lunedì 1 marzo 2010

ILIBERAL E LA GUERRA

Fareed Zakaria in un lungo articolo riportato dal Corriere della Sera domenica scorsa, tracciava un bilancio della guerra contro Al Qaida e se ne usciva con un giudizio giusto e al contempo ingeneroso o addirittura intellettualmente disonesto. Vediamo perché.

Se confrontiamo lo stato del mondo arabo mussulmano odierno a quel fatidico 11 settembre, quando "Al Qaida si presentava aggressiva e baldanzosa", vediamo che "l'intera prospettiva della guerra al terrore ha conosciuto un'evoluzione straordinaria…I moderati hanno impugnato le armi e oggi siamo di fronte ad una svolta. Non si ravvisa più il rischio che una grande nazione cada in preda all'ideologia jihadista. Nella maggior parte delle nazioni mussulmane, i governanti sono riusciti a stabilizzare i regimi e il tessuto sociale, isolando gli estremisti…(Nei paesi mediorientali) sono emerse forze moderne, inclini alla laicità". Oggi Al Qaida ha perso la sua aura magica, "non si tratta più di un movimento capace di trascinare con sé il mondo arabo…la sua influenza politica si è molto ridimensionata". E il direttore di News Week arriva ad una conclusione assolutamente condivisibile, "L'America non è più impegnata in una lotta di civiltà contro il mondo mussulmano, bensì in una campagna militare e di intelligence in un certo numero di località prescelte … Il nemico non è tentacolare e il pantano è in fase di bonifica. Nel campo ideologico, Al qaida ha già perso".

Zakaria però si dimentica di dire chi è stato l'autore di questo successo, chi ha messo la firma sotto questa prima vittoria complessa e articolata data la natura molteplice di questa guerra. Si scorda di dire un semplice "grazie" a tutta l'amministrazione Bush, al discusso Rumsfeld, ai teorici Neocon, attribuendo loro più errori che meriti. E' una strana presunzione quella dei liberal di ogni continente, quando arrivano loro a dire e fare le stesse cose dette e fatte dai conservatori o della destra, insomma da quelli dello schieramento opposto, allora vanno bene e sono giustificate, ma prima? Ora che Obama applica la stessa strategia di Bush anche in Afghanistan – con tutte le luci e ombre che ciò comporta – questo tipo di lotta al terrorismo jhadista va bene, ha il bollino blu del politicamente corretto ed è sparito d'un colpo l'accusa di militarismo e imperialismo.

Fatta questa premessa, necessario prologo in nome della verità, possiamo valutare la strategia degli otto anni Bush e trarre un bilancio abbastanza ragionato. L'11 settembre coglie gli Stati Uniti all'improvviso su tre piani: quello della sicurezza interna, quello militare ma soprattutto su quello politico strategico, nel senso che l'eventualità che Al Qaida potesse colpire con quella violenza il cuore dell'America era cosa che nemmeno rientrava entro l'orizzonte dei piani di difesa e dei pensieri dell'amministrazione e di tutta Washington. Non a caso uno dei primi libri che uscì del grande studioso della guerra fredda Gaddis portava proprio nel titolo la parola "surprise". Allora a colpire l'opinione pubblica, fu l'aspetto tragico, l'uso spregiudicato dei mass media e la simbolicità dei bersagli, l'impreparazione dell'intelligence, e si aprirono le finestre su un mondo che fino ad allora era guardato con distrazione e sufficienza anche dagli stessi americani, pur sotto tiro del fondamentalismo terrorista dal quel 1982 quando a Beirut saltò in aria una baracca dei marines.

Per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, dopo Perl Harbur, gli Stati Uniti si erano dimostrati scoperti e vulnerabili. E' vero, prima c'era stato il Vietnam, ma era fuori casa e comunque avrebbero pagato cara quella ritirata. La loro invincibile forza militare, la superiorità assoluta nel campo tecnologico non era stata in grado di fermare una banda di terroristi venuti dal deserto! Era incredibile, l'unica superpotenza sopravvissuta alla guerra fredda messa in ginocchio da dei fantasmi.

Il primo compito, il principale, per una grande potenza che deve assicurare l'unico ordine esistente a tutti i paesi del mondo – in modo particolare agli alleati consumatori della sicurezza prodotta dagli USA – è di ristabilire il primato attraverso la restaurazione della deterrenza. Non esiste la possibilità di esercizio della propria funzione di garante dell'ordine e di difesa degli alleati se non viene immediatamente percepito da tutti i potenziale nemici che nessuna sfida resterà impunita.

In secondo luogo, bisognava trovare una strategia appropriata in grado di contrastare la novità assoluta dell' insorgenza globale, asimmetrica in tutti i sensi, portata avanti da Bin Laden. Al Qaida aveva ed ha origine nell'humus nel Grande Medio Oriente mussulmano. Per intenderci, è un fenomeno a buccia di cipolla, un po' come la mafia, la stragrande maggioranza dei siciliani non è mafiosa, ma il 99,9% dei mafiosi sono siciliani e si dicono cattolici; non tutti i reati in Sicilia sono da attribuirsi a origini mafiose, ma la mafia prospera in un terreno di illegalità sociale diffusa; non è determinata certo dalla povertà, ma non siamo certo a Bergamo. Insomma l'isola non è la Svizzera.

Così gli americani hanno approntato delle contromisure complesse. La prima azione è stata la cacciata dei talebani e di Al Qaida dall'Afghanistan, con un'azione militare per sforzo logistico e velocità incredibile. La seconda, con l'invasione dell'Iraq, hanno spazzato un regime base di ogni avventurismo medio orientale che seminava instabilità da un ventennio in tutta l'area. Con entrambe le azioni poi gli USA hanno raggiunto un altro importante obiettivo, impiantandosi stabilmente in quell'area di crisi e assicurando Israele alle spalle. In terzo luogo, hanno iniziato a dare la caccia ad al Qaida sul piano globale tramite azioni di polizia e di intelligence internazionali. Allo stesso tempo iniziava l'azione politica verso gli alleati arabi convincendoli a stringere rapporti più stretti con gli Stati Uniti e a troncare le dubbiose relazioni con Bin Laden. Al quarto punto, vi è la lotta ideologica contro il jadhismo a sua volta articolata su più livelli rappresentati dal progressivo raggiungimento di più obiettivi. Separare il fondamentalismo dal terrorismo islamista, far avanzare nei paesi una certa separazione tra stato e religione, in secondo luogo lo stato di diritto e infine la democrazia.

Certo errori sono stati commessi. Si può iniziare con quelli di comunicazione - come la gaffe di Bush quando usò il termine "crociata", l'abuso dell'espressione "esportazione della democrazia", la dichiarazione prematura della vittoria in Iraq - per passare poi a quelli politici in Iraq – la carta Chalabi, lo scioglimento dell'esercito, l'epurazione del Baath, la mancata creazione immediata di un governo locale ecc. – fino ai due errori, se così li possiamo chiamare, rappresentati dalle conduzioni politico militari delle campagne in Afghanistan, ma dove era la Nato?, e in Iraq, dove ci sono voluti qualcosa come, nel primo caso, otto anni, nel secondo quattro per intraprendere un'azione efficace.

Ma il limite più grave, e forse incorreggibile, nonchè inevitabile, è rappresentato dall'incapacità da parte di una democrazia del XXI di sobbarcarsi impegni neocoloniali, eppure necessari per fermare alcune derive a cui comunque la comunità internazionale deve rispondere ma è incapace di farlo in modo orchestrato.

Rimane l'incognita scita. Dopo l'11 settembre, il panorama del Grande Medio Oriente appare fortemente mutato con l'Iran nucleare degli Ayatollah finalmente liberato dalle minacce di Saddam e dei talebani, entrambi acerrimi nemici degli sciti, e con a Baghdad un governo amico anche se non servo. Era previsto?

Nessun commento:

Posta un commento