Martedì 10 marzo, un attentato suicida ha fatto 33 morti e 46 feriti colpendo un gruppo di dignitari e capitribù sunniti e sciti alla fine di un incontro per la riconciliazione, parte del programma di pacificazione voluto dal governo iracheno. E proprio nella città sunnita di Abu Ghraib, sede della infame prigione che, prima di diventare celebre per le torture americane, aveva visto la morte da parte degli scherani di Saddam di ben 4000 prigionieri.
L’attentato arriva dopo una serie spaventosa di atti terroristici che tra gennaio e febbraio hanno visto 300-400 morti. Solo negli ultimi tempi, si è assistito ad un crescendo di violenza: il 5 marzo una autobomba uccideva nel mercato della città scita di Hillad 13 persone, il 13 febbraio è avvenuto l’attacco ad una processione di pellegrini sciti a Musayyil e poi ancora 2 morti nella città cristiana di Hamdaniya e così via; ciò nonostante, gli atti violenti registrati nel paese sono sempre i più bassi dal 2003.
Fino al 2007, Abu Graib era il centro dell’insorgenza sunnita contro il governo centrale a maggioranza scita, terreno facile di infiltrazione per le cellule di Al Qaida, ma da quando nel 2007 era iniziato la rivolta tribale dei “figli dell’Iraq” o “movimento del risveglio” contro i soprusi dei seguaci di Bin Laden, la situazione era diventata, come in tutto il paese, più tranquilla.
Fonti americane e lo stesso sindaco della città, Shamir Fizau hanno attribuito gli attentati ad Al Qaida con lo scopo evidente di sabotare il processo di pace, creare contraddizioni tra americani e iracheni, tra chi vuol vedere partire al più presto gli stranieri (In questo partito non ci sono solo gli iracheni), sperando ancora una volta di far precipitare il paese nella guerra civile e soprattutto tenere inchiodate le truppe in Iraq impedendo il loro dispiegamento in Afghanistan. Da settembre infatti hanno lasciato il paese 12.000 soldati statunitensi e 4.000 inglesi, ma ancora ora in Iraq rimangono ben 140.000.
Come al solito, la strategia di Al Qaida è più complessa di quanto si voglia pensare e dimostra una notevole vitalità e capacità di adattarsi alle circostanze. La prima considerazione è che dopo una prima opposizione alla rivolta popolare sunnita e americana contro i propri uomini, Al Qaida ha scelto la tattica più consona alla guerriglia: nascondersi, fermare l’attività in attesa dei tempi migliori. E questi adesso sono arrivati: Al Qaida ha una visione globale e internazionale del conflitto ed ecco gli attentati riprendono mentre si parla di nuove offensive in Afghanistan. Non solo, i suoi leader sanno fare i conti con la politica interna irachena, conoscono bene il terreno umano, sociale e politico. Dopo il successo di Maliki alle elezioni provinciali che lo hanno visto trionfatore in 9 delle 14 province, il capo del governo ha compiuto un gesto di riconciliazione verso gli ex seguaci del partito bathista di Saddam e in cambio ha ricevuto un netto rifiuto con l’accusa che il suo governo è composto da “collaboratori, spie e traditori”. Un’altra volta insomma i terroristi islamici sanno inserirsi nelle contraddizioni politiche tra sciti e sunniti.
La situazione, comunque rimane, secondo sempre il governo, sotto controllo e così viene percepita anche dalla gente comune.
Molti sono però ancora i problemi da risolvere. In primo luogo, la definizione dello status della città perolifera e multietnica, ma in territorio curdo, di Kirkuk. Qui i pashmerga hanno oltrepassato la linea verde che divide i territori sotto amministrazione curda da quelli delle altre province occupando vaste aree e confrontandosi duramente con il governo centrale. E lo scenario di un possibile scontro tra i potenti, organizzati e ricchi curdi e sciti, una volta ritirati gli americani, è un incubo ricorrente che attraversa la mente di Maliki (ma anche dei turchi e degli iraniani). E poi a seguire, viene il nodo con i paesi vicini a cominciare dall’Iran la cui longa manus si è vista anche nelle elezioni attraverso inquietanti controlli ai seggi, peraltro accettati dal governo, al sud del paese. In ultimo, ma non per gravità, è bene ricordare il problema dei circa tre milioni di iracheni che hanno dovuto lasciare le proprie abitazioni o per scappare alla guerra o per evitare pulizie etniche, ma che ora rivorrebbero le loro case occupate invece da vicini non certo amici.
Articolo pubblicato il 12 marzo sull'Occidentale
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