Art pubblicato sul Secolo 10 giugno 2010
Questo è un articolo che cerca di riparare ad un torto commesso da me, forse, a parziale scusa, in compagnia di altri studiosi coinvolti, a vario titolo, in affari internazionale. Come sempre, quando succede qualcosa al di là del Mediterraneo, mi riferisco ai fatti a largo di Gaza, sono andato a vedere cosa dicesse al riguardo il professor Fred Halliday, uno dei più grandi esperti del mondo di questioni medio orientali, ed ho scoperto che se ne era andato, stroncato da un tumore, a Barcellona quasi due mesi fa. Chiunque studioso o semplicemente appassionato di politica si fosse avvicinato agli affari e alla storia del Medio Oriente avrebbe incontrato sul suo cammino la figura di Fred Halliday, il socialista irlandese conoscitore di più di 10 lingue, dal persiano all'arabo passando per tutti i dialetti, che dal fatidico 1968 si occupava di quel mondo. Avevo iniziato a conoscerlo su "Quaderni piacentini", la rivista di estrema sinistra vicino al filone operaista fondata e diretta da Piergiorgio Bellocchio fino al 1980, e poi ho seguito il suo percorso di grande conoscitore di Medio Oriente nei suoi libri e nei commenti on line sul sito Open Democracy
(http://www.opendemocracy.net/author/fred-halliday)
Nonostante gli anni, Halliday era rimasto di sinistra, in quel modo che solo un anglosassone sa e può esserlo. Libero da schemi nelle analisi teoriche ma con giudizi politici sull'attualità al limite dello scontato, simile in questo all'altra celebre studiosa inglese di relazioni internazionali Mary Kaldor, riusciva a volare in alto oppure a battere delle testate indegne sul piano. La sua grande padronanza della materia e un potente antidoto alle ideologie come il pragmatismo, lo rendevano però immune da semplificazioni storiche e analitiche, anzi sembrava francamente incredibili come tanto acume si accompagnasse ad un politicamente coretto frutto di eredità del passato.
A noi piace però ricordarlo non tanto per i giudizi estemporanei, ma appunto per la profondità di sguardo. Si prenda ad esempio il suo ultimo libro tradotto in italiano "Il Medio Oriente. Potenza, politica e ideologia" (Vita e pensiero, 2007); qui il professore irlandese elabora una chiave di lettura in grado di tenere assieme i diversi e frastagliati fenomeni cha vanno da Ankara passando da Gerusalemme fino a Kabul. Con la fine della fredda, fatti tra loro diversi in parti di mondo lontano tra loro e con differenti spiegazioni si sono andati fondendo compiendo una saldatura di crisi specifiche con il risultato di produrre una nuova area e vasta area di crisi "il grande Medio Oriente" o "Medio Oriente allargato". Il processo di modernizzazione di quei paesi, gettati in una globalizzazione senza più frontiere ideologiche, ha scatenato una serie di reazioni e contro reazioni telluriche a partire, con la rivoluzione komeneista degli anni ottanta, dall'entrata della religione nella sfera politica e finendo per mettere in crisi pesantemente la stessa struttura istituzionale prodotto della modernità per eccellenza: lo stato nazionale. La rivoluzione scita, la cacciata dei sovietici da Kabul, la forza di Hezbollah in Libano, l'avvento di al Qaida, le guerre del Golfo hanno finito per produrre un unico puzzle dove ogni tessera si tiene assieme alle altre senza soluzione di continuità. "Un processo incrementale di incastro di crisi regionali, lento ma inesorabile" è andato a prodursi sia a livello locale che su piano internazionale per finire alle stesse percezioni e narrazioni popolari dove la Palestina, l'Iraq e l'Afghanistan sono diventate cause tutte tra loro collegate. Ma il processo di unificazione geopolitica, e di internalizzazione dell'area, non è sinonimo di sostituzione totale di dinamiche di potere novecentesche; la costruzione del "Grande Medio Oriente" è andata infatti di pari passo alla frantumazione sociale e alla lotta per una maggiore influenza regionale, se non egemonia, da parte di vecchi attori statali, una volta fedeli alleati occidentali, prima la Persia ed ora la Turchia.
Se difficile è sempre predirre il futuro, il risultato di questi processi con linee di forza tra loro diverse sarà comunque in grado di creare una serie di trasformazioni continue in una crisi continua dove sembra per ora difficile individuare il punto di equilibrio, a cominciare dalle conflitto israelo palestinese e dalla questione del nucleare iraniano. Se da un punto di vista storico politico Israele ha ragione a sostenere che la questione palestinese niente ha a che fare con l'11 settembre, quello che certo è che ideologia e globalizzazione hanno invece prodotto sulla fragile identità arabo mussulmana un risultato ben diverso. Questa analisi è la migliore eredità che ci ha lasciato Fred Halliday.
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