domenica 27 giugno 2010

Dimissioni di Mc Crystal e situzione afghana

25 giugno 2010, L’Occidentale

Ciò di cui si sta discutendo in conseguenza delle esternazioni infelici del generale Mc Crystal non riguarda un caso di insubordinazione, ma il giudizio della situazione in Afghanistan. In altri termini, la strategia elaborata dal generale sul modello della famosa surge sperimentata da Petraeus in Iraq è valida per Kabul? E, in caso di risposta positiva, sta funzionando?
Possono, in apparenza, sembrare due domande simili; in realtà qui si sta discutendo di due cose diverse, se cioè gli obiettivi politici sono giusti e se la strategia militare scelta per raggiungere quegli obiettivi sia quella corretta. E’ stato Clausewitz a teorizzare con chiarezza per la prima volta la differenza tra scopi politici e obiettivi militari, tra politica e guerra affermando con forza che la seconda serve solo per raggiungere i fini che la politica si è data. Noi occidentali siamo abituati a considerare il modello delle guerre sulla terribile esperienza europea delle distruzioni del Novecento, conflitti che videro mobilitazioni totali e dove il fine politico, la liberazione dalla tirannide nazi fascista, coincideva con lo scopo militare: la distruzione delle forze nemiche fino alla resa incondizionata. Ma questo non è il caso delle guerre moderne. In Afghanistan, il passaggio dalla decisione politica a quella militare non è immediata perché il fine politico deve riuscire a selezionare l’obiettivo militare preciso ed essere ad esso coerente.
E qui arriva l’intervista di Mc Crystal perché ha messo in risalto proprio la diversità di giudizi sia sui fini politici che sugli obiettivi della campagna afghana. Il primo dato è una semplice constatazione: l’offensiva di Marja non sta dando i risultati sperati, il governo di Karzai è in uno stato pietoso in bilico tra corruzione, narcotraffico e impotenza, l’esercito afghano ancora non è in grado di combattere da solo, i confini con il Pakistan sono un cola brodo e i servizi segreti di Karachi non si capisce bene da che parte stiano, se con i talebani in funzione anti indiana o con gli alleati.
Stando così le cose, quali sono gli obiettivi possibili affinchè si possa dichiarare una parvenza di vittoria e iniziare a ritirare il grosso delle truppe? Questo è il punto: in che cosa consiste la vittoria? E’ credibile che riesca un’azione di contri insurrezione che si basa sulla creazione di un governo centrale forte e stabile e sulla conquista del consenso della popolazione? Oppure bisogna accontentarsi di tenere a bada i talebani con azioni di truppe speciali, uccisioni mirate con i droni, oppure addirittura a lasciare loro il terreno ma limitarsi a colpire i più estremisti e vicini ad Al Qaida ?
Domande non facili, ma prima di ridurre lo scontro tra McCrystal e Obama ad un semplice atto di ribellione o ad un gesto di ingenuità, è necessario rispondere con attenzione alle domande che la guerra in Asia centrale solleva.

sabato 26 giugno 2010

A Winnable War

A Winnable War

Brezinski è sempre Brezinski. Si può esseree in disaccordo ma è innegabile l’artiglio dell’aquila

Globalizzazione ineluttabile, forma imperiale (USA) dell’internalizzazione, crisi dello stato nazione, limiti della sovranità novecentesca, crisi economica, debito pubblico e stato sociale, crisi delle classi medie ecc. a partire http://www.cceia.org/resources/transcripts/4424.html dal libro di Brezinskj “The choice”. E questo dopo lunghe ricerche è il testo
http://www.chathamhouse.org.uk/files/13106_85_1brzezinski.pdf
del discorso alla Chatman House.
Poi trovate tutto su face book sulle mie pagine.
In italiano il libro è uscito da Salerno con il titolo “L’ultima chance”. Ecco una scheda:
L'opera. Analisi spassionata e approfondita dei risultati prodotti dai tre presidenti che, per la prima volta nella storia, hanno svolto consecutivamente il ruolo di leaders globali, e del modo in cui lo stile personale di ciascuna leadership ha influenzato tali risultati. Tra i più autorevoli commentatori americani di politica estera, Brzezinski sostiene che gli Stati Uniti hanno male impiegato gran parte del loro potere e prestigio. Nessuno dei tre presidenti sfugge alla critica, malgrado l’autore ascriva a ciascuno un diverso grado di responsabilità. Obiettivo ma sferzante, questo libro costituisce un riferimento costruttivo per il ruolo mondiale dell’America nel prossimo futuro.

L'autore. Zbigniew Brzezinski, ex consigliere per la Sicurezza Nazionale, è attualmente consulente presso il Centre for Strategic and International Studies ed è professore di Politica Estera Americana alla School of Advanced International Studies della John Hopkins

venerdì 25 giugno 2010

In memoria di Fred Halliday, uno dei più grandi studiosi di medio Oriente

Art pubblicato sul Secolo 10 giugno 2010

Questo è un articolo che cerca di riparare ad un torto commesso da me, forse, a parziale scusa, in compagnia di altri studiosi coinvolti, a vario titolo, in affari internazionale. Come sempre, quando succede qualcosa al di là del Mediterraneo, mi riferisco ai fatti a largo di Gaza, sono andato a vedere cosa dicesse al riguardo il professor Fred Halliday, uno dei più grandi esperti del mondo di questioni medio orientali, ed ho scoperto che se ne era andato, stroncato da un tumore, a Barcellona quasi due mesi fa. Chiunque studioso o semplicemente appassionato di politica si fosse avvicinato agli affari e alla storia del Medio Oriente avrebbe incontrato sul suo cammino la figura di Fred Halliday, il socialista irlandese conoscitore di più di 10 lingue, dal persiano all'arabo passando per tutti i dialetti, che dal fatidico 1968 si occupava di quel mondo. Avevo iniziato a conoscerlo su "Quaderni piacentini", la rivista di estrema sinistra vicino al filone operaista fondata e diretta da Piergiorgio Bellocchio fino al 1980, e poi ho seguito il suo percorso di grande conoscitore di Medio Oriente nei suoi libri e nei commenti on line sul sito Open Democracy
(http://www.opendemocracy.net/author/fred-halliday)

Nonostante gli anni, Halliday era rimasto di sinistra, in quel modo che solo un anglosassone sa e può esserlo. Libero da schemi nelle analisi teoriche ma con giudizi politici sull'attualità al limite dello scontato, simile in questo all'altra celebre studiosa inglese di relazioni internazionali Mary Kaldor, riusciva a volare in alto oppure a battere delle testate indegne sul piano. La sua grande padronanza della materia e un potente antidoto alle ideologie come il pragmatismo, lo rendevano però immune da semplificazioni storiche e analitiche, anzi sembrava francamente incredibili come tanto acume si accompagnasse ad un politicamente coretto frutto di eredità del passato.

A noi piace però ricordarlo non tanto per i giudizi estemporanei, ma appunto per la profondità di sguardo. Si prenda ad esempio il suo ultimo libro tradotto in italiano "Il Medio Oriente. Potenza, politica e ideologia" (Vita e pensiero, 2007); qui il professore irlandese elabora una chiave di lettura in grado di tenere assieme i diversi e frastagliati fenomeni cha vanno da Ankara passando da Gerusalemme fino a Kabul. Con la fine della fredda, fatti tra loro diversi in parti di mondo lontano tra loro e con differenti spiegazioni si sono andati fondendo compiendo una saldatura di crisi specifiche con il risultato di produrre una nuova area e vasta area di crisi "il grande Medio Oriente" o "Medio Oriente allargato". Il processo di modernizzazione di quei paesi, gettati in una globalizzazione senza più frontiere ideologiche, ha scatenato una serie di reazioni e contro reazioni telluriche a partire, con la rivoluzione komeneista degli anni ottanta, dall'entrata della religione nella sfera politica e finendo per mettere in crisi pesantemente la stessa struttura istituzionale prodotto della modernità per eccellenza: lo stato nazionale. La rivoluzione scita, la cacciata dei sovietici da Kabul, la forza di Hezbollah in Libano, l'avvento di al Qaida, le guerre del Golfo hanno finito per produrre un unico puzzle dove ogni tessera si tiene assieme alle altre senza soluzione di continuità. "Un processo incrementale di incastro di crisi regionali, lento ma inesorabile" è andato a prodursi sia a livello locale che su piano internazionale per finire alle stesse percezioni e narrazioni popolari dove la Palestina, l'Iraq e l'Afghanistan sono diventate cause tutte tra loro collegate. Ma il processo di unificazione geopolitica, e di internalizzazione dell'area, non è sinonimo di sostituzione totale di dinamiche di potere novecentesche; la costruzione del "Grande Medio Oriente" è andata infatti di pari passo alla frantumazione sociale e alla lotta per una maggiore influenza regionale, se non egemonia, da parte di vecchi attori statali, una volta fedeli alleati occidentali, prima la Persia ed ora la Turchia.

Se difficile è sempre predirre il futuro, il risultato di questi processi con linee di forza tra loro diverse sarà comunque in grado di creare una serie di trasformazioni continue in una crisi continua dove sembra per ora difficile individuare il punto di equilibrio, a cominciare dalle conflitto israelo palestinese e dalla questione del nucleare iraniano. Se da un punto di vista storico politico Israele ha ragione a sostenere che la questione palestinese niente ha a che fare con l'11 settembre, quello che certo è che ideologia e globalizzazione hanno invece prodotto sulla fragile identità arabo mussulmana un risultato ben diverso. Questa analisi è la migliore eredità che ci ha lasciato Fred Halliday.

mercoledì 23 giugno 2010

UN PO’ SU MC CRYSTAL

Vice President Joe Biden
Hillary Clinton, Secretary of State
Timothy Geithner, Secretary of the Treasury
Robert Gates, Secretary of Defense
Rahm Emanuel, Chief of Staff
General James Jones, National Security Advisor
Tom Donilon, Deputy National Security Advisor
John Brennan, Homeland Security and Counterterrorism Advisor
Ambassador Susan Rice, U.S. Ambassador to the United Nations
David Gompert, Acting Director of National Intelligence
Leon Panetta, Director of the Central Intelligence Agency
Rajiv Shah, Administrator, USAID
James Steinberg, Deputy Secretary of State
Admiral Michael Mullen, Chairman of the Joint Chiefs of Staff
General James Cartwright, Vice Chairman of the Joint Chiefs of Staff
Ambassador Richard Holbrooke, Special Representative for Afghanistan and Pakistan
Doug Lute, Coordinator for Afghanistan and Pakistan
John Tien, Senior Director for Afghanistan and Pakistan
General David Petraeus, U.S. Central Command 
General Stanley McChrystal, Commander, International Security Assistance Force and Commander, U.S. Forces Afghanistan
Ambassador Karl Eikenberry, U.S. Ambassador to Afghanistan (via videoconference)
Ambassador Anne Patterson, U.S. Ambassador to Pakistan (via videoconference)


 

Andrew J. Bacevich, Boston University

Kori Schake, Hoover Institution

Julian E. Zelizer, professor of history and public affairs

James Morin, Truman National Security Project

Robert Haddick, managing editor, Small Wars Journal

Nathaniel Fick, Center for a New American Security


 

  • Chi potrebbe sostituire McCrystal? Si dice LTG David Rodriguez, McChrystal deputy, Rodriguez may be suspect , forse  James Mattis.

Per un bel precedente di scontro tra civili e militari americani durante una guerra si rimanda al 1951, alla guerra di Corea, al furioso incidente tra il presidente Truman e il Generale McArthur che voleva usare la bomba atomica per fermare i cinesi.

lunedì 14 giugno 2010

Una splendida canzone, meglio se cantata da Johnny Cash

Nick Cave, The mercy seat

It all began when they took me from my home
And put me on Death Row,
A crime for which I am totally innocent, you know.

I began to warm and chill
To objects and their fields,
A ragged cup, a twisted mop
The face of Jesus in my soup
Those sinister dinner deals
The meal trolley's wicked wheels
A hooked bone rising from my food
And all things either good or ungood.

And the mercy seat is waiting
And I think my head is burning
And in a way I'm yearning
To be done with all this weighing of the truth.
An eye for an eye and a tooth for a tooth
And anyway I told the truth
And I'm not afraid to die.

I hear stories from the chamber
Christ was born into a manger
And like some ragged stranger
He died upon the cross
Might I say it seems so fitting in its way
He was a carpenter by trade
Or at least that's what I'm told

My kill hand's tatooed E.V.I.L.
Across it's brother's fist
That filthy five!
They did nothing to challenge or resist.

In Heaven His throne is made of gold
The ark of his Testament is stowed
A throne from which I'm told
All history does unfold.
It's made of wood and wire
And my body is on fire
And God is never far away.

Into the mercy seat I climb
My head is shaved, my head is wired
And like a moth that tries
To enter the bright eye
I go shuffling out of life
Just to hide in death awhile
And anyway I never lied.

And the mercy seat is waiting
And I think my head is burning
And in a way I'm yearning
To be done with all this weighing of the truth.
An eye for an eye
And a tooth for a tooth
And anyway I told the truth
And I'm not afraid to die.

And the mercy seat is burning
And I think my head is glowing
And in a way I'm hoping
To be done with all this twisting of the truth.
An eye for an eye and a tooth for a tooth
And anyway there was no proof
And I'm not afraid to die.

And the mercy seat is glowing
And I think my head is smoking
And in a way I'm hoping
To be done with all these looks of disbelief.
A life for a life and a truth for a truth
And I've got nothing left to lose
And I'm not afraid to die.

And the mercy seat is smoking
And I think my head is melting
And in a way that's helping
To be done with all this twisting of the truth.
An eye for an eye and a tooth for a tooth
And anyway I told the truth
But I'm afraid I told a lie.

venerdì 11 giugno 2010

ANCORA SULLE NAVI DEI “PACIFISTI”

"La ragione da sola non basta, bisogna saper vincere". Se si volesse utilizzare uno slogan capace di riassumere in colpo la situazione di Israele questa frase rappresenterebbe l'estrema sintesi. Altrimenti, si potrebbe aggiungere, sarebbe sufficiente la morale, e così facendo verrebbe meno il ruolo e lo spazio della politica. Se si vuole capire qualcosa nei recenti fatti a largo di Gaza, tutto il dramma di Israele è racchiuso in questa grande difficoltà, nel non riuscire a venir fuori da una logica tutta giuridico morale che imposta il ragionamento in uno schema sillogistico implacabile, che non lascia scampo nel suo meccanicismo che parte da una premessa morale e per giustificare l'utilizzo dello strumento della forza come metodo di risoluzione dei conflitti. Ossessionato a ragione dalla questione della sicurezza, il governo israeliano non riesce ad uscire da una logica di risposta militare anche in campi che non mettono immediatamente in discussione la sicurezza dello stato israeliano. La struttura del ragionamento è sempre e solo la seguente: "Se ho ragione, e la ho, se Israele è uno stato sovrano, e lo è, la flottiglia dei pacifisti viola un blocco militare del tutto legittimo e quindi sta compiendo un'azione illegale a cui lo stato, il paese di David, ha diritto di rispondere con la forza".

Ragionamento ineccepibile che però si dimentica per strada una verità altrettanto fondamentale dei conflitti moderni dove il campo di battaglia fuoriesce dallo spazio fisico coinvolto dallo scontro per coinvolgere lo spazio reale della pubblica opinione mondiale grazie alla velocità stratosferica dei media. Non è per citare le formule trite e ritrite del "villaggio globale" o delle guerre nell'epoca della CNN, ma un dato è certo. Nelle guerre asimmetriche, ibride, post moderne o tra la gente, lo spazio della politica e quindi della comunicazione è forse più importante della forza fisica. E' sempre stato così, dai tempi della guerra d'Algeria, del Vietnam quando lo scontro si decise non solo nella giungla o tra le strade della casbah, ma nelle piazze francesi e americane, nei cortili dei colleges, nell'assemblea dell'ONU, nelle aule dei tribunali. Eserciti invitti sul campo dovettero ritirarsi sconfitti da un'opinione pubblica mondiale avversa. Vincere da quel momento in poi non fu più sinonimo di battaglie campali, di scontri all'ultimo sangue in trincee fangose. La vittoria è arrisa al contendente che aveva più pazienza, che sapeva utilizzare meglio i media, che riusciva a manipolare meglio l'opinione pubblica mondiale, fino a far dimenticare i propri massacri e a far credere che la propria lotta avesse un significato liberatorio universale.

Oggi, che rispetto a cinquant'anni fa il ruolo dei media è di gran lunga moltiplicato in modo esponenziale, il terreno della comunicazione si trova ad essere fondamentale per uscire vittoriosi in un conflitto. Se Israele non vuole rimanere isolata nella sua battaglia, deve convincersi che non tutti gli scontri richiedono l'impiego della forza e che comunque la gestione della pubblica opinione mondiale è sempre essenziale specialmente nei conflitti combattuti "tra la gente" e da qui nasce la difficoltà di Gerusalemme. L'immagine dello stato ebraico, erede dell'Olocausto e formatasi nello scontro con i paesi arabi, si è andata trasformando a partire della pace con l'Egitto, quando la questione israelo palestinese ha preso il sopravvento e da quel momento la gestione del conflitto, seppur più facile da un punto di vista militare, è diventata una questione tra due popoli e le parti, per l'opinione pubblica mondiale, si sono invertite: a partire dall'invasione del Libano, il David del '48 è diventato il Golia che calpesta i diritti del popolo palestinese.

Certo che non è vero! Certo che hanno ucciso più palestinesi gli arabi che Israele, certo che gli omosessuali arabi scappano dai territori per andare a Gerusalemme, vero che i palestinesi fanno la fila per andare a farsi curare negli ospedali israeliani, certo che i pacifisti sulle navi appartengono ad organizzazioni filo Hamas! Ma che importa se nessuno vuol vedere, se nessun vuol sapere? Sabra e Chatilia, le due Intifade, la guerra di Gaza del 2006 sono state manipolate ad uso e consumo del politicamente corretto pronto a far leva sulla sensibilità morale delle democrazie incuranti della natura del nemico e della verità. A poco però servono le lamentele, questo è il nuovo campo di battaglia.

giovedì 3 giugno 2010

Israele e i “pacifisti”

Il Secolo d'Italia 3 giugno 2010

Israele ha ragione. Sono dei falsi pacifisti, stanno conducendo una guerra sotto mentite spoglie. Hamas sta tranquillamente nella cabina di regia delle navi turche. Violare un blocco navale ha delle conseguenze gravi che solo degli incoscienti e irresponsabili, sempre pronti ad alzare il ditino di condanna, non considera. E i paesi occidentali e europei, con la stampa in prima linea, subito pronti e proni a far propria la versione di Hamas. Per questo gli amici di Israele devono proprio adesso far sentire la propria voce,

Tutto vero, ma non basta aver ragione, non serve a niente. Le guerre asimmetriche, le guerre moderne - quelle che vedono schierate le truppe di una paese democratico contro milizie irregolari a metà tra l'esercito, bande organizzate e militanti di partito, nuovi combattenti che si nascondono tra la gente – i conflitti contemporanei hanno una caratteristica terribile. Si perdono e si vincono non sul piano militare, sul campo cioè, ma su quello strategico dove la partita si gioca con tutti i mezzi. L'attore militarmente più debole, i palestinesi e Hamas, non farà altro che ricercare lo scontro non certo sul terreno militare dove Israele è infinitamente più forte, in tecnologia, sistemi d'arma e organizzazione, ma cercando di indebolire la volontà dell'avversario attraverso l'isolamento diplomatico internazionale, la rottura del suo fronte interno, la conquista dell'opinione pubblica mondiale. E'stato così in ogni guerra asimmetrica o "tra la gente" dal dopoguerra ad oggi. E i primi maestri nella gestione della opinione pubblica internazionale e del livello diplomatico contrapposto alla forza materiale furono proprio degli arabi, quel Fronte di Liberazione Nazionale algerino che, sconfitto sempre sul campo, seppe far dimenticare, grazie all'aiuto dei parà francesi e dei loro discutibili metodi, gli orribili massacri di coloni e la distruzione dei villaggi degli oppositori. E poi arrivò il Vietnam con la stampa mondiale schierata a fianco dei vietcong pronta a non vedere gli orrori compiuti dai comunisti. Ma serve a poco scagliarsi contro le nuove regole del gioco. La verità vera è che la forza e solo un ingrediente, uno strumento, certo necessario, ma uno dei tanti. L'uso dei civili, il farsi scudo di donne e bambini inermi, costringere il nemico ad utilizzare sempre più metodi disumani e contrari al diritto internazionale, in contrasto con la coscienza di un paese democratico, è una precisa strategia degli avversari asimmetrici. Lo scopo è far cader in contraddizione l'avversario, costringerlo a vergognarsi di se stesso, dividere la popolazione del nemico, separare il governo dagli elettori, l'esercito dal suo popolo. Scopo dei vietcong, del FLN, di Hamas, di Hezbollah è solo l'isolamento del proprio avversario, attraverso un rovesciamento sapiente di ruoli. Questo è l'obiettivo più importante, dopo quello della difesa, che Israele deve contrastare con tutti i mezzi, rifiutando per quanto è possibile di cadere nelle provocazioni che non fanno altro che approfondire quella frattura morale dove i terroristi sguazzano.

E' sul fronte dei media, della diplomazia, di chi costruisce il consenso internazionale, che si svolge la battaglia strategica, non sul piano militare dove è necessario per Tel Aviv solo non perdere, e il fronte è molto più grande e complesso di poche migliaia di chilometri. Ed è su questo fronte che l'iniziativa dei commandos della marina e di chi li ha mandati era completamente sbagliata. Che senso aveva, cosa Israele voleva dimostrare? Certo nessuno vuole insegnare ad un paese che lotta da sempre per la propria esistenza, ad un popolo che è stato costretto a dimostrare con le armi il diritto alla sopravvivenza, cosa è bene e cosa è male; nessuno meglio di loro lo può sapere. Ma se questa osservazione prudenziale vale sul piano delle motivazioni profonde, e quindi ci porta a guardare con rispetto anche le tragedie come questa, non si può non affrontare sul piano razionale il piano dei rapporti tra palestinesi e israeliani. Questo conflitto non ha una natura solo militare, ma l'aspetto politico attraversa ogni momento e accompagna passa passo le relazioni di forza: vedere sempre e solo l'aspetto miolitareè sbagliato, perché controproducente.

Dopo quello che è successo, che ci ha guadagnato Israele? Un ennesima discussione su chi ha ragione e chi ha torto? Uno scontro diplomatico con la Turchia, la freddezza di Washington, la reazione della pavida Europa? Le manifestazioni dei soliti pacifisti? Lo sciopero generale dei territori?

Se una lezione è importante da capire, è che non basta avere ragione, bisogna sapersela conquistare e difendere e che i consenso è a volta più importante della vittoria sul campo. Se la verità di Israele è che è Hamas a non volere la pace, che non è un problema di territori occupati, come dimostra la stessa restituzione di Gaza, adesso sarà solo molto più difficile convincere l'opinione pubblica mondiale con il risultato di far sentire la terra di David sempre più isolata. Per questo in un momento così difficile gli amici devono dire ad Israele che sta sbagliando.

I FATTI A LARGO DI GAZA: LE RAGIONI DI ISRAELE E QUELLE DELLA POLITICA

L'Occidentale 3 giugno 2010

Ai fatti avvenuti a largo di Gaza, alla tragedia che si sta abbattendo ancora una volta su quelle terre, si può guardare da tre punti di vista tutti legittimi, ma che rischiano se contrapposti, di suonare stonati: il piano morale, quello legale e infine l'aspetto politico. Il primo è quello più fragile e infatti si trova per forza ad essere trascinato dagli altri; il secondo è rappresentato dal diritto internazionale ma, come si sa,mancando un arbitro dotato di potere effettivo, regola solo in parte la totalità delle relazioni; l'ultimo è rappresentato dal piano strategico politico dove a far da padrone è il principio di realtà.

La vicenda israeliana, per l'alto valore simbolico che incarna, è destinata a far scatenare accese discussioni e assieme ad esse una confusione di piani con il risultato di dar ragione ad Hamas e ai nemici di Israele.

La verità è che i livelli della discussione vanno separati nettamente ed in modo particolare quello giuridico da quello strategico. Ora guardando all'aspetto del diritto internazionale che si porta appresso la valutazione morale, non c'è dubbio che Israele abbia agito per la difesa dei propri interessi e che la flottiglia di cosi detti pacifisti stava forzando un blocco navale in totale disprezzo delle regole internazionali e di quelle di buon senso.

Ma questo punto di vista risolve la totalità del problema? No, rimane il piano politico. Su questo livello, l'aver ragione sul piano del diritto e della morale serve a poco e niente ci dirà la commissione di inchiesta israeliana perché appunto si sta ragionando di errori di valutazione politica. Qui è evidente l'incomprensione da parte di Tel Aviv della minaccia rappresentata dalla protesta sponsorizzata dalla Turchia. I conflitti moderni - "asimmetrici", "ibridi" o "tra la gente", definiteli come vi pare- quelli che vedono fronteggiarsi uno stato democratico infinitamente più forte in termini di tecnologia, sistemi d'arma, organizzazione e un avversario formato da milizie irregolari, hanno la particolarità di non giocarsi sul piano militare. Anzi, a causa della sproporzione di forze e della impossibilità di arrivare ad uno scontro militare definitivo, che si risolverebbe con la sconfitta ai limiti della disfatta del più debole e infatti da questo ampiamente evitato, l'aspetto prettamente militare è destinato ad occupare un ruolo secondario. Qui la politica accompagna continuamente, in ogni momento, la guerra negando il detto che quando le armi parlano, tace la politica. Anzi, a causa proprio dell'asimmetria di forze, la sfida con il paese democratico avverrà utilizzando tutti gli strumenti possibili, cercando proprio di aggirare e neutralizzare quella sproporzione di forze. L'obiettivo dell'irregolare sarà solo e sempre impedire che l'esercito del paese democratico riesca ad impiegare la potenza di cui dispone. I mezzi utilizzati saranno i più vari, ma lo scopo rimane sempre e solo uno: se non si riesce a battere sul campo l'esercito più forte, si può spezzare o legare la volontà politica di quel paese. E come? In due modi. Logorando la volontà di resistenza dello stato democratico, facendo cadere il nemico in ogni provocazione – utilizzo del terrorismo più bestiale, utilizzo degli scudi umani ecc- e costringendo il suo esercito ad utilizzare metodi disumani o illegali con il risultato di costruire un vero e proprio muro morale tra di esso e il suo paese,riuscendo così ad aprire un fronte interno, spezzando il rapporto tra forze armate, popolo e istituzioni e, ecco la seconda modalità, costruendo una barriera di diffidenza internazionale tra lo stato democratico e il consesso internazionale.

Non è una novità. E' stato così nella guerra d'Algeria, durante il conflitto del Vietnam, a Gaza nel 2006. In questi conflitti, l'errore centrale dei paesi occidentali, al di là delle singole ed enormi differenze e delle possibili ed eventuali soluzioni politiche, fu di ridurre lo scontro ad una mera questione militare mentre il nemico svolgeva un confronto a tutto tondo muovendosi su più livelli. Forse ci siamo dimenticati che la Battaglia d'Algeri coincise con la discussione all'Onu della questione algerina? O delle parole di quel generale del Vietnam del Nord che confessò candidamente ad un suo corrispettivo statunitense che per sapere come andasse il conflitto tutte le mattine lo stato maggiore di Hanoi ascoltava la radio americana? O della capacità di Hezbollah di farsi passare da vittime portando a braccetto D'Alema a Beirut e costruendo scene dei bombardamenti aerei ad hoc con le scarpine dei bambini che viaggiavano da un luogo all'altro a seconda delle esigenze delle TV internazionali?

Il fatto è che per Israele per molteplici motivi considerare la complessità della moderna "guerra tra la gente" è molto difficile. Per la sua mentalità, perché Israele si sente, a ragione, la vittima della storia e quindi è abituata a lottare con i denti per la vita e a vedere ogni conflitto come esistenziale in termini di sicurezza; per la storia del conflitto israelo palestinese erede delle guerre arabo israeliane dove si fronteggiavano eserciti tradizionali; per la natura dell'attuale scontro con Hamas che Tel Aviv, a ragione, valuta insolubile perché tutto di natura ideologica religiosa e non politica.

Ma se Israele non vuole tutte le volte ripartire daccapo, in un infinito gioco dell'oca, dovrebbe considerare le molteplici dimensioni della strategia e capire che la gestione dell'opinion pubblica internazionale, dei mass media e della diplomazia sono un fronte forse più importante dello scontro militare dove i palestinesi non sono certo in grado di minacciare la sua esistenza.