venerdì 4 dicembre 2009

Che dice Obama?

L'Occidentale 3 dicembre

Dopo tre mesi e mezzo di incontri, seminari, audizioni, il presidente Obama ha finalmente deciso il da farsi accettando per tre quarti la richiesta del generale McCrystal, il comandante delle truppe in Afghanistan: 30.000 soldati, più 4.000 istruttori a cui dovrebbero aggiungersi 5.000 truppe fresche provenienti dagli altri paesi NATO, al posto dei 40.000 richiesti. Il primo scaglione, una brigata di 9.000 uomini, arriverà a Natale mentre gli altri saranno schierati entro sei mesi. Ma questo è solo il primo tassello, l'altro è rappresentato dal rinforzo della polizia e dell'esercito afghano, assieme dovrebbero arrivare a contare, entro la fine del 2010, 134.000 uomini in confronto agli attuali 90.000.

A prima vista quindi il giudizio, anche da parte di chi era scettico sul "temporeggiatore", non può essere che positivo. Anch'ora una volta la realtà, la necessità di governare l'unica super potenza con responsabilità globali, ha prevalso sulla retorica pacifista ad uso e consumo della platea mondiale. Il dovere, e l'impossibilità, di non lasciare a metà il lavoro della lotta ad Al Qaida, della liberazione dell'Afghanistan dai talebani, intrapreso da Bush ha prevalso sulle esigenze di bottega. Il messaggio inviato al mondo intero è stato forte e chiaro: "gli Stati Uniti sono anch'ora in guerra, la lotta contro il fondamentalismo islamico armato è un obiettivo anche di questa amministrazione".

Questo è però soltanto il primo aspetto del discorso, la parte diretta al mondo esterno e a chi in America vede le minacce globali come un obiettivo prioritario da contrastare, ma ve ne è anche una seconda rivolta a rassicurare l'opinione pubblica liberal, il partito democratico, il proprio elettorato, più attenti insomma alle questioni di politica nazionale a partire dall'andamento dell'economia (ogni soldato in Afghanistan costa al contribuente qualcosa come 1 milione di dollari l'anno).

Davanti ai cadetti di West Point, Obama ha anche fissato la data di fine del ritiro, ha fissato a tavolino il momento del ritiro delle truppe, nel luglio 2011; insomma, ha optato per una surge a scadenza prestabilita, con un occhio alla fine del suo mandato. Ma le due parti del discorso non stanno assieme. Nessuno può sapere quando potrà essere la fine dell'azione militare, quando avrà fine la minaccia talebana e al qaidista, tanto più che così facendo si dà ai terroristi la possibilità di organizzarsi per raggiungere un orizzonte temporale preciso da cui riiniziare le azioni, tanto più che il ritiro è fissato per i mesi estivi, quando riprendono più intensi i combattimenti.

Se la preoccupazione del presidente era per l'enorme spesa e sull'influenza sul bilancio americano, l'alternativa in un paese democratico non è quella rappresentata dal nascondere la verità - la crisi afghana - ma di sottoporre la ragion di stato alla verifica dell'elettorato. E' un prezzo che ogni leader di un paese democratico, se vuole essere uno statista, deve essere disposto a pagare, non ci sono alternative; hanno un costo le guerre per legittima difesa e totali, figuriamoci quelle limitate e estenuanti come l'Afghanistan, in questo simile al Vietnam. E' stato così per fino con Churchill, uscito vincitore dalla Seconda Guerra mondiale, e licenziato senza troppi complimenti alle prime elezioni post conflitto; per Truman che lasciò il posto, all'indomani della guerra di Corea, a Eisenhower nonostante avesse fermato l'URSS.

Ora Obama spera che l'invio di più truppe serva a prendere tempo e permetta al governo afghano di riprendere in mano la situazione andando verso quella afghanizzazione del conflitto che fino ad oggi è stato l'obiettivo mancato. Ma ci sono forti dubbi sull'efficacia dell'invio di più soldati se non accompagnato da una nuova strategia vincente. Anch'ora mancano però per lo meno tre pilastri fondamentali di ogni azione vincente di contro insorgenza: l'esistenza di un governo centrale abbastanza forte e legittimo, un esercito e delle forze di sicurezza efficienti, la neutralizzazione dei santuari all'estero. Una delle poche lezioni utili della tragedia algerina fu nella capacità dei francesi di sigillare le frontiere con la Tunisia e con il Marocco attraverso linee fortificate da cui non passarono né armi né guerriglieri.

Il primo punto rimanda alla capacità di contrastare, da parte di Karzai, la corruzione e all'abilità di integrare nel governo i vari signori della guerra  di cui ha comprato la neutralità; il secondo è collegato ampiamente al primo, mentre il tema dei santuari è strettamente connesso al problema Pakistan, al difficile rapporto, anch'ora non risolto, delle sue forze armate con i talebani, quasi tutti di etnia pashtun, un tempo alleati in funzione anti indiana e anti iraniana. Ogni azione di pacificazione in Afghanistan passa quindi dal Pakistan ed entrambi i conflitti vedono al centro i pashtun, prima della vittoria dell'Alleanza del Nord storicamente al potere a Kabul e assolutamente indipendenti in Pakistan. Il conflitto in corso ha ridisegnato la mappa di distribuzione del potere non solo in Afghanistan ma in tutta l'Asia centrale, coinvolgendo Iran, India e Cina, per quel gioco di alleanze per cui "i nemici dei miei nemici sono miei amici".

Quello che insomma manca al discorso obamiano è l'offerta di una visione strategica di ampio respiro e una definizione chiara di quale sia "il centro di gravità del nemico", perché in ogni guerra di contro insorgenza il 90 per centro della soluzione è politico, come recita il manuale strategico elaborato da David Petraeus, comandante di McCrystal. L'unica speranza è che abbia taciuto per opportunità, che la data del ritiro sia un'altra trovata retorica e che questa volta a comando delle truppe americane non c'è, come in Vietnam, il generale Westmoreland, ufficiale di artiglieria, veterano delle battaglie campali contro i tedeschi e addestrato per combattere le truppe sovietiche nella piana di Fulda, ma quel gruppo di ufficiali e strateghi che sono riusciti a levare le gambe dal caos iracheno.

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