A guardare il puzzle delle crisi concentriche medio orientali e asiatiche – conflitto israelo-palestinese con la propaggine Libano-siriana, situazione del Golfo Persico e stato di guerra e rischio di dissolvenza delle istituzioni in Afpak – nasce la convinzione che si capisce poco della situazione se, nell’analisi di fenomeni complessi come questi, non si tengono a mente tre livelli su cui si svolge il discorso politico. Il piano della propaganda diretta sia verso l’opinione pubblica interna che quella mondiale (a sua volta composta da vari target: i palestinesi, gli altri stati arabi, gli alleati, i nemici sionisti e cristiani con interessi) comunque volta a nascondere i veri intenti; il livello delle percezioni con cui gli attori interpretano la realtà, e quindi gli stessi dati di fatto che stanno sotto. Essendo un gioco strategico formato di aspettative reciproche – della serie: “io mi aspetto che tu ti aspetti” – e data una determinata mossa di un soggetto, l’altro, per dare una risposta razionale, per prima cosa deve decidere su quale piano avvenga l’azione. Il gioco è complicato, specchi, inganni, urla e incontri segreti formano una ragnatela difficile da sciogliere, nebbia che tutto avvolge.
Ma non si capisce niente di Israele se non vediamo gli effetti che le parole di Ahmanidejad provocano su di una platea ebrea che ha passato l’Olocausto. E’ scritto nella nascita di Israele, nelle sue fondamenta che la Shoà non dovrà mai ripetersi, è il patto genetico e fondante, la ragion d’essere della stessa nazione israeliana che tutti i leader politici chiamati a governare devono assolutamente rispettare. Non possiamo stupirci delle reazioni dei governanti di un popolo scampato dalle camere a gas riguardo alle minacce di sterminio provenienti dai negazionisti che abitano a Theran. Qualcuno ha parlato a questo proposito di una speciale sindrome assolutamente pessimistica che affliggerebbe il popolo israeliano dopo la seconda guerra e che suona presso a poco così “se qualcosa può andar peggio, sicuramente ci va”. A questo sentimento nazionale diffuso si deve la scelta politica di dotarsi della bomba atomica negli anni sessanta; David Ben Gurion sempre ritornava nei suoi colloqui sulla necessità di prevenire di nuovo l’accadere di una simile tragedia. Si deve certo a questo contesto la scelta di bombardare il reattore nucleare iracheno a Osirak nel 1981. Israele nella sua totalità (in recenti sondaggi, dal 66 all’88% degli israeliani reputano un simile comportamento possibile) crede perciò che un Iran nucleare sia anche votato ad un comportamento irrazionale e costituisca una minaccia esistenziale alla sua stessa vita. A conferma si rifletta sulle parole (2001) del Presidente Alii Rafsanjani: “se un giorno, il mondo islamico sarà dotato con armi simili a quelle che Israele possiede ora, allora la strategia imperialista subirà un arresto, perchè l’uso anche di una sola bomba nucleare contro Israele distruggerà ogni cosa. Comunque non danneggerà il mondo islamico. Non è irrazionale contemplare una tale eventualità.”
Contro una simile minaccia, Israele crede che la semplice deterrenza o interventi indiretti, come le sanzioni economiche, non possano funzionare perché supportata da una ideologia fanatica: il caso degli attentatori suicidi, dei bambini mandati a morire sui campi minati iracheni per aprire la strada ai carri è lì a dimostrarlo. Se questo non bastasse, se la storia e la memoria non sono sufficienti a fondare scelte strategiche, si può aggiungere la geografia: uno stato di pochi milioni di abitanti chiuso in una piccola striscia verso il mare che nessun territorio può perdere pena la sua stessa esistenza.
I palestinesi devono cambiare strada
1 anno fa
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