mercoledì 28 ottobre 2009

L’icona Obama


L'occidentale 27 ottobre

E' un icona, un rimando ad una altra realtà, anzi ad altre; simbolo di tutto ciò che i cittadini spettatori vorrebbero di bene al mondo senza pagare nessun prezzo alla durezza della vita e delle sue leggi. E questo è possibile perché la dimensione del politico si articola per lo meno su tre livelli. Innanzitutto vi è la visione, il progetto complessivo, lo sguardo illuminato sull'andamento della storia e qui che si vede se un capo è un leader, il predestinato che sa capire la direzione, i passaggi fondamentali e indicare la strada al suo popolo. In secondo luogo, vi sono le scelte quotidiane, la routine, che vanno gestite con pragmatismo e buon senso senza mai di dimenticarsi di coordinarle con il piano superiore. Da ultimo, c'è la retorica, la gestione del consenso, l'olio che permette l'amalgama di tutti gli elementi. Ecco Obama ha innalzato quest'ultimo elemento a architrave portante di tutto l'edificio della sua politica e questo è vero specialmente per la politica estera americana. In questa sfera d'azione, dove le percezioni equivalgono a fatti, la prima opera è stato cambiare il segno alle parole d'ordine che hanno segnato i due mandati di Bush, sostituire il prefisso "multi" all' "uni" in nome di una maggiore moralità, e il gioco è fatto. Multilateralismo al posto di unilateralismo, multipolarismo invece di unipolarismo, guerre di necessità contro guerre di scelta, politica dell'ascolto e non più arroganza, e così via.

Ma le cose non sono così semplici e lo schema non funziona. Prendiamo per esempio la questione della presunta maggiore universalità della politica obamiama; se fosse così i diritti umani sarebbero al primo posto, la promozione e la salvaguardia di un bene primario, di uno standard minimo di dignità, dovrebbe essere in testa all'agenda di una politica volta verso il rispetto della persona e non più in mano alla gang dei cinici petrolieri texani. E, invece, no. Il primo presidente di colore che dovrebbe essere guidato dallo spirito idelista wilsoniano rifiuta di incontrarsi con il Dalai Lama per non offendere gli amici cinesi. Mai il guerrafondaio Bush si sarebbe permesso un diniego così esplosivo!

E' il caso più eclatante che ben mostra però il limite strutturale dell'azione di Obama. Si potrebbe continuare a lungo, dalle posizioni sullo scudo spaziale europeo al modo di gestione del processo di pace israelo palestinese, al negoziato con l'Iran, alle indecisioni afghane. Una retorica umanitaria buonista multilaterale a coprire un realismo opportunista determinato a sua volta dalla vera essenza della sua politica estera, l'accettazione dello status quo, la globalizzazione come bene comunque essa sia. Ecco il principio ultimo!

Mentre Bush è stato costretto dagli eventi ad un interventismo revisionista dell'ordine mondiale a partire dal Medio Oriente, mentre Bush dopo l'11 settembre ha provato a ridisegnare gli equilibri globali dall'Iraq ai rapporti con gli alleati e con la Russia, Obama vuol tornare ad una situazione più tranquilla che permetta all'America di fare dei buoni affari con tutti, dalla Cina al resto del mondo, stando ben dentro il processo di integrazione mondiale e avendo ben poche pretese di dirigerlo. Il suo sogno è di disfarsi delle conflittualità armate per concentrarsi sulle relazioni economiche, in primo luogo con Cina e l'Asia. A spingerlo in questa direzione vi sono per lo meno due verità impossibili da smentire, la crisi economica e le difficoltà della guerra, ma questo non basta a spiegare questo nuovo indirizzo.

La verità è che, come sempre, le parole mielate, la retorica buonista serve a mascherare decisioni in direzioni opposte, dettate dal più duro realismo economicista o, direbbe Tremonti, mercatista. Ecco che allora diritti umani e alleati possono bene essere scambiati in nome della stabilità: la Cina prima del Tibet, la Russia prima dei paesi dell'Est Europa, l'Iran prima di Israele.

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