mercoledì 25 marzo 2009

Pietro De Marco "Commento a Katyn"

(Corriere della Sera, 12/3/2009, inserto fiorentino)

“Questo film non è uno strumento politico ma un obbligo morale verso i miei genitori”. Andrzej Wajda conclude su questo registro il colloquio con Valerio Cappelli su Katyń, pubblicato [11 marzo 2009] dal Corriere della Sera, edizione nazionale. Vi sono sullo sfondo la pena dell’anziano Maestro e, per noi, uno scandalo: in Italia il prestigioso film del regista polacco non circola. Ma questo fatto rende politico, e rende anche nostro, l’atto di devozione del polacco Wajda per la sacra memoria dei suoi. In un manifesto che ho firmato, assieme a molti amici di diverse sensibilità, sosteniamo qualcosa come una congiura del silenzio sul film, derivata sì da resistenze ideologiche, ma trasandata, sfatta, quasi automatica. Sosteniamo anche che Katyń rappresenta invece, e in particolare, per la cultura della nostra città un “forte richiamo ad assolvere un compito ancora incompiuto, anzi in molti neppure avviato”: riconoscere finalmente una antica acquiescenza morale di fronte a prodotti della Russia comunista, come quello del “massacro di Katyń”. Con la cifra Katyń, ricordo, si indica da tempo l’assassinio in massa di circa 22 mila polacchi, in parte ufficiali, dunque prigionieri di guerra, ordinato da Stalin su suggerimento di Berjia (marzo 1940). Sottolineo che Stalin volle così distruggere assieme ad una élite la capacità stessa di resistenza di una nazione. La Russia ne accusò i tedeschi, ma le prove erano talmente inconsistenti che non furono accolte a Norimberga. La responsabilità russa è, invece, certa, documentata.
Un tale “riconoscere”, una tale nostra “purificazione”, che può passare anche attraverso l’atto penitenziale del “vedere Katyń”, si impone non solo a chi allora sapeva, e negò e falsificò ad arte, e perseguitò chi aveva il coraggio di “dire Katyń”. Riguarda anche coloro che, portati per decenni a “giustificare” l’URSS, appaiono oggi noncuranti di fronte al grande requiem scritto da Wajda, come se non ci riguardasse. Per avere educato le masse, e anche alcune minoranze cattoliche, all’insensibilità, al non sapere, la cultura del PCI è colpevole e la sua colpa si trasmette ai suoi molti e difformi eredi, se non vengono a chiarezza con se stessi. Il nostro manifesto non ha evitato asprezze su questo punto.
È dunque un brutto sintomo non sentire collettivamente a Firenze, in Toscana, l'obbligo di far proiettare e di “vedere” Katyń. L’opera di Wajda, mi dicono i pochi che hanno potuto vederla, è anche l'epica di un popolo, rappresentato da una élite di soldati che muore (trucidata da corpi scelti dell’esercito sovietico) con la preghiera sulle labbra, e dal coro tragico delle loro donne. L’epica di una nazione cristiana, massacrata dagli uni e dagli altri, che alla fine ha spiritualmente vinto. Non si può non ricavarne una qualche lezione.
Il sospetto sulla resistenza della Firenze "di sinistra", anche cattolica, ad ogni riesame di coscienza, come ad ogni fiammata di dibattito civile, è molto fondato. Sono ancora in grado di simulare in me stesso i processi argomentativi e reattivi, ragionati e irragionati, per far finta di niente rispetto ad un nostro passato che giustificò tutto, o troppo, di quanto accadeva in una “Terra promessa” che non si sarebbe mai dovuto prendere per tale.

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