L'Occidentale 3 giugno 2010
Ai fatti avvenuti a largo di Gaza, alla tragedia che si sta abbattendo ancora una volta su quelle terre, si può guardare da tre punti di vista tutti legittimi, ma che rischiano se contrapposti, di suonare stonati: il piano morale, quello legale e infine l'aspetto politico. Il primo è quello più fragile e infatti si trova per forza ad essere trascinato dagli altri; il secondo è rappresentato dal diritto internazionale ma, come si sa,mancando un arbitro dotato di potere effettivo, regola solo in parte la totalità delle relazioni; l'ultimo è rappresentato dal piano strategico politico dove a far da padrone è il principio di realtà.
La vicenda israeliana, per l'alto valore simbolico che incarna, è destinata a far scatenare accese discussioni e assieme ad esse una confusione di piani con il risultato di dar ragione ad Hamas e ai nemici di Israele.
La verità è che i livelli della discussione vanno separati nettamente ed in modo particolare quello giuridico da quello strategico. Ora guardando all'aspetto del diritto internazionale che si porta appresso la valutazione morale, non c'è dubbio che Israele abbia agito per la difesa dei propri interessi e che la flottiglia di cosi detti pacifisti stava forzando un blocco navale in totale disprezzo delle regole internazionali e di quelle di buon senso.
Ma questo punto di vista risolve la totalità del problema? No, rimane il piano politico. Su questo livello, l'aver ragione sul piano del diritto e della morale serve a poco e niente ci dirà la commissione di inchiesta israeliana perché appunto si sta ragionando di errori di valutazione politica. Qui è evidente l'incomprensione da parte di Tel Aviv della minaccia rappresentata dalla protesta sponsorizzata dalla Turchia. I conflitti moderni - "asimmetrici", "ibridi" o "tra la gente", definiteli come vi pare- quelli che vedono fronteggiarsi uno stato democratico infinitamente più forte in termini di tecnologia, sistemi d'arma, organizzazione e un avversario formato da milizie irregolari, hanno la particolarità di non giocarsi sul piano militare. Anzi, a causa della sproporzione di forze e della impossibilità di arrivare ad uno scontro militare definitivo, che si risolverebbe con la sconfitta ai limiti della disfatta del più debole e infatti da questo ampiamente evitato, l'aspetto prettamente militare è destinato ad occupare un ruolo secondario. Qui la politica accompagna continuamente, in ogni momento, la guerra negando il detto che quando le armi parlano, tace la politica. Anzi, a causa proprio dell'asimmetria di forze, la sfida con il paese democratico avverrà utilizzando tutti gli strumenti possibili, cercando proprio di aggirare e neutralizzare quella sproporzione di forze. L'obiettivo dell'irregolare sarà solo e sempre impedire che l'esercito del paese democratico riesca ad impiegare la potenza di cui dispone. I mezzi utilizzati saranno i più vari, ma lo scopo rimane sempre e solo uno: se non si riesce a battere sul campo l'esercito più forte, si può spezzare o legare la volontà politica di quel paese. E come? In due modi. Logorando la volontà di resistenza dello stato democratico, facendo cadere il nemico in ogni provocazione – utilizzo del terrorismo più bestiale, utilizzo degli scudi umani ecc- e costringendo il suo esercito ad utilizzare metodi disumani o illegali con il risultato di costruire un vero e proprio muro morale tra di esso e il suo paese,riuscendo così ad aprire un fronte interno, spezzando il rapporto tra forze armate, popolo e istituzioni e, ecco la seconda modalità, costruendo una barriera di diffidenza internazionale tra lo stato democratico e il consesso internazionale.
Non è una novità. E' stato così nella guerra d'Algeria, durante il conflitto del Vietnam, a Gaza nel 2006. In questi conflitti, l'errore centrale dei paesi occidentali, al di là delle singole ed enormi differenze e delle possibili ed eventuali soluzioni politiche, fu di ridurre lo scontro ad una mera questione militare mentre il nemico svolgeva un confronto a tutto tondo muovendosi su più livelli. Forse ci siamo dimenticati che la Battaglia d'Algeri coincise con la discussione all'Onu della questione algerina? O delle parole di quel generale del Vietnam del Nord che confessò candidamente ad un suo corrispettivo statunitense che per sapere come andasse il conflitto tutte le mattine lo stato maggiore di Hanoi ascoltava la radio americana? O della capacità di Hezbollah di farsi passare da vittime portando a braccetto D'Alema a Beirut e costruendo scene dei bombardamenti aerei ad hoc con le scarpine dei bambini che viaggiavano da un luogo all'altro a seconda delle esigenze delle TV internazionali?
Il fatto è che per Israele per molteplici motivi considerare la complessità della moderna "guerra tra la gente" è molto difficile. Per la sua mentalità, perché Israele si sente, a ragione, la vittima della storia e quindi è abituata a lottare con i denti per la vita e a vedere ogni conflitto come esistenziale in termini di sicurezza; per la storia del conflitto israelo palestinese erede delle guerre arabo israeliane dove si fronteggiavano eserciti tradizionali; per la natura dell'attuale scontro con Hamas che Tel Aviv, a ragione, valuta insolubile perché tutto di natura ideologica religiosa e non politica.
Ma se Israele non vuole tutte le volte ripartire daccapo, in un infinito gioco dell'oca, dovrebbe considerare le molteplici dimensioni della strategia e capire che la gestione dell'opinion pubblica internazionale, dei mass media e della diplomazia sono un fronte forse più importante dello scontro militare dove i palestinesi non sono certo in grado di minacciare la sua esistenza.
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