giovedì 21 maggio 2009

Note internazionali n° 4, 16 maggio 2009

Israele
Continua l’iniziativa di Obama verso la ricerca di una strada possibile per la pace che passa ancora, sempre secondo la nuova amministrazione, per la formula “due popoli, due stati”. Ma i rapporti con il governo israeliano sembrano non essere più quelle di una volta: “Rappresentanti dell’amministrazione israeliana in Gerusalemme hanno espresso preoccupazioni sul declino brusco delle azioni comuni (con gli USA, ndr.) riguardo ai problemi di sicurezza della regione”. Le cause risiedono anche nelle intenzioni di riprendere i colloqui con l’Iran. Efraim Halevy, direttore del Shasha Center for Strategic Studies alla Università Ebraica di Gerusalemme nonchè ex direttore del Mossad (1998-2002), in un’intervista rilasciata al Middle East Bulletin ha dichiarato saggiamente: “Penso che Israele dovrebbe chiarire a chi sta intraprendendo i colloqui con l’Iran, e prima di tutti gli Stati Uniti, che non interferirà nel dialogo se gli interessi israeliani sono riconosciuti e protetti…Il mondo si deve confrontare con tre sfide poste dagli iraniani: prevenire il nucleare, gestire l’orgoglio nazionale di Theran collegato a possedere uranio arricchito e trovare una soluzione regionale che coinvolga tutti gli altri paesi”.
Gli sforzi di Obama sono seguiti con attenzione e partecipazione dagli esperti americani e medio orientali; qui la posizione di un numero nutrito di ambasciatori americani a favore della ripresa dell’iniziativa in Medio Oriente: ecco i cinque obiettivi che si devono raggiungere:
“1. La riapertura dei colloqui israelo-palestinesi tramite la mediazione americana;
2. la fine degli attacchi terroristici a Israele e del contrabbando di armi a Gaza e un aumento delle forze di sicurezza addestrate daglli americani nella West Bank;
3. il congelamento della costruzione degli insediamenti in Cisgiordania, lo smantellamento dei checkpoints superflui e degli insediamenti illegali, la cessazione delle case palestinesi a Gerusalemme est;
4. l’immediata riscostruzione di Gaza con al centro i bisogni civili e dell’economia locale;
5. il raggiungimento della pace tra Israele e i paesi vicini (Libano e Siria, ndr.) attraverso l’Iniziadtiva di Pace Araba come base dei negoziati.”
Il 7 maggio il generalle Keith Dayton ha tenuto una conferenza in occasione del The Washington Institute's 2009 Soref Symposium. Il Generale Dayton ha un ruolo delicato e importante, e sconosciuto, di coordinatore statunitense tra Israele e l’Autorità Palestinese a partire dal 2005. Nella situazione attuale egli vede un’ opportunità e una sfida. Ecco i principi che hanno diretto il suo lavoro: “Primo, credo fermamente che sia negli interessi della sicurezza nazionale degli Stati Uniti aiutare a risolvere il conflitto israelo palestinese. Secondo,... credo fermamente nella soluzione dei due stati... Il terzo principio – che ripeto tutte le volte ai miei amici israeliani – i legami tra gli Stati Uniti e Israele sono possono essere rotti oggi, nè domani, nè mai...”
Sulla situazione dei rapporti israelo palestinese, Tony Blair, rappresentante del “Quartetto” ha parlato alla Commissioni esteri del Senato Americano il 14 maggio. Il suo discorso è stato estremamente chiaro e sintetico. “Non vi è nessuna alternativa alla soluzione dei due stati…La cosidetta iniziativa araba di pace, lanciata nel 2002 al summit di Beirut della Lega Araba da re Abdullah dell’Arabia Saudita e ripresa nel 2007 nel summit di Riyadh, è un passo in avanti…Il problema è ridare credibilità a questo processo…Israele non è d’accordo con la creazione di uno stato palestinese fino a quando non sarà sicuro della natura (pacifica, ndr,) dello stato… i palestinesi saranno disponibili ad un accordo quando avranno il pieno controllo e governeranno effettivamente…Per raggiungere questo obiettivo è necessario affrontare tre questioni: vi deve essere un chiaro e credibile negoziato politico per la soluzione dei due stati…Secondo, deve essere data ai palestinesi la capacità di governare il proprio territorio…Le preoccupazioni alla sicurezza dello stato di Israele devono essere calmate… attraverso una riforma del settore sicurezza palestinese e ripristinare lo stato di diritto nel nuovo stato”.
Audizione di Blair al senato americano sul Medio Oriente
L’amministrazione Obama è anche però criticata perchè vista come distratta dagli affari pakistani e afghna, fattore che permetterebbe il progresso dell’ingerenza iraniana in tutta la regione e la rigidità di Nethanyau.
Tra le molte sfide che Israele deve affrontare è chiaro che quella esiziale è rappresentata dal possesso del nucleare dell’Iran che stimola la sensibilità e la memoria israeliana con le continue minacce o di distruizone o negazioniste.”La strada diplomatica rimane l’approccio preferito – nel rapporto “Israel and a Nuclear Iran: Implications for Arms Control, Deterrence, and Defense” dell’ importante thik thank israeliano Institute for National Security Studies -. Comunque, l’esperienza indica che i negoziati da soli non persuaderanno l’Iran a fermare il suo programma fino a che agli occhi degli iraniani il possesso di armi nucleari è il supremo obiettivo”

Afghanistan
Nella partita a scacchi con la Russia, ora i rapporti sembra che tendano al sereno vista la volontà da parte di Mosca far passare i rifornimenti USA dal suo territorio. “La Russia è pronta per la cooperazione sulla questione”, ha confermato il portavoce del Ministro degli Esteri Andrei Nesterenko.

Pakistan
Nella guerra al terrorismo, è il Pakistan ora nell’occhio del ciclone. In un reportage del Times, una nuova immagine incoraggiante: in molte madrasse del Punjab e delle Province della cosidetta North West Frontier non è inusuale sentire le parole di condanna dei mullah sunniti: “I talebani sono il male, per questo noi appoggiamo il nostro governo e il suo (si noti la distanza, ndr.) diritto a distruggere i talebani”. E questa è la convinzione anche del generale Petraeus: “La leadsership pakistana è unita nell’opposizione all’occupazione talebane della valle dello Swat (ad un centinaio di chilometri di distanza da Islamabad, ndr.)” e le recenti operazioni militari contro di loro “sembra che abbiano galvanizzato tutto il Pakistan”.
La debolezza del Pakistan, stato fino a pochi anni fa sconosciuto ai più, è manifesta. “Henry Kissinger una volta si chiese se la Repubblica Islamica dell’Iran era un paese o una causa. Riguardo al Pakistan, la questione è se sia un paese o semplicemente uno spazio… Il mondo si è sempre confrontato con paesi che si identificano con una causa a volte buona a volte cattiva – il nazismo e il comunismo – ma mai con uno spazio”.
Questa guerra, come tutte le guerre moderne, è anche combattuta sui media. Il Council on Foreign Relations afferma “nelle battaglie di comunicazione, i miliziani sembrano avere la meglio. Usano trasmettitori FM, internet e altri media”. E gli Stati Uniti hanno riconosciuto la difficoltà di coordinare le fonti e i messaggi con un risultato non eccellente.
Iraq
La prima visita che il Papa in Giordania ha compiuto è stata ad un centro, diretto da religiosi cristiani, per bambini handicappati. In quell’occasione, sui giornali è apparsa la notizia del trattamento disumano riservato ai disabili in Medio Oriente; a Bagdad gli americani hanno aperto un istituto per la riabilitazione per il numero impressionante di feriti e mutilati, ma sopravviverà quando gli Stati Uniti si ritireranno?
Il fatto positivo è che si parla di ritiro, ma il futuro rimane oscuro e incerto. Stephen Biddle, celebre analista americano, ha prodotto un report per il Center for Preventive Action disegnando diversi scenari, ma la migliore prevenzione contro l’incertezza rimane di rallentare al massimo il ritiro delle truppe, diluendole nel tempo e collegando il rimpatrio ad obiettivi raggiunti di pacificazione.
Intanto, tra mille contraddizioni, continuano come si diceva i progressi sul campo. E’ la volta del Kurdistan che ha raggiunto un accordo di fatto con il governo centrale, che per altro nega, sulla possibilità di potere vendere il petrolio estratto sul proprio territorio. Se questa sia l’anticamera al federalismo o ad una spartizione etnica è presto per dirlo, ma per lo meno si tratta di accordi tra governo centrale e regionale e non di scontri. Il fatto è che però si può vincere la guerra e perdere la pace, grazie anche alle distrazioni americane per cui adesso l’Iraq rischia di diventare la “guerra dimenticata” secondo le parole di Anthony Cordesman. Il pericolo è infatti che il paese corra verso un uscita, ma senza una strategia.
Quello che si può con tranquillità dire è che la discussione negli Stati Uniti è ampia e franca (fino a rischiare l’autolesionismo?) e quindi arrivano notizie, informazioni e storie che aiutano a farci un’idea migliore anche della recente storia. Su Vanity Fair una versione del risveglio sunnita, centro come ormai si sa della lotta contro i talebani: ora si viene a sapere che già nel 2004 i sunniti avevano offerto questa possibilità, ma che i comandi USA non avevano capito…
Sempre sullo stesso argomento della surge, è uscito da un po’ di tempo un libro interessante, anche se superficiale intitolato “The Gamble: General David Petraeus and the American Military Adventure in Iraq, 2006-2008” di Thomas E. Ricks (Penguin Press, 394 pp., $27.95) in una recensione che afferma la stessa tesi della sparizione dalle prime pagine dell’Iraq. “Dalla centralità alla banalità: forse nella storia moderna dell’America nessun altro evento eè passato da una disputa accesa alla dimenticanza così velocemente come la guerra in Iraq. Ricordate la guerra? Ha consumato miliarid di dollari USA, divorato un centinaio di migliaia di vite irachene, sciupato la reputazione di un paese e distrutto una presidenza americana. Dato il ritiro della stampa americana – il primo ritiro dall’Iraq, si può dire – si potrebbe quasi essere scusati, nella primavera del 2009, di dimenticarsi che 140.000 soldati americani stanno ancora combattendo e morendo là”.
Sulle prime fasi dell’occupazione USA dell’Iraq, sulle attività della e della Coalition Provisional Authority e del suo amministratore L. Paul Bremer che governò l’Iraq dal Maggio 2003 al giugno dell’anno seguente, possono essere dette molte cose. Un dato è certo però: la confusione che seguì la caduta di Saddam portò ad una serie di errori incredibili (tra i più eclatanti: lo scioglimento dell’esercito la deebahificazione eccessiva, il mancato passaggio di consegne ad un governo provvisorio iracheno fino ad arrivare a non occuparsi della messa in sicurezza della popolazione). Ora un saggio della Rand Foundation, “Occupying Iraq. A History of the Coalition Provisional Authority” aiuta a comprendere quei fatti.
Questo documento sulla situazione irachena e sui rapporti con gli stati vicini è invece del Senato Americano. Baghdad ha relazioni complicate e difficili con i paesi confinanti con questioni aperte con tutti: con la Siria da dove entrano i guerriglieri sunniti e alqaidisti, con la Turchia per la questione curda e della minoranza turcomanna, con l’Iran per le sue ingerenze a volte ben viste e sempre per le tensioni curde, con l’Arabia che vede nel nuovo Iraq scita la lunga mano degli ayatollah. La porosità dei confini iracheni, da cui transitano migliaia di terroristi, contrabbandieri e trafficanti vari, è sempre stata ed è un cruccio per gli Stati Uniti, problema che può minacciare la stabilità del paese
Per chi volesse approfondire l’analisi dell’Iraq, ecco un documento del Congresso USA sul debito di quel paese e sui meccanismi e procedure attuati per ridurlo, questione non secondaria perché coinvolge in prima persona i vicini poco amichevoli come l’Arabia Saudita.
Arabia Saudita
Il paese hashemita è molto citato e poco conosciuto. Il primo di una serie di documenti porta un titolo inquietante, ma centrato su di un tema oggettivamente vero: "Forum Relazioni America Arabia in un mondo senza equilibrio” che ha trattato i temi della sicurezza nell’area e dei compiti comuni ai due paesi. Il secondo report, dedicato in realtà all’Iraq, tocca un punto dolente: le relazioni tra Arabia e Iraq non buone a causa del nuovo governo scita di Bagdad cisto da Riyadh come troppo vicino all’Iran.
Sulle difficoltà di relazione con l’Iran, si veda questo documento “Le relazioni iraniano saudite dalla caduta di Saddam. Rivalità, cooperazione e implicazioni per la politica USA” della Rand. I due paesi infatti dal 2003 stanno lottando in modo nemmeno ntanto nascosto sia per l’egemonia del mondo mussulmano da un punto di vista religioso, sia per quella regionale. Dinamiche religiose e statali si intrecciano in un nesso non sempre facile da districare.
Anche le relazioni tra Usa e Arabia sono contraddittorie. Da una parte infatti, la tradizionalista dinastia governa in modo feudale uno dei paesi più ricchi del mondo senza nessun rispetto per i diritti umani e con ampie infiltrazioni terroristiche tra le su fila, dall’altra è un ottimo alleato degli Usa. Dicotomia che pone sempre in tensione il rapporto tra i due paesi. Da qui sempre la ricorrente domanda di quanto gli USA si debbano fidare. C’è da dire che negli ultimi tempi la polizia saudita ha intensificato, con successo, la lotta contro Al Qaida. “Abbiamno ucciso o catturato tutti i combattenti – secondo le parole di un alto ufficiale di polizia - e il resto è andato via in Afghanistan o in Yemen…Quello che rimane qui è solo l’apparato ideologico”.

Libano
In Libano si terranno a breve le elezioni dove si assiste ad un confronto pacifico per una posta in gioco altissima: Hamas al governo. Come in tutti i paesi del mondo, vi sono i sondaggi elettorali, anche veramente la forchetta è talmente ampia da dire poco. Ben più significativa è l’intervista allo sceicco Naim Qassem leader degli Hezbollah: “Credo che prenderemo la maggioranza nelle elezioni parlamentari perché abbiamo un largo supporto e durante quattro anni di opposizione abbiamomavuto il più vasto supporto popolare e queste elezioni lo proveranno”,

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