lunedì 16 marzo 2009

"Clint Eastwood"

L'amico Riccardo Zucconi mi ha inviato una nota sull'ultimo film di Clint e siccome sono un ammiratore sfegatato, la pubblico volentieri.

"Cari Amici
sempre a proposito di cinema, e di cinema conservatore, vi consiglio caldamente "Gran Torino" di Clint Eastwood", un capolavoro.
Credo che Eastwood sia molto sottovalutato dalla critica italiana, e non solo, forse per i suoi esordi di pistolero in "Per un pugno di dollari".
Ci troviamo senza alcun dubbio di fronte ad un grande maestro, uno che non ha mai sbagliato un film, dagli esordi di "Brivido caldo" nel 1971, Ci sono registi di prosa e registi di poesia, Eastwood fa parte dei primi e lo si vede dall'uso discreto della macchina da presa, dalla severità delle inquadrature. Ci sono registi artisti, geniali, che fanno tutta la vita lo stesso film, i primi straordinari e poi si trascinano stancamente via via che la loro vena si esaurisce. Clint Eastwood non è di questi. Lui migliora di anno in anno. di film in film. Trattando i temi più diversi: la musica (Clint è anche un grande musicista) in "Bird" e "Piano Blues",l'amore " I ponti di Madison County, la guerra "Lettere da Iwo Jima" e "Flags of our fathers".
"Gran Torino" si può considerare la fine di una triologia, gli altri sono "Mystic River" e "Million Dollar Baby", dove un uomo che si avvicina alla morte, e vuole arrivarci preparato, ripensa tutta la sua vita. Con rigore e dignità, circondato da una bellezza grande e cupa. Cha grande lezione. Grazie Clint. Correte a verderlo."
Riccardo Zucconi

1 commento:

  1. Gran film quello di Eastwood. Perfettamente d'accordo con Riccardo. Posto una mia recensione che apparirà domani sul blog e sul sito dei Maschi Selvatici.
    Armando

    Quasi un archetipo maschile filtrato attraverso la cultura americana, Walt Kowalsky , il personaggio creato da Eastwood ma che potrebbe anche essere di Cormac McCarthy. Penso, ad esempio, allo sceriffo Bell di “Non è un paese per vecchi” (il libro, non il film che ne rende solo in minima parte lo spessore). Ad esso lo accomunano uno sguardo sgomento sulla violenza insensata del presente e l’attaccamento ai valori della tradizione, famiglia, responsabilità paterna e virile, senso della giustizia e volontà di perseguirla, visione netta di ciò che è bene e ciò che è male. Ma a differenza di Bell, personaggio tutto sommato lineare, Kowalsky è un uomo non pacificato con se stesso. Da un lato gli avvenimenti che, soldato in Corea, lo hanno visto protagonista e spettatore, dall’altro l’incapacità a comunicare coi figli e con il loro mondo di “non valori” (significativa la scena in cui il figlio taglia velocemente la telefonata paterna perché impegnato a “fari i conti”), lo hanno segnato e lacerato per sempre. La scomparsa della moglie sembra rinchiuderlo definitivamente in una maschera difensiva rancorosa e solitaria, xenofoba e razzista contro la comunità orientale che è cresciuta nel suo vecchio quartiere un tempo abitato da bianchi, e contro tutti quelli, il prete ad esempio, che ai suoi occhi di soldato che ha visto e dato la morte, gli appaiono insulsi damerini che pontificano sul nulla che sono. Gli fanno unica compagnia un cane , la splendida auto Gran Torino, un modello Ford del 1971 che cura con immensa passione, e le sue armi. Uniche relazioni sociali qualche uscita al bar con vecchi conoscenti e dal barbiere, che danno a Eastwood la possibilità di mettere in scena un vero, piccolo capolavoro di antropologia del maschile fatta di atteggiamenti e duelli verbali tanto rudi e competitivi quanto in fondo complici e affettuosi che avevo già trovato, questa volta in salsa mediterranea, nel libro “Modi bruschi” di Franco La Cecla (Bruno Mondadori, 2000).
    Solo di maschera si tratta, però, perché non appena il ruvido Kowalsky viene a contatto con l’ingiustizia e la sopraffazione incarnata dalle bande giovanili che infestano il quartiere e che minacciano il giovane Tao e la sorella, gli “odiati” orientali vicini di casa, il vecchio soldato è costretto, anche suo malgrado, a rivedere i vecchi pregiudizi. Fino a farsi padre putativo del ragazzo e insegnargli la virilità, quella vera e antica che partendo dalla cultura materiale del fare e del saper fare con le mani che strutturano il carattere, non disdegna, quando è necessario per una buona causa, l’uso della forza fisica ed anche delle armi. Senza troppi riguardi al rispetto formale delle regole della legalità, ma anche senza farsi travolgere dallo strumento e dal senso di potenza che trasmette. Anzi, l’uso delle armi molto “particolare” che farà e che non svelerò, è teso a catalizzare la violenza su di sè fino al sacrificio estremo, per salvare il giovane Tao dalla spirale infernale in cui sarebbe caduto.
    Credo che il miglior commento finale al bellissimo film di Clint Eastwood possa essere quello di un’amica “progressista” e dal passato di impegno femminista che ho casualmente incrociato al cinema:
    "C’è bisogno di eroi che sappiano quali sono le cose giuste, e le facciano."
    Non male per una "brechtiana", anche se avrei voluto dirle:
    “Avete fatto tanto per distruggerli e ora li rimpiangete”. Ma ero ancora troppo preso dall’emozione del film.

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