Articolo su Ragionpolitica venerdì 8 maggio
Il 23 aprile scorso, l’esperto di contro insorgenza internazionale, il consulente di Petraeus nonché autore del libro appena pubblicato “The Accidental Guerrilla. Fighting Small Wars in the Midst of a Big One” è stato ascoltato dal Comitato statunitense per le Forze Armate a proposito della situazione in Pakistan. Il quadro che ne ha dato è stato desolante e, se consideriamo anche il deteriorarsi della situazione in Iraq, lo stallo nella crisi israelo palestinese e la corsa verso il nucleare dell’Iran, possiamo dedurne che la situazione in Medio Oriente offre pochi barlumi di speranza. L’ex ufficiale australiano, attraverso una semplice operazione di confronto, ha solo constatato quello che spesso si dimentica: da una parte i soldi dei contribuenti americani spesi per quel paese, dall’altra i risultati.
Dal 2001, gli Stati Uniti hanno finanziato attività in Pakistan per 10 miliardi di dollari, di cui tra gli 80 ed i 120 milioni al mese per sostenere le operazioni dell’esercito in Afghanistan.
Nell’altra colonna, Kilcullen ha elencato la durezza della realtà dei fatti. Nel 2004, dopo una fallita offensiva nel Waziristan, le autorità pakistane hanno concordato un accordo con i talebani a cui hanno ceduto ufficialmente il controllo di parte della stessa valle, seguito da un altro cedimento nel 2006 che ha permesso un offensiva nemica nello stesso inverno che si è protratta in quello successivo e, per finire, l’accordo del 2009 che ha permesso il governo di intere regioni da parte dei talebani. Nelle zone invece sotto controllo, per così dire, del potere legittimo si è assistito ad un aumento degli attentati suicidi in tutto il paese; al rilancio della sharia anche al di fuori dell’area tribale; nel dicembre 2007, all’assassinio di Benazir Bhutto; al supporto esplicito di alcuni settori dei servizi segreti (ISI) ai guerriglieri talebani; nel 2008, ecco le bombe al prestigioso hotel Mariott a Islamabad, segno della precarietà del potere centrale, e l’azione terroristica a Mumbai in India ad opera di un gruppo addestrato e finanziato dall’ISI; alla chiusura delle vie di comunicazione ai convogli che rifornivano le truppe NATO in Afghanistan a causa della distruzione di centinaia di veicoli; all’uccisione di centinaia di funzionari civili e militari che si sono rifiutati di avallare l’operato dei gruppi mussulmani estremisti; agli incidenti tra le guardie di confine pakistane e le truppe NATO; alla ripresa di movimenti di insorgenza in Baluchistan; alla scoperta, ma non alla distruzione, di cellule talebane nelle maggiori città; agli attacchi alla popolazione scita, secondo il copione già messo in atto da Al Qaida in Iraq; all’aumento di infiltrazione di guerriglieri stranieri in Pakistan, specialmente dal Punjab.
Questi elementi, ho citato solo i più evidenti della testimonianza, mostrano senza ombra di dubbio il disfacimento dello stato pakistano e la sua corsa verso la classificazione di “stato fallito” dato il moltiplicarsi di centri di potere armato ostili ad Islamabad. I fatti più preoccupanti, al limite della guerra civile, però risiedono nell’aperta rivolta dei servizi e di settori delle forze armate al governo centrale che, assieme al manifestarsi della crescente forza dei talebani e affini, conduce verso il caos. Ma il Pakistan non è la Somalia: l’arma nucleare e la situazione geografica tra India, Afghanistan e Iran, rendono impossibile la politica dello struzzo. E allora che fare?
Ecco la conclusione dura del consulente di Petraeus. Innanzitutto riconoscere la realtà: accanto ad una maggioranza di establishment e di popolazione sicuramente contro vecchi e nuovi talebani, fondamentalisti e signorotti della guerra tribali, vi è sicuramente una forte minoranza, ma maggioranza in alcuni settori come le guardi di frontiera e i servizi segreti, cha sta al fianco degli insorgenti. Quindi, visto che gli Stati Uniti non possono abbandonare il paese al proprio destino, la prima necessità è costruire una polizia e dei servizi che siano fedeli alla causa e la seconda priorità è rappresentata dal rafforzamento delle istituzioni civili. Ecco il pesante compito – sì di contro insorgenza, ma sarebbe più corretto a questo punto dire di soluzione geopolitica - che ricade tutto sulle spalle degli americani in un’opera che sta assomigliando più alla tela di Penelope che ad un’azione risolutiva.
Leonardo Tirabassi
I palestinesi devono cambiare strada
1 anno fa
Nessun commento:
Posta un commento