venerdì 29 maggio 2009

notiziario internazionle, n°4, 23 maggio 2009

Notiziario internazionale, n° 4, 23 maggio 2009

USA
Tocchiamo in questo numero una questione imbarazzante: può una nazione legalizzare in alcuni casi l’uso della tortura?
Come sapete, in questi giorni a lungo si è discusso molto sulla legittimità delle decisioni prese dalla passata amministrazione Bush sull’utilizzo di mezzi di interrogatorio non ortodossi contro i terroristi. E sui media abbiamo anche letto le ondivaghe posizioni di Obama.
Ecco invece la difesa, portata avanti dall’ex vice presidente di Bush, Richard Cheney, dei metodi restrittivi della libertà in un forte discorso tenuto all’American Enterprise Insitute. “Il primo compito della presidenza all’indomani dell’11 settembre era di impedire il prossimo attacco di Al Qaida. Sapevamo che in giro c’erano bombe nucleari, abbiamo visto l’uso di antrace. Ebbene abbiamo fermato Bin Laden, difeso il paese, ricostruito il potenziale di deterrenza degli Stati Uniti, sviluppato una strategia comprensiva. Ci siamo mossi contro i paesi sponsor dei terroristi, attaccato i loro santuari.” Questa l’orgogliosa rivendicazione delle scelte fatte dall’amministrazione Bush. (Per capire bene lo spirito dell’epoca, che forse ci siamo dimenticati, si possono vedere queste slide sulla caduta di Saddam con cui Runsfeld presentò un briefing alla Casa Bianca. Sono piene di riferimenti testamentari; prendiamole con beneficio di inventario, non so se siano una “sola”, ma la fonte non è male).
A complicare i fatti, vi è la questione se sia possibile definire “tortura” metodi non ortodossi come la privazione del sonno e altre tecniche che violano i diritti della persona. Il problema può essere affrontato da più punti di vista che spesso si intrecciano: morale (è possibile giustificare la tortura?), giuridico (è legale?) e di efficacia (funziona?). In primo piano la posizione di Krauthammer, commentatore conservatore che dalle colonne del Washington Post afferma che “la tortura è un male che non può essere permesso. Eccetto che in due circostanze. La prima è se c’è una bomba ad orologeria che sta per esplodere. E in gioco ci sono le vite di innocenti… E abbiamo tra le mani il responsabile….Il secondo caso (più ambiguo, ndr) se sappiamo che i terroristi colpiranno ma non sappiamo né come né dove”. La contro obiezione è che non solo la tortura è immorale, illegale, ma anche non funziona perché chi si trova sottoposto a simili metodi è disposto, pur di uscire da quella situazione, a dichiarare tutto quello che i suoi “intervistatori” vogliono che dica. Un’altra testimonianza sulla non efficacia dell’impiego di metodi non ortodossi d’interrogatorio, se non proprio torture, l’abbiamo da un ufficiale dell’FBI in audizione al senato americano che ha testimoniato come l’utilizzo di questi strumenti provochi risultati opposti: la fine delle confessioni (in guerra, l’uso di metodi barbari provoca nel nemico la resistenza ad oltranza).
Comunque sia, tre considerazioni: aveva ragione il vecchio colonnello inglese Thompson che in Malesia aveva sconfitto la rivolta cinese e comunista negli anni cinquanta. Uno stato democratico non può violare la legge, altrimenti diventa, non solo da un punto di vista morale, uguale ai nemici, cioè si trasforma in parte settaria in causa e quindi trasforma il conflitto in una guerra civile tra partiti opposti. La seconda, anche nelle democrazie, la sensibilità morale cambia con le circostanze, non è cioè così inflessibile. Nei casi di minaccia alla sopravvivenza il limite della decenza viene spostato in alto, e di parecchio(si vedano l’uso dei bombardamenti a tappeto nella seconda guerra mondiale). Negli altri casidi impiego di metodi barbari, nei casi cioè di repressione o di contro insorgenza, vi sono anche due effetti boomerang. Possono infatti sorgere, come dimostra l’Algeria e il Vietnam, movimenti di protesta contro la leadership al governo e una caduta vertiginosa di efficienza e del morale tra le truppe impiegate.

Israele-Palestina-Iran-Stati Uniti
La prima pagina è conquistata inevitabilmente dalla visita di Netanyau a Obama il 18 maggio e dai colloqui intercorsi riguardo alla questione della crisi Medio Orientale. In cima all’agenda le due questioni della ripresa dei colloqui di pace con i palestinesi intorno alla proposta “due popoli, due stati” e della corsa verso il possesso dell’arma nucleare da parte dell’Iran. Le due crisi per gli americani sono collegate tra loro. Nella logica di Israele, Theran invece viene in cima alle preoccupazioni, mentre Obama ha parlato espressamente della priorità nella ripresa dei colloqui tra palestinesi e israeliani. Due modi opposti di cogliere la situazione.
Per capire la differenza delle prospettive, cominciamo da questa seconda minaccia. L’Iran ha lanciato il 19 maggio un nuovo tipo di missile a due stadi con un raggio d’azione di 1.200 Km che utilizza propellente solido. Quindi può essere trasportato e nascosto facilmente e anche dotato di armi nucleari. Secondo un alto ufficiale israeliano, Michael Herzog, la stima attuale è che l’Iran possegga 1000 chilogrammi di uranio arricchito, che sono circa i due terzi di quelli necessari per avere la prima bomba nucleare, e nel 2011 al massimo riuscirà a dotarsi della famigerata bomba (secondo esperti americani e russi, l’Iran raggiungerà lo scopo invece solo tra 10 anni).
Non solo, la corsa agli armamenti tradizionali del paese continua. La Guardia rivoluzionaria iraniana ha iniziato il dispiegamento di missili mobili terra-aria e terra-acqua nello stretto di Hormuz, per rafforzare le difese contro l’eventualità di un attacco al paese. Sempre il Jerusalem Post rivela che Teheran, scettica sulle reali intenzioni d’aiuto di Mosca, si sarebbe rivolta alla Cina per l’acquisto di un sistema di difesa aereo, l’HongQi-9. E ancora, l’Iran potrebbe essere in grado di disporre entro la prossima decade di 500 rampe missilistiche e di 1000 missili, necessari a superare le barriere difensive antimissile di Israele, secondo l’opinione di Tal Inbar, capo del Space Research Center at the Fisher Brothers Institute a Herzliya.
E’ del tutto logico comprendere allora i timori e le attenzioni di Israele verso un nemico regionale che non fa niente per nascondere le sue minacce. Da qui l’attivismo del Mossad; questo il calendario delle azioni intraprese dai servizi segreti, opportunamente ristrutturati, di Tel Aviv. Il 12 luglio 2006, l’aviaizone israeliana ha distrutto quasi l’intero stock di missili a lungo raggio nascosto dagli Hezbollah libanesi in bunker sotterranei. Nel luglio 2007, un altro incidente misterioso è successo ad una fabbrica di missili allocata tra la Siria e l’Iran. Nel 2007, Israele distrusse un reattore nucleare costruito dalla Siria con l’aiuto della Corea del Nord: le foto sia del bombardamento che del sito furono distribuite dalla CIA per convincere gli scettici sulle reali intenzioni dei siriani. Nel febbraio 2008, il leader militare degli Hezbollah, Imad Mughniyah, fu ucciso a Damasco. In agosto dello stesso anno, il generale Mohammed Suliman, ufficiale di collegamento con Hamas e gli Hezbollah e attivo partecipante ai progetti siriani di sviluppo del nucleare, fu assassinato da un cecchino. Nel dicembre 2008, durante l’operazione Cast Lead, piombo fuso a Gaza, furono distrutti molti missili; Israele sapeva anche dove si nascondesse il leader di Hamas, ma Olmert rifiutò di autorizzare un’azione aerea a causa del nascondiglio prescelto: un ospedale. Nel gennaio di quest’anno, i droni israeliani hanno distrutto tre convogli in Sudan che provavano a contrabbandare armi dall’Iran alla striscia di Gaza.
La priorità di Israele si basa su una certezza, ben motivata come si è visto, e un’ opportunità: l’Iran (sciita e persiano) vuole dotarsi di un’ arma nucleare che è disposto ad usare contro Israele ma anche usarla come minaccia contro gli altri paesi arabo sunniti (in prima fila Egitto e Arabia), come ha ribadito Netanyahu all ‘American Israel Public Affairs Committee. "Oggi sta succedendo qualcosa in Medio Oriente e posso dire che per la prima volta nella mia vita credo che arabi e ebrei vedano lo stesso nemico”. Il possesso da parte dell’Iran della bomba nucleare altererebbe tutti gli equilibri nella regione, facendo diventare Teheran una potenza regionale capace di determinare l’intera area. Ma come avverte l’autore dell’articolo su Foreign Affairs, le alleanze in medio Oriente sono temporanee e ai fidanzamenti non consegue il matrimonio.
Per usare una metafora, due orologi stanno andando: il primo è quello della corse al nucleare dell’Iran, l’altro della soluzione al problema palestinese. Mentre il primo è in movimento, il secondo è sempre fermo, in una situazione di stallo; allora secondo Israele è sulla minaccia vitale, su Tehran che devono essere concentrati gli sforzi.
Se qualcuno, infatti, credesse che lo stato del governo in Cisgiordania sia vicino ad un entità statuale con qualche parvenza di efficienza e di stato di diritto, si legga questo articolo del New York Times sull’AP la cui ossatura è sempre quella della vecchia organizzazione di Arafat. “Al Fatah ha la trasparenza organizzativa di una repubblica sovietica…. “ Non ha portato avanti nessuna auto-riforma nè dopo la morte del suo leader, nè dopo la vittoria di Hamas. “Il movimento è stato paralizzato da faide personali e da crisi crescenti d’identità“; Al Fatah “è così internamente indeciso che non capace nè di negoziare nè di governare”.
E’ questa anche l’idea dell’editorialista del Washington Post, “I palestinesi non sono capaci di autogoverno”. L’espressione “due popoli due stati”, che ormai ha trovato casa a Washington e nelle cancellerie europee, è un clichè stanco che non descrive la realtà: i palestinesi si sono dimostrati incapaci di auto governarsi, di costruirsi un embrione di stato: non si può confondere una cleptocrazia come l’Ap o un’organizzazione terroristica come Hamas per qualcosa che assomigli ad uno stato.
Non essendoci però altre soluzioni disponibili sul mercato della politica, se non in quello della teoria, un sondaggio di fonte israeliana ci dice che la maggioranza degli israeliani, il 56% degli ebrei e il 78% di quella araba, è favorevole alla soluzione dei due stati, mentre a favore dell’attuale situazione vi è il 28% degli ebrei e l’8% degli arabi.
Ma Obama ha in mente di superare l’ostacolo trattando un accordo non con i diretti interessati, Israele e AP, ma con un panel internazionale formato dagli stati arabi, la Russia, l’Unione Europea. Il concetto di fondo è che i due soggetti interessati, se lasciati soli, siano incapaci di raggiungere accordi di pace. Rimane da chiosare che un conto è firmare un accordo, un altro mantervi fede come la storia del processo di pace iniziato ad Oslo dimostra.
Per un’opinione completamente divergente da quella israeliana, si legga l’intervista a Lawrence Korb, già assistente al segretario della difesa USA dal 1981 al 1985. Alla domanda se ritenesse la minaccia iraniana uguale a quella portata da Hitler e dalla Germania nazista, risponde: “Quando Hitler causò la Seconda Guerra mondiale e scatenò l’Olocausto, la Germania aveva il terzo prodotto interno lordo del mondo ed era la forza militare più capace del pianeta. In più, Hitler aveva per alleati potenze come l’Unione Sovietica e il Giappone. L’Iran in confronto è una piccola nazione, con enormi problemi economici, un esercito mediocre e nessun altro alleato tra le altre nazioni. Per di più, l’Iran è circondato da 200.000 soldati americani ai confini orientali e occidentali”. Alla domanda successiva, “Da credito alle minacce di eliminazione d’Israele che provengono dai leader iraniani?”, risponde: “Per due ragioni non ci credo. La prima, la più seria, viene dal presidente iraniano che non detiene il potere effettivo. La seconda, non vi è nessuna possibilità che l’Iran possa eliminare Israele senza che venga distrutto durante il processo di acquisizione nucleare o alla prima azione realmente ostile. Non c’è nessuna possibilità che il primo colpo iraniano con armi nucleari possa eliminare gli ordigni nucleari d’ Israele o degli Stati Uniti”.

Iraq
La strategia vincente usata dagli americani in Iraq, la cosidetta surge opera di uno dei team si strateghi e alti ufficiali americani più eccezionali che si sia visto in guerra, è oggetto di riflessione. La domanda è: quanto sia possibile esportare il “modello Anbar” di alleanze con situazioni locali (estremiste radicali fondamentaliste ma locali) per combattere Al Qaida in altre realtà?.
Sui problemi della ricostruzione in Iraq, abbiamo detto già nell’altro numero del notiziario. Oggi una serie di articoli e documenti non recenti che aiutano a comprendere la complessità difficoltà e impreparazione USA nel compito. Si rimane comunque stupefatti dalla capacità di ripensare a livello ufficiale sull’esperienza anche negativa e a proporre nuove soluzioni: i cambiamenti in corsa non sono cosa per i grandi elefanti burocratici. Leggere per credere questo report, dal titolo eloquente “Hard Lesson” (dura lezione) dell’ “Ispettorato generale per la ricostruzione dell’Iraq”. Il punto di osservazione è sempre lo stesso: il rispetto del cittadino, il rispetto dei soldi del contribuente. Perché pur spendendo la cifra enorme di 50 miliardi di dollari alcune cose hanno funzionato e altre no? (non si potrebbe applicare lo stesso metodo ai fiumi di denaro spesi in Italia per lo sviluppo delle nostre aree depresse? Nell’interminabile questione meridionale?)
Ancora buone notizie dall’Iraq. La corte federale ha fissato la data, il 30 gennaio 2010, per le prossime elezioni politiche, le terza dalla caduta di Saddam; ora la parola passa al parlamento che deve ratificarla e stanziare i fondi necessari.

Afghanistan
Una notizia tragica e preoccupante dall’Afghanistan: i Talebani avrebbero condotto un attacco ad una scuola femminile usando gas velenosi e intossicando ben 90 ragazzine nel villaggio di Mahmud Raqi. Sono ripresi inoltre i colloqui “segreti” tra governo legittimo e talebani “buoni”.

Sri Lanka
In Sri Lanka sembra finita la guerra ai Tamil. Un filmato che mischia balli e canti di sollievo alla disperazione dei profughi.

Curiosità
Per finire, un diversivo storico. Un saggio sul grande statista Winston Churchill: “Winston Churchill's Constitutionalism: A Critique of Socialism in America” di Justin D. Lyons.
Ecco una bella citazione contro il pragmatismo tratta dalla monumentale: “Storia della Seconda guerra mondiale”: “Quelli (gli uomini politici, ndr.) che possiedono un corpo dottrinario definito e convinzioni ben radicate sono in una posizione migliore nell’affrontare i cambiamenti e le sorprese che comportano gli affari quotidiani in confronto a coloro che hanno una visione corta e che sono succubi dei loro impulsi naturali suffragati da letture del giorno per giorno”.

Nessun commento:

Posta un commento