Articolo pubblicato su Il Domenicale, sabato 1 maggio, 2009
"L’11 settembre ha costretto l’opinione pubblica mondiale a confrontarsi con una guerra inaspettata e crudele, terribile nella sua novità. Chi aveva sperato nella forza di persuasione dell’unipolarismo americano ha dovuto ricredersi e velocemente: il guazzabuglio della storia ha avuto il sopravvento e non poteva essere altrimenti.
Nuove sfide hanno bisogno, però, di strumenti concettuali adeguati che sappiano cogliere la diversità, perchè, ripetendo la lezione del Prussiano, ogni epoca ha il suo tipo di guerra.
E’ vero, c’erano stati segnali premonitori, tracce di cambiamento, basti pensare, per fare un esempio, alla strage compiuta già nel lontano 1983 con un’autobomba alle basi americana e francese in Libano dai nascenti Hezbollah. E infatti si era tornati a parlare di nuove vecchie guerre con le potenze occidentali impegnate a combattere lontano da casa contro opponenti non sempre ben definiti, con o senza divisa. E, piano piano, strateghi, generali, internazionalisti hanno provato a illuminare l’incubo.
Ecco affacciarsi concetti come “guerre identitarie”, discettare di “asimmetria di forza” tra i contendenti, di “guerre tra la popolazione”, di “stati falliti” e “terrorismo globale”, di “guerre senza limiti” e “senza fine”, di “scontro di civiltà”, di effetti perversi della globalizzazione, quali la frammentazione degli stati nazionali e la nascita di sentimenti di rivalsa e contraccolpi antimodernisti. Qualcuno, come il celebre stratega israeliano Van Creveld (The Transformation of Wa,r del 1991, ben prima quindi dell’attentato alle Torri gemelle) aveva indirizzato il suo occhio attento sulla fine del paradigma dominante dello stato nazione e delle conseguenze che un mondo post Westfalia apportava necessariamente alla guerra, ma le burocrazie sono lente ad adattarsi alle novità.
La speranza, e la soluzione, per l’unico attore in grado di affrontare i nuovi conflitti, era sempre riposta nella straordinaria e impressionante forza derivante da una supremazia tecnica senza pari. Ecco quindi le net war, la celebre “Revolution in Military Affairs” (RAM), l’informatizzazione delle forze armate verso un super esercito. Illusione (positivista?) di dissipare una volta per tutte la “nebbia della guerra”, basata interamente su di una premessa teorica nascosta, molto americana, del primato della tecnica; come se massimizzando l’efficienza si potesse fare a meno del fattore umano! Visione peraltro coronata da alcuni successi significativi. La seconda guerra del Golfo, la fine del regime di Milosevic, la stessa presa di Kabul da parte afgana con l’aiuto delle forze speciali e dell’aviazione americana con la ormai celebre metafora del berretto verde a cavallo con pc e telefono satellitare, figura retorica speculare: anche i nemici fanno parte dello stesso mondo (non a caso uno dei migliori libri sulla guerra in Afghanistan si intitola ”Koran, Kalashnikov, and Laptop : The Neo-Taliban Insurgency in Afghanistan” di Antonio Giustozzi).
C’erano stati, sì, aggiornamenti importanti nella dottrina ufficiale, si vedano ad esempio il National Defense Strategy (2005) e la Quadriennal Defense Review (2006) in cui si riconosceva il fatto della natura delle future sfide che richiedevano la battere strade alternative alla scoperta di nuove soluzioni. Ma la dottrina ufficiale non aveva subito variazioni. Donald Rumsfeld, lo aveva spiegato bene in un articolo su Foreign Affairs del 2002 da titolo eloquente, “Transformig the Military”. Il Pentagono rimaneva saldamente avvinghiato all’ ”american way of war” aggiornata alle nuove tecnologie, alla preferenza dello scontro con forze convenzionali, magari nella pianura di Fulda. Il resto dei conflitti, appunto, era sempre visto come altro.
Con questo bagaglio dottrinale, la superpotenza si è imbarcata nella guerra afgana e nella terza guerra del Golfo e purtroppo la realtà si è dimostrata di una consistenza diversa dai desideri. Se il cambiamento di pensiero strategico a livello di teatro, ormai avvenuto, lo si deve al generale Petraeus e ai suoi consiglieri, il passaggio, ancora non completato, ad un nuovo paradigma in grado di cogliere la realtà dei nuovi conflitti in generale non ha un padre unico, è frutto di più voci (una delle prime è quella di Erin M. Simpson, “Thinking about Modern Conflict: Hybrid Wars, Strategy, and War Aims” paper, April, 2005, citata anche da David Kilcullen nel suo ultimo libro) anche se la sistematizzazione migliore si deve a Frank G. Hoffman, ex ufficiale superiore e ricercatore presso il Potomac Institute for Policy Studies, serbatoio di cervelli per il corpo dei marines, con base ad Arlington in Virginia. In uno studio del dicembre 2007, “Conflict in the 21st Century: The Rise of Hybrid War”, il colonnello sostiene un fatto eclatante. Fino ad oggi gli Stati Uniti hanno affrontato i conflitti secondo una classificazione precisa basata sull’analisi di molteplici sfide - convenzionali, irregolari, catastrofiche - da affrontare con differenti approcci. Ma il presente non è così semplice e lineare. In primo luogo, il contesto in cui gli attori si muovono è un mondo globalizzato con tutto quello che significa (circolazione di merci, persone, denaro e informazioni, diffusione della tecnologia e disponibilità senza limiti dei nuovi media; tutti fattori che avvicinano e unificano, in una stessa cornice, fenomeni prima tra loro distanti e indipendenti). In secondo luogo, lo sfidante della super potenza è disposto ad utilizzare qualsiasi mezzo pur di aggirare, e neutralizzare, la forza impari degli Stati Uniti; in terzo luogo, si assiste ad una lotta senza quartiere per la conquista dell’opinione pubblica mondiale, scontro che ha lo stesso rilievo del conflitto armato. Un altro cambiamento fondamentale è rappresentato dal differente utilizzo della violenza: oggi la guerra spesso è usata non per sconfiggere in modo definitivo e totale l’avversario, ma per cambiare i rapporti di forza. E’ perciò lo stesso campo di battaglia a non avere più confini precisi, ad allargarsi fuori misura; tra interventi diplomatici, battaglie di propaganda, operazioni di peace keeping, state building, da un lato, e guerra vera e propria, dall’altra, rimane certo una differenza profonda, ma tutte le operazioni adesso devono essere viste facenti parti di un unico contesto e unite nella stessa visione strategica. Con la conclusione amara: ai nuovi attori, per vincere il Golia americano è sufficiente non perdere, mentre alla potenza occidentale non basta solo sconfiggere militarmente il nemico, ma deve riuscire a trasformare la superiorità sul terreno in vittoria strategica, senza velleità di soluzioni definitive.
Per inquadrare questo stato di cose, il termine migliore coniato è quello di “guerre ibride”, così definite perché incorporano uno spettro di differenti modi di combattere, utilizzati contemporaneamente, includenti capacità convenzionali e formazioni irregolari, atti terroristici, compreso la violenza indiscriminata, la coercizione e anche l’uso della criminalità organizzata (ne è un esempio l’infiltrazione di Al Qaida tra i pirati somali). Lo scenario futuro insomma presenterà un’unica combinazione e sinergia di una varietà incredibile di mezzi e metodi, impiegati in modo deliberato, da parte di un avversario flessibile e sofisticato, per colpire i punti deboli delle società occidentali. Questo non significa il declino o addirittura la fine delle guerre convenzionali e tradizionali tra stati; già da adesso si vede la fusione delle differenti forme della guerra, in un misto di conflitti regolari e irregolari condotto da attori statali o non statali. Anche le armi utilizzate stanno subendo la stessa trasformazione – qui, bisogna riconoscerlo, Rumsfeld aveva capito bene - e sempre più i conflitti vedranno l’impiego contemporaneo di mezzi tecnologici sofisticati, armi tradizionali e pre moderne. A differenza della teoria della guerra rivoluzionaria teorizzata da Mao, che prevedeva un succedersi ordinato di stadi con l’impiego crescente di violenza organizzata, la nuova guerra è caratterizzata dalla fusione degli elementi e da azioni diverse in simultanea, rispondenti però ad una direzione strategica unica, non importa quanto lasca. Insomma, se l’argomento non fosse tragico, si potrebbe parlare di entrata del post moderno, del sincretismo new age nel mondo di Marte."
I palestinesi devono cambiare strada
1 anno fa
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