Il passato con il suo peso, con i suoi nodi non risolti continua a riproporsi. Cronaca diventata ormai storia, questioni mai chiuse si ripresentano in nuove sembianze. A distanza di più venticinque anni , il caso "Calabresi-Sofri" costringe una generazione, e non la "meglio gioventù", a fare i conti con la verità. Stefano Borselli e altri, in "Addio a Lotta Continua" (Rubbettino, 2008, pagg. 69, 12€), ripercorre senza sconti la storia di quel periodo, per come un gruppo di ex, compreso il sottoscritto che ha curato anche l'introduzione, l'ha vissuta, senza nessuna pretesa di esemplarità.
Avevo 16 anni quando mi sono iscritto alla Federazione Giovanile Comunista Italiana, nella sezione ospitata nella Casa del Popolo "Il Progresso" a Firenze, dove il mio amatissimo nonno, sindacalista socialista, mi portava da piccino. Ma il vestito che mi ero scelto mi stava stretto. Era il 1970, il Sessantotto lo avevo visto dal "basso", la politica era ancora il mondo dei grandi: forse ora nessuno ne ha più memoria, ma allora gli adolescenti portavano i pantaloni corti, all'inglese con i bottoni di lato. Ricordo però che mi fecero impressione le cariche della polizia sul corteo di studenti in piazza San Marco, davanti al Rettorato; io ero là con un poster di Che Guevara, comprato per mia cugina più grande, arrotolato sotto il braccio.
Ero comunista? Non lo so. Crescere, ribellarsi contro i genitori, leggere "Lettera ad una professoressa", andare in parrocchia, i discorsi sui poveri, sulla chiesa post conciliare… Ecco senz'altro posso dire che se non ero comunista, ero cattolico, addirittura boy scout (quanto mi sono divertito!), e che quell'adesione mi sembrava lo sbocco naturale a tutti i discorsi che risuonavano nelle riunioni – c'è qualcuno che si ricorda la parola "adunanza"? Si parlava tanto, ore di discussione sul Vangelo, i preti operai, stare dalla parte degli umili… E tutti, ma proprio tutti, dicevano a Firenze queste frasi, anche i liberali. Ad un certo punto, questo lo ricordo bene, mi sembrò necessario concretizzare tutte quelle parole. Ero fissato con la coerenza di vita, e così mi ritrovai improvvisamente nel mondo della politica, nell'universo degli adulti. Insomma avevo fatto il salto, ero cresciuto. Da quel momento in poi la mia ribellione contro i genitori riceveva una benedizione dall'alto, dai cieli dell'ideologia; non ero più un ragazzino sedicenne che si divincolava per affermarsi, ma un giovane comunista che lottava contro il capitalismo! A quel punto il danno era fatto. Dopo l'adesione alla FGCI, un anno più tardi, venne Lotta Continua, una ventata di freschezza, di novità in confronto alla struttura organizzata del PCI.
Ero comunista? Non lo so, aderii a LC perché era veramente un'altra cosa rispetto anche al PCI; finalmente mi ritrovavo tra persone come me, con i miei stessi entusiasmi, la voglia di cambiare il mondo (ora dico, con la voglia di affermarsi nella vita cercando anche qualche scorciatoia), e il chiodo fisso della coerenza.
Il resto è noto, fa parte della storia nazionale. Mi sarei ripreso solo nel 1978. Nove lunghissimi anni di militanza rivoluzionaria segnati da una sensazione di durata che speravo non si dovesse ripetere mai più nella mia vita (e che invece doveva riproporsi poco dopo in uno strazio infinito al capezzale della mamma, scoprendo all'improvviso l'importanza della vita e la verità delle parole di Baget Bozzo: "la politica serve solo a contenere il male, a impedire che dilaghi nel mondo", non a cambiare la società!). L'intensità rivoluzionaria infatti è figlia della nevrosi, dell'adrenalina, della paura del vuoto, dell'orrore della noia; che ne sapevamo noi rivoluzionari – uniti nell'eccezionalità dell'esperienza eroica con i giovani avanguardisti di tutti i tempi - dell'eroismo quotidiano di guadagnarsi la vita onestamente ? Tutte le tappe rimandate, tutti gli appuntamenti evitati si sono presentati più tardi con gli interessi. Trovare la normalità non è stato facile. "Non c'era nessuna autodifesa, nessuna provocazione, c'era solo una rabbia spettrale, ideale… fredda, in quegli attacchi ritualizzati". Se c'è una categoria che spiega bene quei fenomeni è quella dell' assenza. "Manca la politica, manca la cultura, mancano le motivazioni… rimane una 'semplice' esplosione di ormoni… Quegli anni vanno restituiti al loro nulla".
Ero stato comunista? A questo punto, direi di sì. Avevo letto migliaia di pagine di Marx, Lenin, Rosa Luxemburg, Lukacs, Adorno, Horkheimer, Mao… Ora sapevo che cosa era il comunismo, il marxismo in tutte le sue varianti, da Gramsci a Bordiga.
Da un'esperienza simile si può uscire in molti modi . Ma dalle esperienze totalizzanti che fondono vita privata e attività sociale in un tutt'uno indistinto, in una militanza assoluta che richiedeva una dedizione senza freni, una strada seppur difficile è quella che richiede, a ciascuno secondo le sue possibilità, un doppio percorso, una elaborazione politica ed una auto analisi al limite del la terapia. Strada difficile, dolorosa e lunga, ma non ci sarebbe stata una letteratura tanto abbondante sull' "addio al comunismo" se così non fosse stato. Certo, qualcuno poteva buttare via tutta quella dannata esperienza con una scrollata di spalle, ma il prezzo sarebbe stato altissimo: "Non sono mai stato comunista" è una refrain che si sente spesso nella bocca degli ex PCI a partire da Veltroni, il leader del vuoto politicamente corretto. Oppure, l'opposto della leggerezza irresponsabile: il peso politico sulla scena italiana del nodo non risolto di chi non ha fatto i conti con il Crollo del Muro, la continuità del comunismo dopo la sua morte, il veleno rappresentato dalla presenza dei comunisti sopravvissuti indenni al 1989.
A noi reduci, storditi dai nostri errori, per riaversi furono necessari una serie di eventi dolorosi , vere e proprie rotture per l'intero nostro paese, che spesso significarono lutti per molti. La critica delle armi, della violenza nella lotta politica fu il grimaldello per la critica al comunismo. In "Addio a Lotta Continua" , Stefano Borselli racconta della necessità, del dovere morale ma passo politico fondamentale per riacquistare diritto di parola, di fare i conti con quell'esperienza segnata dalla adesione ad un'ideologia, e perfino pratica, di violenza. Violenza immorale e inefficace; mezzo bestiale che distrugge il mondo, tanto più disastroso in quanto peggiora la società. Lo schifo diventa insopportabile se scopriamo l'inutilità, la gratuità dell'atto. Avevo sperato nella sua necessità, nell'essere in guerra, ma non era vero. La guerra non esisteva, non c'era nessun fronte, nessuna trincea. La mamma mi svegliava la mattina, andavo a scuola o all'università, mio babbo tornava alle due dall'ufficio, c'era il torneo di calcio in piazza, andavo ad arrampicare sulle Apuane. Ma anche, passavo la giornata davanti alle fabbriche, in sede, facevo tardissimo la sera in fumose riunione, giravo in macchina o in lambretta a cercare inesistenti fascisti armati, a controllare movimenti di truppe che se ci fossero stati ci avrebbero spazzati via con un soffio. Ma noi non volevamo vedere la realtà, vedevamo il fascismo in Fanfani! In quel centrosinistra che aveva mandato i figli degli operai, dei contadini, della piccola borghesia per la prima volta al Liceo Classico. (Quando sento, anch'ora adesso, le accuse contro la prima repubblica corrotta, partitocratica, con al centro un sistema di potere a metà strada tra il clientelare e il mafioso, mi viene il volta stomaco. Penso allora a mio padre, anticomunista naturale socialdemocratico di ferro, che aveva fatto la resistenza con Badoglio, che faceva due lavori per mandare i figli all'Università, che andava al cinema una volta all'anno, e mi domando in che storia vivano i moralisti di professione).
Nella vita reale, nella società vera degli anni settanta non c'era nessuna centralità operaia, nessuna maggioranza di sinistra, nessuna rivoluzione in atto. Non solo! Se ci fosse stata, ecco la seconda scoperta, sarebbe stata peggiore di quella esistente. Ma addio al comunismo vuol dire riconoscere di essere persone uguali alle altre, non certo superiori a nessuno. Se le proprie azioni passate non si possono rinnegare, possiamo però sentirne il peso o anche la colpa. Chi c'eralo sa, nel profondo del suo cuore, di cosa siamo stati capaci, Borselli lo ripete tante volte.
All'inizio degli anni ottanta, Craxi segnò un epoca: libertà, democrazia, fine dell'asfissiante blocco catto comunista, un progetto per l'Italia, autonomia dal comunismo. E poi lo slancio teorico con coniugazione di meriti e bisogni, la scoperta dei filosofi americani Rawls, Nozick, del dibattito sulla razionalità delle scelte pubbliche, dell'economia del benessere, della tradizione riformista internazionale. Per chi era abituato all'ideologia, entrare nel mondo teorico del laboratorio del pensiero riformista, fu una scoperta liberatoria. E poi nel nostro cammino non si era soli: anche il marxista Colletti, uno dei nostri punti di riferimento, era uscito da quella chiesa sbattendo la porta.
Nemmeno oggi a distanza di trenta anni il riformismo di matrice socialista è qualcosa di scontato. Attenzione: non il PSI, ma solo Craxi seppe coniugare un progetto politico per quel pensiero liberale e riformista e infatti i nipoti di quella tradizione segnano le migliori politiche dell'attuale governo Berlusconi. I più accorti di noi sul piano teorico, ma non politico (mi riferisco alla scelta di aderire ai Verdi), si resero conto che alla soglia del XXI secolo vi erano anche altre sfide, la bio politica era lì con tutte le minacce ad una concezione tradizionale dell'antropologia, pronta ad offrirsi alle smanie costruttivistiche dei nipotini di Marx. Al di là della scelta di campo contingente, quella elaborazione era destinata a durare e rivelarsi in tutta la sua fertilità: la riscoperta della tradizione, dell'importanza dei vincoli sociali, del senso del limite come meta categoria antropologica, naturale e sociale.
In mezzo a questa riflessione faticosa, appassionata, tutta dentro la storia d'Italia, che riusciva a parlare con gli ex fascisti – Tarchi, Croppi, Veneziani ecc.- imparando anche dalla storia degli altri, e trovando terreni comuni nella critica alla modernità, arriva il ciclone tangentopoli. C'era da impazzire. Il partito comunista, finanziato da Mosca, che veniva fuori da un fallimento epocale come il crollo della sua ragion d'essere, adesso si ergeva a paladino della legalità e moralità pubblica! Non c'è da stupirsi se in fondo al viaggio si sia visto nella discesa in campo di Berlusconi l'aprirsi di uno spiraglio alla libertà.
In fondo, la differenza tra chi ha percorso questa strada e la maggioranza che proviene dal PCI è tutta qui, tra chi ha detto addio al comunismo con il muro ancora in piedi facendo i conti prima di tutto con se stessi e poi anche sul piano della teoria politica, e chi invece ancora si rifiuta di guardare alla propria storia, che ancora crede nella propria superiorità morale e antropologica. Non è un caso allora che nella battaglia politica odierna, il moralismo abbia il sopravvento sull'argomentazione, la diffamazione sia moneta corrente e la logica di guerra, con quella celebre dicotomia amico-nemico, tolga spazio al civile confronto delle idee. Alla fine della parabola, passata con lo scorrere degli anni anche le l'importanza delle genesi delle storie individuali, rimane proprio questa millantata diversità antropologica a segnare la differenza, a far dire che "il comunismo è morto ma non i comunisti". Il punto di partenza è sempre quello della doppia moralità, che a tutt'oggi sopravvive. "Una delle contraddizioni di ogni 'rivoluzionario di professione' come li chiama Camus nell'Uomo in rivolta' (è) quella di essere o credersi sostanzialmente un pacifista, perché il suo uso della violenza, anche se compie delle azioni atroci, è giustificato dal fatto che lo fa perché costretto e solo per liberare il mondo dalle guerre volute dalla borghesia per difendere i suoi interessi".