mercoledì 30 settembre 2009

Che fare in Afghanistan? 1

L'Occidentale 30 settembre 2009

AFGHANISTAN

Ci sono due modi per affrontare il problema Afghanistan e le difficoltà che troviamo ad aver ragione dei talebani. Due punti di vista diametralmente opposti si scontrano, ma spesso si intrecciano e si confondono fino a mascherarsi l'uno nell'altro. Il primo, possiamo definirlo per comodità pacifista a tutti i costi, che non aspettava altro di vedere le bare avvolte nelle bandiere per chiedere a gran voce il ritiro dei nostri soldati, definendo quella missione inutile, imperialista e quant'altro. Il secondo, invece, che vuole aprire una discussione razionale sul modo migliore di aver ragione sui talebani, sugli insorti, sui signori della guerra, che sogna un Afghanistan pacificato e non più base per il terrorismo internazionale di Al Qaida.

Vi è una grande difficoltà a tenere distinte queste due modalità, perché l'emozione, l'atavica disabitudine italiana a parlare di guerra, fa sì che dell'uso delle armi si discuta solo in momenti culminanti, quando la commozione è al massimo. Vi è inoltre il fatto drammatico dell'estrema sensibilità che l'opinione pubblica in una democrazia ha a tollerare il sacrificio dei propri giovani nelle guerre d'oltremare, difficili e lontane contro nemici nascosti, in conflitti scoppiati non per difendere immediatamente il suolo della nazione. Ma opinione pubblica vuol dire consenso, voti, con tutto quello che consegue sulle scelte dei partiti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: guerra mascherata da missione di pace, un incremento della sensibilità alle perdite, i cittadini trattati in modo paternalistico, protetti dal mondo, ma anche in balia di bande di assassini che con il minimo costo, un po' di autobombe e qualche kamikaze, raggiungono il massimo risultato mediatico. Così ancora una volta si conferma il punto debole, il "centro di gravità" direbbe lo stratega prussiano, tutto politico dei paesi occidentali: il fronte interno che può tracollare da un momento all'altro, basta aspettare. Kissinger aveva ben capito la lezione del Vietnam all'indomani dei negoziati di Parigi: per vincere agli americani non erano sufficienti le vittorie militari, mentre ai vietnamiti per vincere bastava non perdere, era sufficiente attendere che il nemico si stancasse. Anche in Afghanistan ricorrono alcuni elementi caratteristici di ogni guerra tra insorti e potenze occidentali. Disponibilità al sacrificio; pazienza; il Pakistan come santuario oltre confine; il consenso della popolazione ottenuto con convinzione, soldi e intimidazioni: questi sono gli elementi della strategia degli insorti.

Per riuscire a venire a capo del ginepraio dove siamo, è necessaria invece l'operazione opposta: la prima cosa da fare è rafforzare l'opinione pubblica, chiarirci le idee, dire la verità. Il Governo, i partiti assieme ai mass media e a tutti quelle agenzie che hanno influenza sulle coscienze dei cittadini devono aprire una discussione libera, la più ampia possibile, sui motivi della guerra, sugli obiettivi della missione e sulle strategie per raggiungerli. E' una discussione che mette al centro la stessa idea di "sicurezza nazionale", tema dato per scontato, per più di cinquant'anni per tutto il periodo della guerra fredda, perchè delegato agli USA.

Discorso razionale che implica che si riesca a parlare di strategia, di scelte tra opzioni diverse senza il peso e la distorsione dell'ideologia. Solo se apriamo la mente e ci togliamo gli occhiali opachi dei preconcetti, degli schemi della coazione a ripetere potremo affrontare la "questione afghana".

Ricordiamo, gli obiettivi della guerra all'inizio erano tre. Distruggere Al Qaida, possibilmente eliminandone tutta la dirigenza compreso Bin Laden; sconfiggere i talebani per il loro rifiuto a espellere AQ ed a consegnarne i capi; costruire un Afghanistan sicuro e democratico, liberandolo dall'oppressione dei fanatici studenti coranici. Ve ne erano altri due non detti: spezzare quell'asse sunnita fondamentalista, retroterra di ogni terrorismo internazionale anche di Al Qaida, che andava dall'Arabia, passava per il Pakistan (dotato di armi nucleari ) per finire all'Afghanistan; inserire gli Stati Uniti in mezzo ad un'area di assoluta instabilità, portando la guerra nel cortile di casa del nemico da dove era partita, allontanando così il pericolo dal suolo degli USA.

Dovendo fare un bilancio, se pur veloce, molti obiettivi sono stati raggiunti a pieno. Dopo l'11 settembre in America non c'è più stato nessun attentato; l'unica superpotenza mondiale è adesso saldamente nell'area (bisogna aggiungere anche la presenza statunitense in Iraq); quella catena di paesi fondamentalisti è stata spezzata e per la prima volta il Pakistan ha diretto le armi contro i propri talebani; Al Qaida è una sigla che copre terroristi internazionali in cerca continua di una nuova base da cui operare, dissolte le sicurezze dell'Afghanista e poi dell'Iraq; allontano è l'incubo della costituzione del Califfato per mano militare; gli stessi militanti talebani sono poco più di 20-25.000 su di una popolazione di circa 30 milioni. Da un punto di vista geostrategico l'unico problema nuovo derivato dall'azione americana è il rafforzamento dell'Iran, della componente scita nell'area, con la creazione del primo stato arabo scita – l'Iraq - obiettivo forse non previsto o valutato appieno dal Pentagono e raggiunto attraverso l'eliminazione dei due acerrimi nemici di Theran, Saddam e i talebani.

E allora che cosa è che non funziona in Afghanistan, che cosa va male, perché dopo otto anni la situazione è sempre così difficile; addirittura, a leggere il rapporto del generale McCrystal, è peggiorata? E che soluzioni alternative adottare?

Ogni strategia di contro insurrezione intrapresa da paesi occidentali, per avere le premesse di un successo e se non vuole essere improntata a strategie di annichilimento, deve essere centrata sul soddisfacimento dei bisogni della popolazione e basarsi sull'esistenza di un governo locale legittimo che riceva cioè il consenso dalla gran parte della stessa popolazione. Per raggiungere questo scopo, non deve essere visto, prima di tutto, come un governo di parte, né di etnia, né di clan, ma anzi deve condurre un'operazione di riconciliazione nazionale. Inoltre, quella legittimazione può essere raggiunta solo garantendo alla popolazione, con l'aiuto degli alleati stranieri, nell'ordine: sicurezza, servizi, lavoro. Per garantire la sicurezza ha bisogno di forze armate e di polizia ben addestrate, equipaggiate e motivate . Per combattere la piaga della disoccupazione, vero e proprio esercito di riserva per ogni tipo di terrorismo e criminalità, deve riavviare lo sviluppo economico. Agli eserciti stranieri spettano alcuni compiti principali: addestrare e rifornire di armamenti e strumenti le truppe locali; aiutare la polizia locali nelle azioni ordinarie; fornire una forza di pronto intervento rapido in situazioni difficili; garantire la sicurezza in zone particolarmente difficili o di particolare rilievo (come le frontiere con il Pakistan o la capitale); dedicarsi con particolare attenzione alla caccia a terroristi internazionali come gli appartenenti ad Al Qaida. Lo stesso discorso vale per l'offerta di servizi: l'aiuto degli stranieri, passato il omento dell'emergenza, dovrebbe essere limitato a situazioni eccezionali e a fornire invece il supporto logistico e il know how.

E' chiaro anche ad un osservatore distratto che le cose non sono andate così. L'Afghanistan appare come un paese povero; con uno stato debole, in alcune zone assente, in preda ad una corruzione dilagante; dove l'esercito non è in grado di integrare le truppe di tutte le etnie e la definizione weberiana dello stato come detentore totale della forza legittima risulta un sogno; un paese dove non sono garantiti i servizi essenziali, dalle scuole agli ospedali; un paese dove l'industria più importante è l'esportazione dell'oppio. Per quanto riguarda il governo centrale esso è sempre più come corrotto, familiare, di parte, non rappresentante tutte le etnie; la cartina di tornasole sano state le elezioni appena svolte nel paese, contrassegnate da non certo alta affluenza alle urne anche nell'area di provenienza di Karzai e da una diffusione di brogli da inficiarne la legalità. Il risultato è che oggi l'Afghanistan è attraversato da una moltitudine di uomini armati pronti a uccidere per i motivi più diversi. Talebani vecchi e nuovi, afghani e stranieri; signori della guerra; tribù ostili al governo centrale; bande criminali legate al traffico di oppio; gruppi armati finanziati da spezzoni dei servizi pakistani e iraniani e così via, con alleanze che si intrecciano e si sciolgono nello spazio di un lampo dettate da convenienze di tutti i tipi.

L'America, d'altra parte, ha le sue responsabilità: prima di tutto quella di aver sovrastimato le sue capacità di combattere più guerre simultaneamente, di essersi fidata troppo – come al solito – delle sue capacità tecnologiche, di non capire le guerre di contro insorgenza condotte in paesi lontani dove vigono culture altre. I paesi NATO portano la loro grave colpa, anche morale, di contare sugli sforzi dello Zio Sam, di non voler combattere – o come si dice adesso, di avere regole d'ingaggio troppo rigide – fino a essersi dotati nemmeno di una forza con un comando ben integrato.

Ecco che una guerra iniziata per dare la caccia a Bin Laden si è trasformata in'azione complessa di ingegneria sociale, di costruzione di una società in tutti i suoi aspetti. Se le cose stanno così, alle nazioni occidentali è richiesto un impegno molto diverso, e maggiore, da quello militare: un vero e proprio intervento coloniale destinato a durare a lungo.

McCrystal ha indicato una soluzione. Aumentare i soldati nel paese, saturare alcune aeree. Riprendere l'iniziativa per prendere tempo, dando respiro al governo centrale in modo che avvengano quei cambiamenti tanto necessari. Come si vede è una strategia difficile con ben tre snodi: deve riuscire a mettere in grave difficoltà i talebani, il governo centrale deve andare in una direzione di rafforzamento delle sue istituzioni e dare prova di imparzialità, i paesi occidentali e le relative opinioni pubbliche reggere nuovi sacrifici. E il punto debole, ma condizione sine qua non di ogni strategia vittoriosa di contro insorgenza, è proprio rappresentato dalla costruzione di un governo centrale che riscuota il consenso della maggioranza dei propri cittadini.


 

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