venerdì 29 maggio 2009

Articolo Domenicale sabato 23 maggio

Leonardo Tirabassi, 19 maggio 2009, “Israel e la proposta Two state solution”.

Nell’ultimo discorso nella terra di David, Papa Ratzinger ha messo l’accento su argomenti politici centrali per raggiungere la pace nella crisi medio orientale per eccellenza. Benedetto, quasi sull’aereo che lo avrebbe riportato a Roma, ha indicato in modo netto anche la strada. “Che la two-State solution divenga realtà e non rimanga un sogno”; una soluzione che finalmente sia in grado di confermare “il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti ad Israele” e riconosca “che il popolo palestinese ha il diritto a una patria indipendente, sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente”.
Le chiare parole del Pontefice vanno ad aggiungersi, rafforzandole, a quelle di Obama che della soluzione del nodo medio orientale ha fatto una sua prerogativa in politica estera con una visione, comunque la si voglia giudicare, complessiva che tiene unite le singole crisi in un unico disegno. Anche Tony Blair, rappresentante del Quartetto –Unione Europea, Stati Uniti, Russia e Nazioni Unite- aveva affermato in modo forte e netto la stessa soluzione in una audizione davanti alla commissione esteri del Senato americano il 18 maggio scorso, in preparazione della visita di Netanyau a Obama . “Non vi è nessuna altra iniziativa che possa funzionare oltre la soluzione dei due stati. Politica, geografia e demografia, tutto va in quella direzione”.
Nessuno mette in discussione questa alternativa e sul banco dei cattivi rimane solo Israele con le durezze del suo capo del governo. Allora è importante capire le possibilità diverse da quella dei “due stati” e i motivi addotti, se non altro per avere un quadro completo della situazione; elementi di analisi che ci possono offrire qualche spunto in più per comprendere il naufragio del processo di pace iniziato a Oslo nel 1993, in un'altro secolo quindi con Arafat in vita e Al Qaida che era una parola che non diceva niente a nessuno. “Terra in cambio di pace,” era l’altra parola d’ordine, architrave di ogni possibilità di accordo, questa era la strada delineata. Aveva funzionato con l’Egitto, Sadat a Gerusalemme e il Sinai restituito il 26 marzo del 1979. La speranza è che lo stesso meccanismo funzionasse con i palestinesi, ma così non è stato fino ad arrivare alla politica israeliana dei ritiri unilaterali. Per capire Nethanyau, bisogna tener presente che ad opporsi alla soluzione dei “due popoli, due stati” vi fu in prima fila Arafat, l’intransigenza dell’ OLP con il sogno di un unico stato palestinese, la non volontà di riconoscere veramente il diritto ad esistere d’Israele, tutti fattori che fecero naufragare, nella dirittura d’arrivo, il processo di pace iniziato ad Oslo.
Ora la situazione rimane sempre più difficile con dinamiche nuove, in primo luogo, che si aggiungono ai vecchi problemi. Innanzitutto la delusione israeliana seguita a quel fallimento e poi la questione demografica, vera e propria bomba. In Israele vivono 5,4 milioni di ebrei e 1,3 milioni di arabi a cui vanno aggiunti 3-3,8 milioni (non si sa con certezza) di arabi che vivono in Cisgiordania e nella striscia di Gaza. In capo ad un decennio tra il Giordano e il Mediterraneo ci saranno più arabi che ebrei: il geografo Arnon Sofer sostiene che nel 2020 la popolazione raggiungerà i 15,5 milioni di individui, con 15,5 milioni di ebrei e 8,8 milioni di arabi. Il tasso di nascita arabo palestinese è uno dei più alti del mondo, più del 3 per cento l’anno con punte del 5 per cento tra le popolazioni beduine che vivono nel sud di Israele, contro l’1,5 per cento di quello israeliano. Se Israele vuole rimanere uno stato ebraico e democratico, ecco la prima tesi alternativa dello storico Tony Judt (“Israel. The Alternative”, The New Review of Books, 23 ottobre 2003), l’unica soluzione è la creazione di un “singolo stato binazionale integrato di ebrei e arabi, israeliani e palestinesi”, fatto “sempre più probabile…e esito…desiderabile”. Quindi si avrebbe uno stato a maggioranza araba con una minoranza ebraica, ipotesi già presa in esame dalla commissione Peel nel 1937.
Tesi falsamente realista. L’obiezione è presto detta: lo stato unico non sarebbe composto da due popolazioni con uguali diritti, ma da una maggioranza araba che prenderebbe ben presto il sopravvento, cosicché la minoranza ebrea inizierebbe ad emigrare e si difenderebbe tenacemente, innestando, di nuovo, un ciclo di violenze inenarrabile. In pratica, non si capisce perché Israele dovrebbe accettare una soluzione suicida.
Un’altra ipotesi parte da tre considerazioni incontestabili. La soluzione della spartizione è impraticabile per ragioni economiche e geografiche: come può un unico stato palestinese essere formato da due entità separate da un altro stato? Come può la micro entità di Gaza stare unita alla Cisgiordania? Per non parlare delle difficoltà economiche e infatti simili esperimenti, si ricordi il Pakistan e la secessione del Bangladesh, sono naufragati miseramente. L’altra considerazione, altrettanto forte, è di natura politica. Innanzitutto, i palestinesi sono divisi in due fazioni nemiche giurate, l’Autorità Palestinese e Hamas, che hanno obiettivi e governano territori diversi. Con chi possono essere portati avanti le trattative? E avrebbe senso politico condurre i colloqui con l’AP, ma non con gli estremisti filo iraniani di Hamas che sognano la distruzione dell’entità sionista? In terzo luogo, come afferma il politologo di Tel Aviv Efraim Inbar (in “The Rise and Demise of Two State Paradigm”, Orbis 2009), fino ad oggi i palestinesi si sono dimostrati incapaci di esprimere una dirigenza in grado di governare con responsabilità il proprio popolo. La corruzione è alle stelle; né a Gaza, né in Cisgiordania vi è qualcosa di simile al monopolio della violenza da parte delle entità statali: clan, milizie, delinquenza organizzata esercitano a vario titolo il loro potere. La democrazia, lo stato di diritto, il rispetto delle minoranze sono parole vuote, retoriche, osteggiate apertamente (è sufficiente guardare alla condizione dei cristiani in quelle zone). La fornitura di servizi essenziali alla popolazione, nonostante i miliardi di euro e dollari versati ogni anno nelle casse – sarebbe meglio dire: nelle tasche -dei vari governanti palestinesi, è ridotta al lumicino. Niente quindi rende credibile la proposta dei due stati.
Riamane sul campo un’altra soluzione, far sì che i paesi arabi si facciano carico del problema palestinese, che si arrivi ad una federazione tra territori palestinesi e stati confinanti: Egitto, a cui apparteneva la striscia di Gaza, e Giordania, dove i palestinesi costituiscono il 70 per cento della popolazione e in cui vivono 800.000 profughi.
Nel frattempo, in attesa di qualsiasi soluzione di pace, Israele prende tempo, gestisce senza speranza la crisi, ricostruisce il suo potenziale di deterrenza, come dimostra l’azione nel dicembre del 2008 a Gaza.

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