martedì 13 ottobre 2009

Valentino Baldacci Gli “azionisti” e il complesso di superiorità

Pubblico volentieri questo pezzo dell'amico Valentino


 

In un simpatico libretto del 2007 (Perché siamo antipatici? La sinistra e il complesso dei migliori) Luca Ridolfi analizzava, con tono leggero, le ragioni per le quali la sinistra, a furia di autoproclamarsi quanto di meglio ci sia in fatto di cultura, intelligenza, moralità ecc., finiva per essere insopportabile a tutto il resto del paese.

Ricolfi affrontava con tono leggero un problema assai serio, un problema non nuovo, che in realtà si era ripresentato in molte forme nella storia di quella che una volta si chiamava "movimento operaio". Si era affacciato già ai tempi del vecchio socialismo evoluzionista della fine dell'800, si era soprattutto imposto con tutta la sua forza nella storia del movimento comunista. Da dove nasceva questo antico "complesso di superiorità"? Semplicemente dalla convinzione di essere "il portato della storia", di essere destinati, dalla storia stessa, a essere il motore trainante del progresso dell'umanità. Era perciò un complesso di superiorità collettivo: non riguardava i singoli individui, ma il "movimento" come tale: se i singoli erano "migliori" (Togliatti era "Il Migliore" per antonomasia) lo erano non in virtù delle loro qualità personali ma perché avevano saputo scegliere di stare sulla cresta della storia.

Ma nella recente polemica fra Ferruccio De Bortoli e Eugenio Scalfari è in gioco un altro complesso di superiorità. Il complesso di superiorità dei politici, dei giornalisti, degli uomini di cultura che provengono (o provenivano) dal Partito d'Azione: un genere che, per ragioni anagrafiche, sta scomparendo, ma che ha fatto, e che ancora, per mano dei superstiti, fa una quantità di male al paese difficilmente valutabile, soprattutto perché la pretesa convinzione dei comunisti di essere i migliori è crollata con il muro di Berlino e la fine dell'Unione Sovietica, mentre la pretesa superiorità degli ex-azionisti costituisce un mito che nessuno ha scalfito.

A differenza della pretesa di superiorità dei comunisti, che, si è visto, aveva un carattere collettivo, quella dei ex-azionisti è invece strettamente individuale. Gli ex azionisti sono sempre stati convinti di essere i migliori sotto ogni aspetto: culturale, intellettuale, e soprattutto morale: essi sono la coscienza del paese, un paese che essi hanno sempre disprezzato, un paese, secondo loro, malato da sempre, sulla scia della storiografia di derivazione gobettiana, e che solo loro, inascoltati, avrebbero potuto salvare.

Se si scorre il Gotha di questi profeti inascoltati, ci si trova di fronte alle più illustri Cassandre della storia della Repubblica: da Riccardo Lombardi a Francesco De Martino, da Ferruccio Parri a Ugo La Malfa, da Tristano Codognola a Vittorio Foa, per ricordare soltanto alcuni politici. Ma se si va a cercare un po' più in là, si fanno anche altri incontri ancor più interessanti, soprattutto nel campo dei cosiddetti "poteri forti": da Enrico Cuccia al più illustre di tutti, visto che è asceso alla suprema carica dello Stato: Carlo Azeglio Ciampi.

Forse il terreno nel quale hanno maggiormente esercitato la loro opera di costruttori del mito dei "migliori" è quello della storiografia, meno noto, ovviamente, al grande pubblico, ma dove la loro impronta è stata più profonda e quindi più negativa: si pensi a Guido Quazza e alla sua tesi sulla "Resistenza tradita" che tanti semi malefici ha diffuso fra i giovani negli anni '70 e '80, per non parlare del tentativo di distruzione, per fortuna andato a vuoto, di Renzo De Felice; si pensi a Claudio Pavone e al suo volume su Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, centrato sulla tesi della differenza antropologica fra i combattenti della "guerra civile". E l'aspetto più deleterio di quest'opera di intossicazione sta nel fatto che si trattava, nel loro caso e anche in quello di molti loro allievi, non di storici da poco ma di studiosi di valore, la cui opera è stata tuttavia distorta fin dalle origini dalla convinzione della superiorità intellettuale e morale di una piccola minoranza nei confronti di un paese vile e corrotto.


 

Chi ha portato fino alle sue estreme conseguenze questa logica della "razza superiore" (anzi, della "razza padrona", per citare il titolo di un libro dell'autore subito sotto citato), è stato il più giovane, naturalmente rispetto alla prima generazione, di questa compagnia, quello che potrebbe in realtà essere considerato un epigono della "grande" generazione del Partito d'Azione. Eugenio Scalfari non ha mai accettato non tanto di non essere mai stato eletto Presidente della Repubblica o quanto meno senatore a vita: la sua convinzione di impersonare quanto di migliore, di superiore esiste in questo Paese così vile e corrotto non poteva avere altra ricompensa che quella di ricevere almeno lo stesso titolo del nordcoreano Kim Il-Sung: "Presidente eterno".

Però quello che è troppo è troppo: alla fine non solo, come ricordava Ricolfi, a forza di ripetere di essere i migliori non solo si diventa antipatici ma si fa perdere la pazienza anche alle persone più caute e più equilibrate. E' quello che è successo al direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli, che finalmente ha potuto sfogare quello che gli bolliva in corpo da molto tempo nei confronti di quelli (Eugenio Scalfari e il comprimario Marco Travaglio) che "ci rimproverano sostanzialmente di non far parte dell'esercito mediatico che Berlusconi lo vorrebbe mandare a casa senza chiedere agli italiani se sono d'accordo", come ha scritto il 12 ottobre nel suo editoriale "Un'informazione libera e corretta".

Se quelli che pretendono sempre di essere i migliori finiscono alla fine per diventare antipatici, il compassato direttore del "Corriere" rischia di diventare molto simpatico a moltissimi italiani.


 


 

Valentino Baldacci


 


 

Nessun commento:

Posta un commento