mercoledì 21 luglio 2010

Il fallimento del riformismo comunista


 


 

Tre libri, tre storie diverse del comunismo italiano raccontate dai protagonisti. Alfredo Reichlin, Renzo Foa, Enrico Morando. Assieme formano un panorama esauriente della vita politica del maggior partito della sinistra italiana, dalla guerra di liberazione ad oggi con i suoi pregi, lacune, errori e responsabilità nella storia nazionale. Tutti concordano su una conclusione implicita. La crisi dell'attuale partito erede di quell'esperienza, del Partito Democratico, è da attribuirsi al modo maldestro di fare i conti con la propria esperienza da parte del PCI che, per arrivare alla svolta della Bolognina, aspettò la caduta del Muro di Berlino. Momento ben diverso dalla catartica e coraggiosa Bad Gotesberg, dal nome della cittadina vicino a Bonn, quando la Socialdemocrazia tedesca nel 1959 non si definì più né marxista né comunista. "Io sono uno che con il comunismo si e' bruciato le dita. Dovete credermi quando vi dico che di libertà si può parlare solo nella libertà". Con queste strazianti parole, Herbert Wehner, allora capo dei deputati dell'SPD al parlamento, aveva convinto anche la minoranza più riluttante. Ma al PCI mancò questo atto di coraggio e da allora è scivolato sulle vicende politiche attraverso sussulti infiniti, attorcigliamenti stonati e discussioni contorte su formule ed etichette che interessano solo gli addetti ai lavori. A riprova, il guazzabuglio degli eletti del PD al parlamento europeo, dove è possibile vedere gli onorevoli sedersi in quasi tutti i gruppi parlamentari, unica realtà ad offrire una simile spettacolo.

Ma era possibile una via diversa? Era pensabile che il vecchio PCI riuscisse a cambiare pelle guardandosi allo specchio e dicendo la verità? Morando e Reichlin ancora pensano che un'altra strada fosse possibile, che l'originalità italiana prevalesse sulla continuità comunista, che la specificità nazionale fosse più forte della ortodossia. Qui sta tutto il tragico errore anche dei migliori riformisti provenienti dal partito di Togliatti. E il limite sta nel DNA, nel midollo del leone per riprendere Calvino, che si intreccia con le vicende della storia nazionale, nelle modalità con cui lo stesso paese è uscito dalla guerra fredda, cioè per una strada che ha salvato proprio gli eredi di Stalin in salsa italiana.

Morando , leader storico del gruppo dei miglioristi, senatore dal 1994, in "Riformisti e comunisti. Dal Pci al Pd. I 'miglioristi' nella politica italiana" (Donzelli, 2010, € 17) è lucido nel cogliere nel percorso dello stesso Amendola, il padre di tutti i riformisti del PCI, i limiti della via italiana al socialismo. Ironia della sorte! Dopo anni passati a sognare il momento della possibilità di trasformazione del Pci, una volta al dunque grazie all'implosione dell'Unione Sovietica, una volta che la storia con le sue stranezze offre su un piatto d'argento l'occasione unica di saltare sul cocchio dei vincitori, l'unico gruppo che si credeva dotato anche degli strumenti teorici e culturali per guidare quella fase, si fa sorprendere con una mentalità minoritaria o di "corrente".

Le cause di quell'appuntamento mancato erano scritte nel codice genetico del comunismo, nel marxismo leninismo, anche nella versione amendoliana che, pur dotandosi di una visione della realtà e della storia d'Italia uniche per capacità di presa politica in confronto con gli altri partiti fratelli europei, rimaneva pur sempre tutto entro l'alveo di quella tradizione con tutto quel che essa significava. In primo luogo, e Morando fa bene a sottolinearlo, i miglioristi non riuscirono a fuoriuscire dalla logica dell'unità del partito intesa come un prius, chiesa laica al di fuori della quale era inconcepibile verità e vita individuale. Il secondo blocco va ricercato in quell'eccesso di tatticismo, anch'esso però frutto del precedente limite, che ha fatto sempre privilegiare la logica interna, il "proprio posizionamento" rispetto agli altri gruppi e al mondo esterno. L'ultimo limite , di origine culturale, ha fatto sì che i riformisti del Pci si vedessero sempre come diversi (e migliori) delle altre tradizioni riformiste storiche, da quella liberale a quella socialista, escludendoli ad ogni forma di contaminazione.

In una parola, in quell'89 a mancare fu la politica. Tangentopoli non aggiunse altro; con la distruzione dello PSI, con l'eliminazione dell'ingombrante altro, tolse la necessità impellente a tutto il gruppo dirigente dell'ex PCI di fare realmente i conti con il proprio passato. La verità era che il comunismo non era in nessun modo riformabile; trasformarlo in qualcosa di diverso era impossibile.

Dell'irriformabilità del comunismo, dell'inesistenza di ogni sognata "terza via" se ne rese ben conto il compianto Renzo Foa ("Ho visto morire il comunismo, Marsilio, 15 €, pagg 207) in un percorso simile a tanti altri ex comunisti, da Silone a Koestler. Prima da corrispondente e poi da direttore dell'Unità, dal 1972 al 1992, uno dei figli delle grandi e storiche famiglie della sinistra italiana ha avuto modo di toccare con mano la realtà del comunismo realizzato e la resistenza ad ogni cambiamento, non dovuta ad una qualche volontà nascosta e nefasta, ma a causa di un magma composto da ideologia, concezioni teoriche, istituzioni e pratiche che rendevano la materia più dura della lava e ne rendevano impossibile ogni trasformazione. Foa, già convinto della falsità delle promesse del comunismo, si rende conto dell'inconsistenza dell'ultima speranza con Gorbaciov e la sua Perestroika, sogno di discernere tra libertà economiche e libertà civili. E quella consapevolezza lo porterà a fare i conti e in modo definitivo con il marxismo leninismo, e il PCI fino a riconoscere la natura mistificatoria di quel mondo costruito sulla sistematica distorsione della verità, sul continuo slittamento del giudizio sulla realtà, su parole mai chiamate a rendono conto della corrispondenza con il mondo.

Ma si farebbe un torto a limitare la realtà del PCI al solo rapporto con la libertà. La vita di un comunista modello, partigiano, direttore dell'Unità, dirigente di federazione come Alfredo Reichlin ("Il midollo del leone. Riflessioni sulla crisi italiana, Laterza, 15€) è esemplare. Quel partito – il Partito per antonomasia - è stato anche una grande scuola di politica, capace di riflettere sulla realtà sociale italiana cercando di individuarne le linee di tendenza, il movimento e i rapporti di forza tra le classi con al centro il motore del proletariato, della classe operaia, delle masse, come si diceva allora. L'esercizio quotidiano di lettura dei fenomeni concreti, nonostante la forte distorsione ideologica, era frutto di un metodo di "fare politica" ormai perso, comune a migliaia di dirigenti, quadri e anche semplici militanti. "State attenti all'analisi – ci diceva Togliatti – perché 'se sbagliate l'analisi sbagliate tutto'. E infatti da che cosa poteva muovere l'iniziativa politica se non 'dall'analisi concreta della situazione concreta?' ". A questa lavorio continuo di presenza, di forza di adattamento alle pieghe della realtà si deve la capacità, altrimenti incomprensibile, che lo fece diventare il più forte partito comunista dell'occidente con una forza di attrazione di ceti medi, intellettuali e alto borghesi senza pari nel resto di Europa, senza d'altronde dimenticare il punto di partenze, la necessità di emancipazione del lavoro. "Ho conosciuto i paesi della povertà estrema"; Reichlin fu testimone dello sviluppo economico, vide quella profonda trasformazione antropologica così ben tratteggiata da Pasolini ed è fiero di aver provato un sentimento - quell' "immensa felicità della politica che si fa popolo, che riscrive la storia e ricostruisce la nazione. La Repubblica" - che ormai la sinistra si è dimenticata, ridotta com'è ad una marmellata, frullato di giustizialismo e sete pura di potere.

Date queste premesse, si capisce allora lo sgomento che prova davanti alla situazione attuale della sinistra. La fine del partito, ha comportato la perdita del luogo della politica - "oggi dove si fa una analisi?" si domanda scorato - e quindi la fine della capacità di individuare problemi e soluzioni degne di questo nome – "la sinistra sembra analfabeta". Reichlin è durissimo con il PD e le scorciatoie moralistiche che hanno proposto letture di comodo e insensate sulla recente storia italiana. Berlusconi non è un mostro, il PDL non è un partito di plastica, l'Italia non è un paese diviso in amici e nemici, buoni gli uni e cattivi gli altri. Il vecchio dirigente comunista viene da lontano non può credere in queste barzellette che rientrano nella "chiacchera dominante che ha raccontato la repubblica come quarant'anni di consociativismo e di soffocamento della società civile da parte della 'partitocrazia': quella chiacchera micidiale dell'antipolitica che ha aperto la strada a Berlusconi". E' lucido nell'individuare i fondamenti della crisi italiana non solo nell'ambito d un sistema politico, ma della stessa forma stato nata dopo la seconda guerra mondiale, di quella costituzione materiale che vide al lavoro il così detto arco costituzionale e che definì per cinquant'anni il modo di stare assieme del popolo italiano. La crisi della prima Repubblica per Reichlin non è insomma ascrivibile a furori improvvisi ("altro che i giudici e la corruzione!", arriverà a dire), ma a sommovimenti profondi che hanno cambiato completamente la realtà e l'identità del paese.

E qui sta il vero limite dell'analisi del vecchio e appassionato combattente. Se, infatti, il PCI aveva espresso una classe politica di quel livello allevata con pazienza e cura, allenata a interpretare la realtà concreta, certo entro schemi teorici, dottrinari e ideologici ben definiti, ma anche capace di dialogare con la cultura borghese più avanzata, perché non ha saputo capire niente del passaggio epocale che si stava producendo in Italia e nel mondo? Perchè i leader nazionali, i D'Alema ed i Veltroni, non vanno al di là, il primo di un'azione politica tutta svolta sul piano tattico ed entro lo spazio del potere, mentre l'ex sindaco di Roma produce banalità a metà strada tra un radicalismo annacquato e il mito mal digerito di Kennedy?

Forse allora è il caso di concludere che la tradizione di sinistra, anche nella sua parte migliore, mi riferisco alla socialdemocrazia liberale, ha finito il suo corso storico alla fine degli anni settanta dell'altro secolo quando lo stato sociale si è compiutamente realizzato. Adesso la politica è chiamata a risolvere ben altre sfide che si chiamano globalizzazione, migrazioni, finanziarizzazione dell'economia, dematerializzazione del lavoro, crisi dello stato nazionale, sfide tecnologiche ai fondamenti naturali della specie umana. Tutti temi completamente estranei alla tradizione teorica di qualsiasi tipo di socialismo (e della vecchia destra liberale e laicista).


 

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