Secolo d'Italia 10 ottobre 2009
Jurgen Habermas è uno dei rari filosofiche che unisce la riflessione teorica ad una passione civile ben riflessa e tematizzata nella stessa elaborazione. Nei suo testi, dal celebre "Storia e critica dell'opinione pubblica" del 1962, l'autore ha sviluppato una teoria della società a partire dalle aporie della filosofia dell'idealismo tedesco, da Kant a Hegel finendo per confrontarsi in seguito con gli apici del pensiero contemporaneo. Anche in questa rapsodica raccolta di saggi "Dall'impressione sensibile all'espressione filosofica. Saggi filosofici" (Ed. Laterza, 2009, pagg.113, € 15), scritti in occasioni diverse e per pubblici altrettanto diversi, il francofortese offre molto di più che un assaggio del suo metodo che tutto è meno che debole e, d'altra parte, vi erano fin dall'inizio del suo percorso le condizioni perché non cadesse nelle banalità del post moderno o nelle perle del relativismo decostruzionista.
Il filosofo in Italia è arrivato ad una fama che ha sorpassato il recinto degli addetti ai lavori attraverso una serie di occasioni diverse. Con la felice sintesi "patriottismo costituzionale" è riuscito a cogliere la novità delle nazioni in un epoca di globalizzazione, dato che la società contemporanea è pluralistica e "i confini della comunità sono aperti a tutti" al contrario della nazione novecentesca tutta basata su di un' appartenenza civile fatta di "sangue e suolo": "una convinta adesione ai principi universalistici della Costituzione è la base per una vita civile condivisa a prescindere da provenienza". Solo un atteggiamento inclusivo diretto ad universalismo permette uno sviluppo degli stati nazionali costruiti nella versione attuale a partire dall'Ottocento e l'Europa ha il compito storico di indicare la strada a causa del suo passato.
L'altro celebre passaggio pubblico che lo ha reso celebre è stato il dibattito nel 2004 con l'allora Cardinale Ratzinger, "Ragione e fede in dialogo" (Marsilio). L'ultimo discepolo della Scuola di Francoforte afferma che il rapporto tra fede e Stato può essere descritto riprendendo il teorema, come è stato definito, di Ernst Wolfang Boeckenfoerde, uno dei più autorevoli giuspubblicisti tedeschi, secondo cui «lo Stato liberale e secolarizzato si nutre di premesse normative che esso, da solo, non può garantire» (passaggio ripreso anche dal cardinale Scola in un intervento del 2006 e ripubblicato nel volume "La società plurale. Temi per una nuova laicità in Italia"). Le condizioni normative dello Stato democratico sono per Habermas sia cognitive che motivazionali-comportamentali. Le «virtù politiche» dei cittadini democratici si esercitano secondo principi universali nel dialogo che nella democrazia assume immediatamente un carattere legale, ma la solidarietà e la partecipazione sono una risorsa scarsa che non può essere imposta per legge. L'integrazione sociale non si esaurisce nel voto democratico, ma si svolge con due modalità diverse: da una parte nell'elaborazione continua di temi e contenuti che vanno a formare l'opinione pubblica, che su di essi deve poi esprimersi; dall'altro lato, permette il funzionamento dei meccanismi stessi dell'azione sociale. In poche parole, se la società moderna fosse solo basata sull'individualismo, sulla concezione dei diritti assoluti dell'individuo, non sarebbe in grado di funzionare. La religione, la tradizione, forniscono sia argomenti che comportamenti senza cui verrebbero meno i nessi sociali; per questi motivi il dialogo tra Stato e religione è particolarmente fertile, perché nei fondamenti del pensiero religioso cristiano, e nei comportamenti che esso ispira, risiedono potenziali sia argomentativi sia d'azione che il pensiero legalista-positivista non possiede. Un pensiero laicista estremizzato conduce infatti ad un individualismo che distrugge qualsiasi base comunitaria, seppur dialogica, e una legge che scambiasse la legittimità con la legalità avrebbe vita breve. In poche parole, il pensiero relativista individualista cade in una contraddizione insanabile: il suo nihilismo è distruttivo per la società, non è condannabile solo per una aggettivazione morale. La democrazia, la società che di cui è istituzione, è fragile perchè ha nel suo proprio codice genetico un elemento autodistruttivo: la volontà di autoaffermazione dell'io che si può trasformare in dittatura dell'io e che se trionfasse rappresenterebbe immediatamente la fine di qualsiasi idea di società. Durkheim, ad esempio, l'aveva ben capito, quando sosteneva che l'integrazione sociale nelle società organiche si articolava attraverso nessi profondi che andavano dai sentimenti, alle emozioni, ai riti, alla parola. Tutti meccanismi che le società moderne, o post post-moderne, lasciano alla gestione individuale e/o cognitiva, ma il livello cognitivo da solo non può bastare a far marciare i contenuti morali e non si hanno riti individuali.
Memore della lotta contro il positivismo e la società della tecnica condotta dalla scuola di Francoforte, Habermas è attento, a differenza di tanti nostri liberali ex comunisti, ai rischi di «una modernizzazione aberrante della società...(con) la trasformazione dei cittadini di società liberali benestanti e pacifiche in monadi isolate, che agiscono solo sulla base del proprio interesse e usano i propri diritti individuali come armi contro il prossimo» (Habermas, op. cit., pag. 51).
Come si è solo accennato, non è possibile pensare l'oggetto "società", in tutte le sue forme storiche, se non si dispone di una adeguata teoria della conoscenza; in questo, il nostro è erede della migliore tradizione marxista, dell'Adorno di "Dialettica Negativa" che, pur sbagliando molto nelle analisi sociologiche, seppe coniugare riflessione teorica e osservazione del contemporaneo. Habermas ha continuato quella tradizione, liberandosi ben presto della zavorra del comunismo grazie ad un percorso originale che lo ha portato a dialogare, a fare i conti con i maggiori pensatori del Novecento in una girandola impressionante di nomi in tutte le declinazioni delle scienze dello spirito, per usare una formulazione di Dilthey. L'intersoggettività, l'interazione, il linguaggio sono stati gli elementi centrali, le categorie fondanti, che hanno segnato l'addio al marxismo; in "Lavoro e interazione" del 1968 utilizza Hegel contro Marx accusato di ridurre la storia al confronto tra uomo e materia, uomo e natura, riducendo le forze produttive a solo "lavoro" mentre Hegel aveva ben visto, pur tematizzandole con categorie esclusivamente idealistiche, l'importanza antropologica del legame sociale, l'interazione appunto.
Anche in questa ultima raccolta il leit motiv è rappresentato sempre dalla costituzione dell' uomo che si da in relazione con gli altri entro e mediante il linguaggio, nell'orizzonte di senso. A partire dal primo saggio -"L'energia liberatrice della figurazione simbolica. L'eredità umanistica di Ernst Cassirer e la Biblioteca Warburg" - Habermas disegna la costellazione della teoria. Fu il celebre collezionista e storico d'arte "ebreo di sangue, amburghese di cuore, d'anima fiorentino", come ebbe a definirsi con cristalline parole, a fornire le basi da cui sarebbe partito Ernst Cassirer. Ad Amburgo nell'enorme libreria di Warburg, "collezioni di problemi" la definisce Habermas, che raccoglieva testi a cavallo tra molte discipline, dalla storia dell'arte, all'antropologia, alla storia delle religioni, Cassirer, agli inizi dell'altro secolo, potè concepire il proprio percorso intellettuale. Per Warburg infatti lo studio delle "sfumature dei trapassi da periodo a periodo in quella storia della cultura che era la sua passione…; e la trasmissione dell'eredità classica furono il pernio delle sue ricerche. Un particolare del costume osservato in un disegno, la ricorrenza di un motivo ornamentale, uno svolazzo di veste, una chioma fluttuante, una piega ovale, un ex voto di cera, un coperchio di scatola effigiante un'impresa d'amore, tutte queste cose che gli uomini di alta statura e di grandi gesti non curano, l'omino piccino le accarezzava con le sue mani amorose di collezionista; ma i suoi occhi vedevano lontano e profondo" – notò con acume già nel 1933 il nostro Praz in un articolo sulla rivista Pan. E' infatti dallo studio della "permanenza delle forme", delle "costanti della memoria occidentale" che prende avvio la teoria di Cassirer sull'evoluzione delle forme simboliche, il cui mondo "si estende dalla rappresentazione figurata all'espressione verbale, al sapere orientante, che a sua volta guida la prassi".
Come non notare l'unitarietà del mondo simbolico che permette ai diversi saperi specialistici, pur nella loro specificità, di comunicare tra loro? Conoscenze che a loro volta si erano determinate dal rapporto instaurato dal soggetto dalla prassi, attraverso il linguaggio e l'interesse, nei confronti dell'oggetto nella natura esterna. Ma questa operazione doveva condurre ad un superamento della distanza tra soggetto e oggetto, scoglio su cui tutta la filosofia occidentale aveva sbattuto e non risolto se si esclude lo strattagemma marxiano dell'assolutizzazione del lavoro e della prassi. "Che i contati con il mondo tramite gli stimoli sensoriali siano simbolicamente preparati a qualcosa di concreto è un fatto costitutivo dell'esistenza umana e al contempo rappresenta il tratto fondamentale di un'umana presenza" (Habermas).
Tramite la mediazione simbolica, ripresa da Habermas in tutti i suoi lavori dalla fine degli anni settanta in poi, si spezza il rapporto immediato della vita animale con il mondo, e i dati sensibili si possono trasformare in esperienza, vita su cui riflettere, storia sedimentata. L'arte, il linguaggio, il mito, la religione, la conoscenza scientifica, tutto il sapere coopera a "questo processo di distanziamento spirituale". Allora il sapere tradizionale non sarà più, come vorrebbero i nostri laici di professione, qualcosa di residuale, ma una forma simbolica di conoscenza capace di trascendere anche lo specifico ambito di vita della fede, tesi ribadita già nel dibattito con Benedetto XVI.
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