Ragionpolitica 14 ottobre
Torno di nuovo sulla guerra in Afghanistan a costo di essere noioso e ripetitivo, ma mi sembra che in Italia non si riesca a cogliere il nocciolo del problema e si rimanga bloccati ad una impostazione ideologica e moralisticheggiante molto pericolosa, perché non politica e quindi non fornisce ai cittadini gli strumenti teorici, i concetti per afferrare la realtà bellica in quell'area.
Cardine fondamentale affinchè una strategia di contro insorgenza abbia successo è rappresentato dall'esistenza di un governo centrale che riscuota il consenso, per lo meno, della minoranza attiva della popolazione e la neutralità della maggioranza. La legittimità, a sua volta, è conseguenza della capacità delle istituzioni e dell'amministrazione di fornire servizi e sicurezza ai suoi cittadini.
Questa è la sfida che l'amministrazione americana si trova davanti e dove, fino ad oggi, il governo di Karzai ha fallito o per meno ha riscosso poco successo. Al di là della discussione su quale strategia, se quella globale di MCCrystal o azioni di antiterrorismo proposta da Biden, possa funzionare sul campo, il vero nodo da sciogliere è proprio questo. Ha senso mandare altre truppe se poi il governo afghano non esiste? E fino a quando? I talebani sono nostri nemici, ma prima di tutto sono nemici del popolo afghano: gli eserciti NATO sono sul campo per aiutare le forze locali, dalla polizia alle forze armate, ma da soli poco potranno.
Da queste elezioni deve uscire un governo legittimato dal voto popolare in grado di varare le riforme sociali necessarie, un programma di pacificazione nazionale, in primo luogo con i pashtun, e un'azione di lotta contro i trafficanti di oppio e le varie mafie, fonti di reddito infinito per i terroristi di ogni risma. Solo così gli americani e i loro alleati potranno dare un aiuto reale a quel martoriato popolo.
A costo di essere ripetitivi, il rischio di un ulteriore coinvolgimento in Afghanistan è rappresentato proprio dalla debolezza, parzialità e incapacità dello stato centrale, formato da funzionari per lo più corrotti, di funzionare.
A questa obiezioni, i fautori, tra cui chi scrive, della lotta ad oltranza ai talebani devono rispondere.
In caso contrario, in un lungo articolo sul New York Times David Kilcullen, uno dei più ascoltati strateghi ascoltati sia da Petraeus che da MCCrystal, sostiene che "gli Stati Uniti dovrebbero 'afghanizzare' la guerra, ritirare i soldati e prepararsi all'inevitabile disastro che avverrà quando il governo di Kabul,in assenza di una volontà di riforme cadrà, meritatamente e inevitabilmente, nelle mani dei Talebani."
Questa è una guerra politica che si vince non contando i chilometri quadrati di territorio controllato, non il numero dei terroristi uccisi, ma conquistando l'anima e il cervello della gente.
Sempre nello stesso articolo ricordava Merrill McPeak, , capo di stato maggiore dell'aviazione americana
dal 1990 al 1994, "questa è una guerra post moderna, non una tradizionale caratterizzata dallo scontro di forze meccanizzate di stati industriali… In questo tipo di guerre, il nemico ha poco da perdere, nessun territorio da difendere, pochi importanti obiettivi a rischio, forse anche nessuna vita che valga le pena di essere vissuta… Nelle guerre del primo tipo, il successo era rappresentato da un processo misurabile sulla distruzione di importanti beni. Le guerre post moderne sono molto più complicate, essenzialmente inquantificabile è la vittoria".
C'è da notare allora che un incremento del numero dei soldati sul suolo afghano sarà visto da alcune frange della popolazione come un segno ulteriore della volontà degli Sati Uniti di colonizzare il paese. Uno dei metri possibili per giudicare l'andamento della guerra è infatti rappresentato dal numero di attacchi suicidi, schizzati da 9 nel 2005 a 60 nei primi sei mesi di quest'anno.
"Vincere" non significa adesso distruggere fortificazioni, assaltare roccaforti e trincee. Nelle guerre di popolo, la vittoria arriva solo se l'obiettivo è possibile e se riscuote il consenso politico di vari attori, dalle tribù ai clan e ai partiti locali, dalle potenze straniere all'opinione pubblica mondiale.
L'andamento della guerra, come nel caso del Vietnam, è misurato sul supporto che il conflitto riscuote nei paesi occidentali: il nostro centro di gravità non sta in Afghanistan, non è militare o logistico, ma risiede nella tenuta dell'opinione pubblica occidentale.
Bisogna essere estremamente franchi. La guerra dal suo inizio ha cambiato obiettivo. Nata per sconfiggere al Qaida, si è trasformata in un appoggio ad una parte nella guerra civile afghana, a cui la maggioranza dei contingenti NATO partecipa a parole o in modo insufficiente. Il compito che adesso ci troviamo davanti è ben diverso da quello iniziale: se decidiamo di restare, dobbiamo sostenere un impegno ben più gravoso di quanto fatto fino ad adesso.
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