in pubblico un ragionamento politico, è il braccio operativo di tutte le operazioni immobiliari da ben due giunte.
Se Cioni incarna l’aspetto populistico muscolare del PD, Gianni Biagi va ad occupare la casella della tecnocrazia: entrambi, sia chiaro, rappresentano il meglio che si possa trovare tra le schiere del PD, di estrazione comunista, in quanto a riformismo e capacità di governo.
2) La vicenda Castello Fondiaria non è un’operazione immobiliare come le altre. Non lo è per volumi, per soldi, per impatto sulla città, per nomi coinvolti. Senza entrare in dettagli tecnici, 168 ettari (la superficie del comune di Firenze è di poco più di 102.000 chilometri quadri), 1.400.000 metri cubi di cemento per un operazione, valutata da Ligresti, di un miliardo di euro. In pratica è come si stesse progettando a tavolino un’area vasta come il centro medievale di Firenze, dopo aver appena cementificato un aerea come quella ex Fiat a Novoli di ben 32 ettari.
E qui sta il vero nodo politico con pesanti implicazioni culturali. Nodo che a sua volta composto di molti intrecci.
La decisione di urbanizzazione arriva non dopo una valutazione delle necessità della città, una visione organica dei suoi bisogni, ma essa precede l’emergere delle esigenze urbanistiche! Da qui la ricorsa faticosa, irrazionale, caotica, di piani, modifiche, proposte e controproposte continue tra attore privato – Fondiaria – e il comune. Così l’area, stretta tra l’aeroporto, l’autostrada, la ferrovia, diventa il contenitore alla ricerca di contenuti: edilizia privata, pubblica, caserme, scuole, centri direzionali, parco, stadio al posto del parco, alberghi, uffici regionali e della provincia in un crescendo di confusione e ambiguità e senza preoccuparsi nè delle compatibilità, né dei trasporti (il primo braccio di tranvia non collega il nord ovest alla stazione, ma Scandicci!), né delle conseguenze. Si possono mettere assieme il rumore degli aerei, dell’autostrada, quattro cinquemila studenti, cinquantamila tifosi che vanno allo stadio, l’edilizia residenziale, quattromila carabinieri, migliaia di dipendenti regionali e provinciali?
L’idea delle amministrazioni Domenici è chiara: spostiamo quante più possibili funzioni pubbliche in periferia in modo da decongestionare il centro e valorizzare l’area.
Ma può una città come Firenze reggere un trasformazione così profonda operata a tavolino? Non porta in sé connotati di pianificazione centralizzata, di ingegneria sociale l’idea di spostare le funzioni dal centro alla periferia? Non significa ammazzare definitivamente il centro già svuotato dei suoi residenti? Firenze è una città con una delle popolazioni più vecchie d’Italia, che perde abitanti in continuazione (negli anni sessanta ne aveva 437.000; nel 2006, 365.000), dove in dieci anni il 12 per cento dei residenti ha abbandonato il centro.
Che fare delle numerose aree dismesse fiorentine? Si pensi a tutte le ex proprietà dell’esercito, la caserma della Sanità in Costa San Giorgio, l’ospedale militare di San Gallo, la caserma della sussistenza a Novoli; si considerino le aree di San Salvi e anche quelle già riallocate delle ex carceri Murate, della ex Fiat di viale Belfiore, di Porta a Prato, dello splendido edificio della Manifattura Tabacchi. Non solo: con lo spostamento degli uffici della Regione si renderebbero libere anche le torri di Novoli.
Alla fine si scopre questo bel giochino: le aree pubbliche dismesse in centro, o in prossimità, vengono affidate ai privati (i soliti), mentre gli uffici pubblici una volta in centro vanno in periferia! E quindi il centro si svuota per due cause: la prima perchè le funzioni pubbliche vanno verso la periferia, e la seconda, perché molte attività cessano. Ma, ecco loobiezione logica: non si poteva prima di tutto riqualificare il centro città e le zone limitrofe?
Si ritorna infine alla domanda delle domande. La storia urbanistica di Firenze sarebbe stata la stessa se non ci fosse stata l’esigenza di Fondiaria di costruire?
3) Su questa operazione di miliardi e sull’urbanistica in generale si è costituito il sistema di potere del PCI-PD; oggi una delle maggiori voci dell’economia cittadina. L’urbanistica concordata, assieme alla necessità di fare comunque cassa, è la missione dell’amministrazione Domenici. Il comune negli ultimi dieci anni è a vario titolo coinvolto nei lavori per l’attraversamento dell’alta velocità compresa la nuova stazione, delle linee della tranvia, nelle opere di viabilità dei viali, nell’area di Novoli per non parlare degli altri lavori privati in un qualche modo connessi al nuovo corso. Il meccanismo è sotto gli occhi di tutti e comprende società per azioni, cooperative, grande distribuzione, catene alberghiere, grandi nomi della finanza; e di ritorno, sponsorizzazioni per centinaia di migliaia di euro alle attività culturali del comune e non solo. Firenze è riuscita a inventare un meccanismo unico di project financing attraverso un guazzabuglio di società pubbliche e private incrociate che gestiscono i progetti, il cui unico punto certo è chi ci guadagna. E’ un meccanismo perverso dove i nomi che troviamo sono sempre gli stessi e pervicace.
Questa è stata la risposta politica degli ex comunisti alla crisi di identità e ai problemi economici di Firenze. Hanno scelto di mettere le mani sulla città, su quel ganglio sensibile che è il rapporto tra pubblico e privato nell’edilizia, il settore produttivo più semplice; qui non è necessario nessun know how specifico specialmente in periodi di bolla immobiliare durata più di quindici anni, basta a coprire il disastro un’ideologia, condivisa dai più e trasversale ai partiti, dello sviluppo, del nuovo, un odio contro l’immobilismo, qualche archistar sempre disponibile a benedire ogni misfatto possibile, soldi per tutti e il risultato è pronto (il fatto poi che non si sappia fare nemmeno questo, come dimostrano i molti lavori pubblici sbagliati, è un argomento in più contro una pianificazione di stampo sovietico).
Hanno scelto il cemento per asfaltare la loro strada verso il potere, come meccanismo di gestione del consenso, non dissimili in questo alle peggiori amministrazioni anni sessanta. Allora per lo meno c’era una spinta demografica enorme, quasi un’emergenza, a cui rispondere.
Da questo punto di vista, l’indagine della magistratura, non aggiunge niente; quanto detto sopra poteva benissimo essere scritto prima degli ultimi eventi.
La corruzione, prima che individuale o di una parte politica, è culturale. Il fatto che ora si sia mossa la procura, significa solo che questo sistema, per estenuazione dei rapporti, si è incrinato. Al centro destra il compito di romperlo.
E’ necessaria una critica puntuale e feroce a questa logica di occupazione del potere, alla logica di svendita di qualcosa che assomigli all’interesse generale; è necessaria una presa di coscienza contro le seduzioni dello sviluppismo ad ogni costo, è necessario non avere più nessun complesso di inferiorità contro una sinistra arrogante e vuota. Nessuno vuole demonizzare i poteri forti e forse dopo ventott’anni di investimenti congelati qualche ragione ce l’hanno! Il fatto è che la loro opera va messa al servizio della città e non viceversa.
C’è insomma bisogno di un’idea di Firenze semplice che parta dalla realtà, che sappia valorizzare quello che si è, che riscopra un idea del bello, dell’armonia che un tempo era un dato antropologico di questa parte d’Italia.”

Articolo pubblicato su L’Occidentale 8 dicembre 2008

giovedì 19 febbraio 2009

Un commento alla vittoria di Matteo Renzi.

Leggo con meraviglia alcuni commeni foremente critici, specialmente provenienti dal centro destra, sulla vittoria del Presidente della Provincia. Può darsi che si sia già entrati in campagna elettorale, e allora la propaganda prende il sopravvento mettendo fine all'espressione "discussione razionale". Se fosse così, nessuna dichiarazone meriterebbe un commento troppo serio, ma il gioco mi sembra diverso. Vediamo perchè.
La grande e superba affermazione di Matteo Renzi segna il successo di un personaggio di area cattolica, ma non catto-comunista, e ,per motivi anagrafici, non democristiano, giovane, con forti e non banali esperienze ammistrative. Non solo, ha organizzato la campagna elettorale da solo, senza appoggi romani, con il solo sostegno, per quello che può valere, del debole Rutelli che però sul progetto di legge sul testamento biologico ha votato con il centro destra. Quindi un personaggio sveglio, bravo organizzatore, determinato (ha sfidato tutto l'apparato del PD, a Firenze, una delle ultime roccaforti dell'ex PCI) e in grado di raccogliere una grande fetta di consenso in città. Un candidato insomma che ha sfondato a destra: se perdesse in corso d'opera la sinistra, potrebbe recuperare a destra. Ha insomma dimostrato due cose: la prima, dal vecchio PCI non può esserci nessun ricambio, la sua classe dirigente è finita, bollita, non capisce nemmeno in che mondo si viva e passa disinvoltamente da posizioni neo radicali al giustizialismo. Si vince, nelle società di ceto medio come Firenze, al centro, con disponibilità e pragmatismo. Un certo vuoto culturale può essere segno di debolezza politica per uno statista, ma per un amministratore può essere tratto di pragmatismo.
La vittoria di Renzi rappresenta per il centro sinistra anche un'altro fatto, poco sottolineato: se è vero che siamo davanti alla balcanizzazione del PD, al suo disfacimento, è anche chiaro che in alcune realtà come la Toscana il centro sinistra è riuscito a produrre in questi anni un numero elevato di quadri, una classe dirigente invidiabile che significa avere intessuto rapporti, certo egemonici e clientelari, con la società civile, con le categorie economiche, il volontariato, lo scarso mondo della cultura rimasto in città.
Per il Centro destra, forse era impensabile passare dal dominio cattocomunista ad una affermazione improvvisa di propri candidati. L'impressione che si ha però è che tutta la partita sia stata giocata di rimessa, sul nome del canditato e non sulla costruzione di relazioni diverse con la città, proponendo una visione alternativa dello sviluppo della città, come dimostra anche la vicenda Fiat Fondiaria.

mercoledì 18 febbraio 2009

Sondaggio a Gaza

Leonardo Tirabassi, 11 febbraio 2008
Anche la recente guerra a Gaza con gli scontri tra l’esercito israeliano e i gruppi di combattimento di Hamas sono eventi mediatici, guerre asimmetriche combattute sugli schermi delle televisioni e su internet, nonostante Israele questa volta sia stata più prudente. Guerre dove la politica e la propaganda occupano il primo posto. I sondaggi sono quello che sono, tanto più in zone di guerra, ma ormai hanno il valore di piccole elezioni tanto più importanti in zone di combattimento. Perchè queste non sono guerre solo di fatti, di battaglie, ma soprattutto di percezioni, di valori, conflitti dove l’ideologia occupa lo spazio della ragione e della forza tanto più in situazioni in cui Israele non può raggiungere la vittoria assoluta. Scontri dove la conquista dell’opinione pubblica internazionale è importante come una vittoria sul campo.
Il Jerusalem Media and Communications Center, in un sondaggio pubblicato pochi giorni fa (Marc Lynch Foreign Policy, del 7 febbraio) e tenuto tra la popolazione palestinese sugli effetti della guerra, riportava i seguenti dati.
La prima domanda non poteva altro che riguardare la vittoria: il 9,8% dei palestinesi intervistati ha attribuito la vittoria ad Israele contro il 46, 7 che invece ha visto in Hamas il vero vincitore, ma il 37,4 ha risposto “nessuno” che sale al 48,4% a Gaza. Il fatto più interessante però è la differenza tra i risultati di Gaza e quelli della West Bank che dimostra la forza dei valori e la scontentezza nei confronti dell’Autorità Palestinese: qui Hamas è risultata vincitrice agli occhi del 53, 3% della gente. La seconda domanda è molto importante e svela la differenza assoluta di punti di vista tra nemici con una visione del mondo completamente diversa e indica il lavoro che Israele dovrebbe fare per entrare nella psicologia del nemico. Alla domanda se “I palestinesi siano convinti che i civili sono stati colpiti dagli Israeliani a causa dell’uso di Hamas come scudi?” la risposta palestinese è stata all’unisono: la colpa al 72% è attribuita a Israele! E così si dica per la “colpa” dell’attacco: i missili su Sderot non c’entrano niente, l’azione di Israele è vista come aggressione a Gaza dal 76,8%.
Se passiamo a considerare gli attori esterni e cominciamo dall’America, vediamo che la situazione determinata dall’elezione di Obama è di nessun ottimismo: ben 48,2% sostiene che Obama non faccia nessuna differenza in confronto a Bush contro ilo 28,1 di ottimisti ( ma altri sondaggi invece sono più ottimistici e vedono il 42% sperare in un cambiamento radicale. Tra i paesi arabi, un successo notevole lo raggiunge il Qatar con il 63% che è stato percepito come un difensore della causa palestinese, la seconda posizione spetta all’Iran con un risicato, visti i suoi sforzi, 55,9% (comunque meglio in West Bank che a Gaza dove forse speravano in un aiuto maggiore che non c’è stato, figli sunniti di un dio minore scita e per di più senza retrovie). Ma ,sorpresa, il primo paese nella classifica del gradimento risulta la Turchia con l’89,6% e infatti a Gaza si è vista anche una manifestazione pro Erdogan. Chi ci fa una brutta figura sono i paesi arabi sunniti moderati e per di più confinanti. L’Egitto raccoglie uno scarso 35,1% di consensi, mentre la Giordania il 41,7% e lo stesso si dica del leader Abu Abbas inviso dallo 49,9 della popolazione. Il primo leader palestinese risulta con uno scarso 21,1% Ismal Haniya di Hamas, ma il 31,1% giudica comunque negativamente la leadership palestinese. Se si tenessero le elezioni adesso, risulterebbe vincitrice Hamas con il 28,6%, guadagnando ben 9 punti rispetto ad aprile quando era al 19,3%) contro il 27,9% a Fatah.
Ma quello che fa più paura è il giudizio sull’uso della violenza: l’adesione al lancio dei missili verso Israele è passato dal 39,3 in aprile all’attuale 50,8%., mentre il 41% dei palestinesi adesso si oppone alla pace contro il 34% dello scorso anno.
Quello che da un’analisi superficiale risulta è che i palestinesi non si fidano assolutamente dei loro capi sia di Hamas che dell’ Autorità Palestinese, mentre anni di guerra hanno aperto un abisso antropologico tra israeliani e palestinesi. Non solo, il recente conflitto sembra che abbia estremizzato ancora le posizioni e radicalizzato quella dei palestinesi
Se confrontiamo questi risultati con quelli di fonte palestinese, non completamente sovrapponibili, (Palestinian Center for Public Opinion, sondaggio n. 167 del 4 febbraio 2008 ad opera del dottor Nabil Kukali) risultano differenze notevoli su alcuni punti. Il 72% della popolazione giudica la situazione economica disastrosa e questo vale come una condanna definitiva dei due governi palestinesi; il 61,2% si oppone ad un dispiegamento di forze internazionali, ma l’88,2% vuole la tregua con Israele, il 56% dei residenti a Gaza crede che Hamas stia conducendo il paese nella direzione sbagliata. Quindi i palestinesi risultano in una situazione di stallo: da una parte un giudizio sempre negativo su Israele, ideologicamente in sintonia con la propria dirigenza, ma invece pragmaticamente critico nei confronti dei propri rappresentanti, ma senza alternative disponibili.

Pubblicato su Ragion Politica, martdì 16 febbraio 2008

Le nuove guerre ibride

Leonardo Tirabassi 13 febbraio

Le guerre irregolari, asimmetriche, le “small wars”, le guerre che non sono guerre, sono la minaccia del nuovo secolo. Tutto quel celebre “arco di instabilità” che corre dai Balcani e arriva all’estremo oriente è davanti a noi con sfide infinite che mettono a dura prova le capacità di combattimento, la strategia e i mezzi dei paesi occidentali, in primo luogo ovviamente di Stati Uniti e Israele. Il successo di Petraeus in Iraq, pur con tutte le incertezza del futuro – Maliki non si trasformerà in un dittatore asiatico? I militari, nella migliore tradizione araba, non tenteranno qualche colpo di stato? L’Iran non soffierà ancora sul fuoco? - non ci deve far dimenticare il prezzo pesante pagato per questa precaria pacificazione, dai milioni di profughi ai quasi centomila civili uccisi, né la situazione difficile dell’Afghanistan che ora Petraeus si trova a sbrogliare.
Proprio due giorni fa, il generale dei Marines Janes Mattis, ufficiale con 35 anni di espeienza che ha combattuto in Afghanistan, in Iraq nella prima e ultima guerra e si trova ora presso il Comando Supremo dell’Alleanza Atlantica a Norflock in Virginia, ha sostenuto in una dichiarazione riportata dall’American Press Service il 13 febbraio, che gli Stati Uniti, nonostante la loro superiorità nucleare e convenzionale, ancora non hanno niente da insegnare nelle guerre irregolari. Considerazione doloroso che ha aperto una riflessione dura tra tradizionalisti e innovatori all’interno delle forze armate americane e occidentali. La questione che divide è una sola, come devono rispondere gli eserciti a questa sfida? Riducendo le forze tradizionali e aumentando quelle per affrontare le guerre irregolari oppure la sfida attuale è solo temporanea e il pericolo maggiore è sempre costituito dalle potenze che possono mettere in discussione l’esistenza del paese? O cercando una nuova strada?
E’ da mesi che negli Stati Uniti si discute di questo problema, da quando il dibattito è stato agitato da ufficiali, anche reduci dall’Iraq, critici dell’impiego di forze tradizionali, artiglieria carristi, in usi di contro insorgenza, sempre più preoccupati dalla perdita di preparazione specifica da parte di quelle truppe. Problema non di lieve conto. Anche la Commissione Winograd, costituita in Israele per analizzare la crisi delle forze armate di quel paese durante la guerra con gli Hezbollah nel 2006, era arrivata a conclusioni analoghe: uno dei motivi del deficit di combattimento era da ricercarsi proprio nell’uso improprio dei soldati che per anni, durante sia la prima che la seconda Intifada, erano stati usati più come forze di polizia che come esercito.
La risposta del generale è semplice, chiara ma non facile. La natura della guerra non è cambiata; ogni combattente si trova ad adattare strategie, tattiche e metodi di combattimento sulle modalità d’azione e sulle forze del nemico. La risposta è solo una: “improvvisare, improvvisare, improvvisare”. Ogni guerra, e in modo particolare ogni guerra asimmetrica, è diversa dall’altra e quindi improvvisare significa anticipare, conoscere per prepararsi ad agire “prima”, per riprendersi l’iniziativa. Oggi le guerre moderne non si svolgono solo sul campo di battaglia, “sfide e minacce non sono solo strettamente militari”. C’è bisogno di un nuovo concetto di “sicurezza” che trascenda i limiti ristretti delle vecchie dottrine strategiche; un nuovo concetto di sicurezza allargata che sappia far fronte alla molteplicità dei mezzi sia militari che altri, che possono essere usati simultaneamente e non. Se certamente non è finita la vecchia dicotomia tra grandi conflitti convenzionali e piccole guerre irregolari, bisogna riconoscere la complessità dei tempi. Non solo Al Qaida, attore non statale e per di più di matrice religiosa, ha sferrato un’ attacco globale, ma la stessa guerra israelo - palestinese sta assumendo tratti confusi e spesso sembra una guerra combattuta per procura dove minacce con armi tradizionali, missili e nucleare, si accompagnano al terrorismo e all’uso cinico dei media, delle ONG per i diritti umani, della diplomazia che riescono a far breccia tra i nemici, a dividere il fronte avverso tra duri e i paesi a favore delle trattative. Da qui la nuova espressione che sta circolando da qualche tempo di “guerre ibride”.
Questa è la nuova sfida per il governo americano (ma in modo particolare per Israele): come riuscire a costruire un esercito in grado di combattere tipi diversi di guerra, in che modo coordinare il lavoro del Pentagono e del Dipartimento di Stato, spesso in conflitto tra loro si vedano i primi tempi in Iraq, e in che maniera riuscire a gestire un conflitto come qualcosa di più complicato del vincere una guerra, guerra che ormai è composta da una serie di azioni che arrivano dallo scontro fino alla pacificazione e alla ricostruzione del paese.

Pubblicato sull'Occidentale il 16 febbraio 2008

Bollettino prova novembre 2008

Firenze sabato 22 novembre 2008,


1) La CNN ha trasmesso il 19 novembre un interessante dibattito sulla situazione in Afghanistan, sulla possibilità di esportare la strategia adottata in Iraq tra il professor Barnett Rubin e David Kilcullen condotta dal direttore di News Week, Fareed Zakaria (autore di “The Post American Word”, tradotto anche in italiano)
http://edition.cnn.com/video/#/video/politics/2008/11/17/fz.fix.afghanistan.cnn?iref=videosearch

Biografia di Barnett Rubin ricercatore presso il Council on Foreign Relations, esperto di Afghanistan: http://www.cfr.org/bios/115/dr_barnett_r_rubin.html

Bavid Kilcullen, ufficiale australiano esperto in contro insorgenza, consulente del generale Petraeus e di Condoliza Rice, il vero architetto della surge in Iraq; ora ricercatore presso il think thank democratico Center for a New American Security:
https://app.e2ma.net/app/view:CampaignPublic/id:21342.1500655492/rid:17d610d590d306c8a63ad0199cfb66d9

2) I nuovi think thank di riferimento del presidente Obama sono due, come già notato dal Foglio. Il Center for a New American Security (http://www.cnas.org/) fondato da Michele Flournoy, esperta di strategia e sicurezza nazionale, e da Kurt M. Campbell. Il Centro vede la partecipazione tra gli altri di John Nagl, già colonnello dei marines in Iraq, esperto di contro insorgenza, autore di un importantissimo libro “Learning to eat a soup with a Knife” (citazione di Lawrence d’Arabia, metafora per illustrare il lavoro di Sifiso di combattere un’insorgenza), coautore del nuovo manuale dedicato alle small wars (The U.S. Army/Marine Corps Counterinsurgency Field Manual del 2007) alla base dell’opera di Petraeus.
Per sapere qualcosa sui presupposti della politica in Iraq si veda il report Shaping the Iraq Inheritance di Colin Kahl, Michele A. Flournoy, Shawn Brimley (11 giugno 2008 scaricabile http://www.cnas.org/node/117).
La tesi qui espressa è che gli USA piuttosto che offrire un aiuto incondizionato al governo iracheno a prescindere da ogni progresso reale verso una pacificazione nazionale, dovrebbero offrire un supporto condizionato, collegando il loro impegno a passi verso la soluzione delle situazioni conflittuali quali il contenzioso sullo status della città di Kirkuk, l’asssetto istituzionale, la legge sulla distribuzione delle rendite petrolifere ecc.
Molto più netta invece è la proposta avanzata dall’altro pensatoio democratico, il Center for American Progress http://www.americanprogress.org/ , fondato nel 2003 da John Podesta, capo dello staff di Clinton, che nel report “Iraq’s Political Transition After the Surge” Brian Katulis, Marc Lynch, Peter Juul del 10 settembre del 2008 (http://www.americanprogress.org/issues/2008/09/iraq_transition.html), sostiene la tesi che la nuova situazione di sicurezza prodotta dalla surge, invece di favorire la riappacificazione tra le etnie e tra i vari gruppi religiosi, ha finito per congelare la situazione che potrebbe da un momento all’altro esplodere di nuovo.

3) Mercoledì 29 ottobre (vecchio ma trovato pochi giorni fa e comunque di ottimo livello) un articolo di Anthony Cordesman - docente al http://www.csis.org Center for Strategic and International Studies nonché consigliere di Mc Cain e autore di più di 50 pubblicazioni sul Medio Oriente, la sicurezza nazionale e questioni di strategia, su The Washington Times intitolato “Analysis: success in Iraq hinges on more then troops, costs” - dove sostiene che:
1 gli Stati Uniti non hanno abbattuto Saddam Hussein per sconfiggere con la surge Al Qaida (infatti prima della guerra quell’organizzazione non c’era);
2 il futuro dell’Iraq non è nelle mani di Washington;
3 la sconfitta di al Qaida e di ogni insorgenza non è una vittoria strategica;
4 l’Iraq dovrà affrontare un decennio di conflitti e aggiustamenti riguardanti la partizione del potere tra Arabi, Curdi e le altre minoranze;
5 le appartenenze religiose rappresenterà ancora per molto tempo un fattore centrale di divisione e di causa di violenze;
6 i paesi vicini, dalla Turchia verso i curdi all’Iran verso gli sciti, useranno ogni mezzo per esercitare la loro influenza;
7 invece di essere da esempio verso la strada della democrazia, l’Iraq corre il rischio, dopo cinque anni di caos, miseria, morti, pulizie etniche e profughi, di rappresentare un modello di rinascita autoritaria o (8) di diventare uno stato religioso diviso tra sciti e sunniti;
9 la nuova amministrazione può provare a influenzare le decisioni in Iraq attraverso una cooperazione non impositiva con il governo di Bagdad (in questa direzione va ad esempio il nuovo accordo o SOFA di lunedì scorso, ndr); una politica di sostegno economico sociale (state building ndr) verso l’Iraq e, in ultimo, una politica di coinvolgimento degli stati confinanti, dalla Siria all’Iran cercando l’aiuto delle agenzie internazionali come l’ONU e degli alleati.

4) Qualche dato. Il budget della difesa è cresciuto dal 2001 ad oggi del 35% passando da 375 miliardi di dollari a 505 miliardi e gli USA si somandano se ne vale la pena visti i costi della crisi: 10.2 trilioni di dollari di debito e 700 milioni spesi nel salvataggio delle banche (Lawrence Korb – assistente al segretario alla difesa durante la presidenza Regan -, R. Warren Langley, The Wall Street Journal, 13 novembre 2008, “We need a smart defense policy, not a gold-plated one”.

5) E’ uscito giovedì a cura del National Intelligence Council il report Global Trends 2025
http://www.dni.gov/nic/NIC_2025_project.html
Disegna preoccupanti scenari:
“The whole international system—as constructed following WWII—will be revolutionized. Not only will new players—Brazil, Russia, India and China— have a seat at the international high table, they will bring new stakes and rules of the game.
The unprecedented transfer of wealth roughly from West to East now under way will continue for the foreseeable future.
Unprecedented economic growth, coupled with 1.5 billion more people, will put pressure on resources—particularly energy, food, and water—raising the specter of scarcities emerging as demand outstrips supply.
The potential for conflict will increase owing partly to political turbulence in parts of the greater Middle East.”
Entrando nello specifico alle zone di guerra, “l’ Afghanistan rimarrà essenzialmente un paese tribale” e si dovrà confrontare con continui conflitti. Il futuro dell’Iraq non appare molto migliore sempre scosso da rivalità tribali, etniche e settarie cosi nell 2025 “il governo di Baghdad potrebbe ancora essere oggetto di competizione tra le varie fazioni indirizzate più alla ricerca di gloria e aiuti stranieri piuttosto che verso la costruzione di una autorità politica autonoma, legittima e di una politica economica vera e propria”.

6) Comprendere le mosse degli ayatollah di Tehran non è facile, ma dall’esegesi dei loro movimenti dipende la stabilità dell’intera area. La prima questione riguarda ovviamente, prima della consistenza delle minacce di distruzione rivolte ad Israele, la verifica della razionalità della leadership iraniana, se cioè davanti abbiamo un attore che opera in modo razionale o ideologico. Questo passaggio è necessario per arrivare poi alla decifrazione delle sue “vere” intenzioni: rivalsa scita? Ricerca di un ruolo regionale alla luce delle memorie imperiali? Costruzione di una teocrazia regionale ed esportazione della rivoluzione? Leader di tutti i mussulmani contro l’occidente e quindi alla ricerca della distruzione del piccolo e grande Satana?
Da come si risponde a queste domande, deriva la possibilità di disegnare una strategia appropriata che sappia utilizzare gli strumenti noti: deterrenza, prevenzione, contenimento ecc.
Per disporre di qualche strumento, ecco allora un documento elaborato dal Combating Terrorism Center at West Point, “Iranian Strategy in Iran. Politics and “Other Means”
http://www.ctc.usma.edu/Iran_Iraq.asp
Autori del report due ufficiali del Centro suddetto che hanno passato l’estate in Iraq a raccogliere informazioni sul campo (trascrizioni di interrogatori di prigionieri, rapporti declassifcati dei servizi iraniani in mano all’intelligence della coalizione, documenti della resistenza iraniana anti ayatollah ecc.) da confrontare poi con la letteratura scientifica. Scopo del paper è disegnare il contesto storico e politico per inquadrare, e contrastare, i due fenomeni più caratteristici dell’azione iraniana verso l’esterno: il sostegno a gruppi terroristici e la corsa a dotarsi di armi nucleari.
Il paper parte dalla constatazione che dal 2003 l’Iraq è diventato il campo di azione di tre attori esterni, Stati Uniti, al Qaida e Iran che hanno cercato di determinare con tutti i metodi gli eventi di quel paese. Tra tutti, per rapporti storici, l’Iran è sicuramente quello che ha raccolto più frutti.
Ecco i punti salienti dello scritto:
1 L’Iran ha una doppia modalità di tenere i rapporti con l’Iraq:il primo legale, politico religioso con tutte le organizzazioni e partiti sciti come l’Islamic Supreme Council of Iraq (ISCI), il partito Badr e Dawah e allo stesso tempo, tiene contatti stretti con le milizie scite di Motqada al Sadr ed i Gruppi speciali, fornendo loro armi e addestramento tramite il Corpo iraniano delle Guardie rivoluzionarie e la Forza Qods .
2 Data la storia dei due paesi, l’influenza iraniana in Iraq è inevitabile.
3 All’inizio dell’invasione americana, l’Iran ha collaborato con le forze statunitensi.
4 Il caos generato in questi anni ha focalizzato l’attenzione internazionale sugli Stati Uniti, ma ha nascosto l’operato iraniano.
5 Ora l’Iran può contare su tre obiettivi raggiunti:
gli USA non possono usare l’Iraq come base da cui sferrare un attacco all’Iran,
gli alleati iraniani sono al potere a Baghdad,
la forma federale scelta dal governo iracheno favorisce le mire espansionistiche iraniane verso il sud scita ricco di giacimenti petroliferi.
6 Se è vero che i partiti sciti iracheni hanno rapporti stretti con l’Iran e le loro milizie sono addestrate e finanziate da quelle iraniane, è anche vero che appartenenza religiosa e aiuti militari non sono sinonimo di dipendenza politica.
7 Gli Stati dovrebbero quindi:
contrastare non solo le milizie appoggiate dall’Iran, ma approntare una strategia che si confronti con l’influenza iraniana complessivamente definendo quali elementi sono accettabili e quali da respingere,
sviluppare un’azione coordinata sia sul piano diplomatico che economico verso l’Iran,
incoraggiare le azioni di rafforzamento anti iraniano compiute da al-Maliki che pure viene dall’ala pro-iraniana del partito Dawah,
offrire a Moqtada al-Sadr incentivi per partecipare alla vita politica pacifica,
cercare un supporto internazionale per bloccare le attivià illegali iraniane in Iraq.




7) Sull’Occidentale, un commento del sottoscritto sull’accordo tra Stati Uniti e Iraq. http://www.loccidentale.it/articolo/americani+e+iracheni+raggiungono+un+accordo+ma+che+succeder%C3%A0+dopo+il+ritiro%3F.0061918

martedì 17 febbraio 2009

Chi sono

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Nato a Firenze il 13 gennaio 1954. Laureato in Lettere e Filosofia all'Università di Firenze con una tesi su"Il concetto di integrazione sociale in Habermas e Durkheim "; Master in Relazioni Internazionali organizzato dalla Facoltà di Scienze Politiche e dalla quella di Filosofia di Firenza. Pubblicista, collabora regolarmente sul quotidiano on line l'Occidentale, Ragion Politica e il Domenicale. Ha collaborato con la RAI2 per Ore 18 Mondo, diretto da Fiamma Nirenstein, e con RAI3.
Presidente del Circolo dei Liberi di Firenze e cordinatore dei circoli toscani federati con la Fondazione Magna Carta.

P. s. Un ringraziamento particolare va all'amico Marco Brugnola senza il cui aiuto questo blog non esisterebbe.