mercoledì 25 novembre 2009

Ruper Smith, “L’arte della guerra nel mondo contemporaneo”

Secolo d'Italia, 25 novembre

Capire la guerra moderna è uno dei rebus politici più difficili da dover essere sciolto. Mai fino ad oggi il contrasto tra il super potere tecnologico dell'occidente e la debolezza della sua volontà, tra forza e inconsistenza dei risultati della sua applicazione era stato così evidente. Droni, sistemi d'arma completamente informatizzati, una logistica strabiliante e dall'altra la difficoltà a inviare poche decine di migliaia di soldati a combattere guerre d'oltremare, si sarebbe detto un tempo, contro avversari estremamente più deboli. Non solo, un'altra contraddizione è data dall'impegno di uomini, soldi con effetti spesso dubbi, fino a sollevare delle domande sulla logica dello strumento "guerra" come mezzo utile e necessario per risolvere alcune situazioni d'emergenza. Ma le contraddizioni non finiscono qui, se parliamo di guerra, la memoria corre alle immagine dei bombardamenti aerei su Dresda, alle trincee della prima guerra mondiale, agli sbarchi alleati in Normandia e Italia, non certo a scontri con tribù nomadi o miliziani a bordo di pick up.

Rupert Smith, generale inglese, comandante delle truppe in Bosnia, con all'attivo decine di missioni tra cui la guerra del Golfo, ci aiuta a decifrare questa complessa realtà. In un libro appena pubblicato, "L'arte della guerra nel mondo contemporaneo"( Mulino, 2009, 28€) , il generale inglese proclama in modo che può sembrare provocatorio "la guerra non esiste più". La guerra industriale, la guerra come l'abbiamo conosciuta noi europei sul nostro suolo, la guerra napoleonica come scontro di grandi masse,inaugurata da Napoleone, è infatti finita. Con la scomparsa dell'Unione Sovietica è venuto meno anche la possibilità dello scontro tra colossi nucleari con la relativa minaccia di distruzione di comunità di milioni d'abitanti e culture millenarie.

Il generale parla da un punto di vista privilegiato, addestrato per combattere una nuova guerra totale nelle pianure dell'Europa centrale, si è trovato a combattere sui terreni di mezzo mondo conflitti limitati in scopi e mezzi. Ma ha avuto la fortuna di trovarsi tra i ranghi di uno dei migliori eserciti del pianeta con l'esperienza di combattimenti contro nemici di tutti i tipi. A differenza del più forte cugino americano, sempre dotato di una super forza, l'esercito inglese si è trovato, fin dall'inizio dell'epoca moderna, ad affrontare avvesari con piccoli contingenti, spesso formati da professionisti. Dall'India all'Afghanistan, agli Zulù in Sud Africa, ai dervisci in Sudan per finire all'ultima guerra di ieri contro l'IRA e gli estremisti protestanti, l'esercito di sua maestà è un capolavoro di pragmatismo e di capacità di adattamento, capace di gestire situazioni coloniali con decisione e, in confronto alle altre potenze espansioniste europee, con saggezza. Dell'imparare immediatamente dalle situazioni, della necessità di trarre lezioni senza concedersi il lusso di teorizzazioni complesse (altro vizio americano, se qualcosa non è sistematizzato in procedura, non esiste) ne ha fatto una norma che gli permette di gloriarsi di alcuni casi unici come la vittoria contro la ribellione comunista in Malesia tra gli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso, una decolonizzaizone tutto sommato di velluto in confronto alla tragedia francese, i consigli perfetti e non seguiti durante la guerra in Vietnam, per finire alla conclusione appunto del conflitto irlandese.

Rupert Smith da una descrizione delle nuove guerre utilizzando una citazione non di un Clausewitz o Mao, ma di Orwell, del testimone della guerra di Spagna che, in "Omaggio alla Catalogna", sostenne: "è impossibile scrivere della Guerra di Spagna da un punto di vista militare puro e semplice. Essa è soprattutto una guerra politica". Le nuove situazioni sono sempre un complessa combinazione di circostanze politico e militari, il nuovo mondo unipolare è infatti solcato da conflitti di ogni tipo, dal terrorismo internazionale agli stati falliti, da insorgenze globali come quella portata avanti da Al Qaida ai narcostati sudamericani. "E' stato attraverso queste riflessioni che ho realizzato che eravamo in una nuova era di conflitti che ho definito 'guerra tra la popolazione' – vero e proprio nuovo paradigma – una situazione in cui gli sviluppi politici e militari vanno a braccetto". Guerra tra la popolazione è sia un espressione descrittiva che una cornice concettuale utilizzata per afferrrare le situazioni contemporanee di guerra; essa riflette "il duro fatto che non vi è più nessun campo di battaglia separato dal resto e in cui si scontrano gli eserciti, né d'altronde non esistono più nemmeno degli eserciti come gli abbiamo fino ad oggi conosciuti". Ora la guerra è differente, la popolazione stessa è il campo di battaglia. I civili svolgono tutti i ruoli: possono essere spettatori, vittime, nemici e le forze degli stati occidentali possono essere chiamate a difenderli o ad affrontarli oppure a svolgere tutti e due i compiti in contemporanea.

Sono conflitti nei quali, anche se da un punto di vista occidentale coronati dal successo militare, di solito rappresentano solo un passo verso il fine desiderato, cioè "mezzi militari non bastano a risolverli". Questa difficoltà della forza a bastare da sola la si ritrova anche al livello più basso, adesso il calcolo politico entra perfino sul piano tattico, nella singola scaramuccia, perché per fino l'applicazione della forza (il come e la quantità) è una decisione che avviene tutta nell'ambito del politico. Il risultato è che la massima di Clausewitz, della guerra prosecuzione della politica con altri mezzi, non vale più se intesa come aut aut. Adesso guerra e politica sono elementi inscindibili che si specchiano l'uno nell'altro continuamente. Il risultato è sconcertante, nelle guerre limitate tra la popolazione quello che conta è la chiarezza strategica che spesso manca, con i risultati che abbiamo sotto gli occhi. Lo vediamo oggi in Afghanistan cosa significa aver affrontato un conflitto limitato con un con una definizione di "vittoria" che si è andata modificando nel tempo senza che corrispondesse un adeguato aggiornamento strategico e azioni conseguenti.

Ecco spiegata la "dissonanza" , anche cognitiva, tra il modo occidentale di comprendere la forza, la relativa traduzione di tale concezione in organizzazione burocratica armata, preparata per combattere le nostre guerre, e la realtà difforme degli attuali conflitti che sempre stupisce gli stati occidentali e in modo particolare gli americani, gestori recalcitranti e loro malgrado dell' ordine del mondo.


 


 

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