Articolo pubblicato sul Domenicale il 28 marzo 2009
Fino a tre anni fa, gli Stati Uniti hanno corso il rischio di rivivere in Iraq l’incubo del Vietnam. Poi nel 2007 tutto è cambiato. Il successo strategico si chiama “surge” e gli artefici portano ormai nomi conosciuti dal grande pubblico, primo tra tutti il generale Petraus, ma il teorico delle nuove e vincenti strategie di contro insorgenza è senz’altro l’ufficiale David Kilcullen che può vantare un curriculum di studi universitari in antropologia e una esperienza ventennale in guerre asimmetriche, guerriglie e quant’altro, passando da Cipro, all’Indonesia a Timor, dall’Iraq all’Afghanistan. Vantaggi a cui se ne aggiunge un altro, enorme, di non essere americano ma australiano e di poter utilizzare perciò una prospettiva interna e, allo stesso tempo, esterna ai conflitti dove gli americani sono coinvolti. Tutti fatti che lo hanno portato ad essere scelto come advisor del Consigliere alla Sicurezza Condoleeza Rice e, in seguito, consigliere in capo del generale Petraeus.
Nel suo primo libro, (“The Accidental Guerrilla. Fighting Small Wars in the Midst of a Big One”, Oxford University Press, New York 2009, 27,95$) Kilcullen offre una illustrazione completa delle sue idee strategiche a proposito della nuova stagione di conflitti portati alla ribalta, e innovati, da Al Qaida. “Guerra di guerriglia nella sua variante mussulmana”; fenomeno complesso, composto da elementi diversi, terrorismo, insorgenze, guerriglia, con radici religiose, tribali, etniche e combattuto in mezzo mondo. Realtà diverse che rientrano male entro l’etichetta di “lotta al terrorismo”. L’utilizzo di un solo termine comporta per gli Stati Uniti, secondo Kilcullen, una conseguenza drammatica sul piano strategico: moltiplica i nemici e regala allo sfidante centrale, Bin Laden, attori che in realtà sono altro dai terroristi internazionali con il risultato di combattere guerre diverse sempre con gli stessi metodi.
Il teorico australiano opera con il cesello e inizia a compiere una serie di differenziazioni a partire da quella centrale tra “fondamentalismo religioso islamico”, che ha tutto il diritto a manifestarsi, e Al Qaida composta da “terroristi takfiri” cioè apostati. La seconda distinzione è quella tra i movimenti armati locali e i seguaci di Bin Laden. Questi appartengono ad un’organizzazione terroristica, “una forma globale di insorgenza” che si considera avanguardia dell’ummah, utilizza tutti gli strumenti moderni che la globalizzazione ha reso disponibili e applica una “strategia transnazionale di guerriglia”. Al Qaida ha una visione arabo-centrica; il suo fine è la ricostruzione del nuovo califfato e vuole essere il primo promotore del risveglio delle coscienze mussulmane attraverso azioni esemplari, si veda l’11 settembre.
Le insorgenze locali, al contrario, sono concepite dai protagonisti come lotta di resistenza contro l’invasore straniero. Questi movimenti sono autoctoni, ortodossi, tradizionalisti, xenofobi, tribali, magari mistici, vogliono uno stato islamico nel proprio paese, ma a differenza di Bin Laden, non hanno nessuna intenzione di lanciare una Jihad globale. Kilcullen definisce questo tipo di guerre, “guerriglie accidentali”, perché i combattenti si oppongono agli americani, alla Nato in Afghanistan, alle Forze della Coalizione internazionale in Iraq, perché si trovano nel loro spazio, nel loro paese. “Entrambi i gruppi sono anti occidentali; entrambi usano il terrore, la sovversione, e l’insorgenza. Ma uno ha uno sguardo mondiale, …arabizzante, mentre l’altro è più locale, con una forte dose di anticolonialismo e si oppone allo sradicamento, all’impatto della modernità nella sua versione occidentalizzata, nella sua forma americanizzata”. E’ però nell’ incubatore delle guerre locali che avviene la saldatura drammatica e innaturale tra i terroristi internazionali di Al Qaida e la resistenza locale.
Per rispondere a queste nuove sfide, è necessario prima di tutto costruire un nuovo quadro concettuale che sappia tenere assieme la lotta contro il terrorismo e la ricostruzione degli stati falliti, la contro insorgenza locale e quella globale, l’anti guerriglia e le strategie politiche di integrazione dei movimenti fondamentalisti anche perché si sta assistendo ad un nuovo tipo di guerra. “Guerra ibrida”, la definisce il nostro, che punta all’esaurimento del nemico attraverso il protrarsi del conflitto e utilizzando una quantità di strumenti diversi: il terrorismo, la guerriglia, armi moderne e della prima guerra mondiale, strumenti tecnici post moderni e culture arcaiche, azioni deliberate nella loro offensività e altre gratuite e accidentali.
La prima osservazione a cui giunge Kilcullen è inquietante, detta proprio dal teorico della vittoriosa surge in Iraq: l’occidente deve stare alla larga da questo tipo di conflitti perché richiedono un impegno enorme in anni, soldi, vite umane e hanno un esito incerto. Meglio puntare su soluzioni indirette e soft, perché le guerre si sa come iniziano e mai come finiscono; in Iraq gli americani non avevano previsto né la guerra civile causata da Al Qaida, né avevano ben realizzato il significato, e le conseguenze nella regione, della creazione del primo stato arabo scita.
Una volta in mezzo al guado, le guerre devono essere comunque vinte. Da queste premesse, discende la strategia per uscire fuori vi dal caos vincenti; a dimostrazione, l’applicazione datane dal Generale Petraeus in Iraq. Il nodo centrale è rappresentato dal rendersi conto che l’occidente ha davanti a sé due tipi diversi di nemici e deve ammettere che, se il terrorismo transnazionale ha scopi aggressivi, offensivi e imperialisti, le insorgenze locali hanno fini difensivi. Il primo obiettivo strategico da raggiungere è operare quindi una separazione tra le organizzazioni esterne – Al Qaida in primis – e i combattenti locali per mezzo di una azione coordinata politico-militare di disaggregazione che tagli ogni rapporto tra i due tipi di forze e consideri i primi nemici da eliminare utilizzando una strategia “nemico-centrica” e i secondi, invece, possibili alleati secondo un approccio “popolazione-centrico”. Piuttosto che cercare di uccidere quanti più nemici possibile, in questo secondo caso, risulta più utile controllare l’ambiente, renderlo sicuro, unendo un altrettanto mix di strumenti. Lo scopo strategico che le potenze occidentali devono ricercare è insomma quello di controllare la violenza invece di voler raggiungere, attraverso di essa, come nelle guerre tradizionale, i propri fini politici. E questo è quello che è successo in Iraq con la surge inaugurata dal generale Petraeus a cui è arrisa la fortuna di capitare in mezzo alla rivolta tribale sunnita dei filo baathisti nel febbraio del 2007 contro Al Qaida. Qui arriva l’intelligenza e l’esperienza dei nuovi strateghi americani che hanno appoggiato fin da subito il nascente “movimento del risveglio”. In primo luogo facendo uscire i soldati dalle caserme, garantendo la sicurezza ai cittadini, conquistando la fiducia dei capi tribù, aiutando con tutti i mezzi le milizie di autodifesa, rafforzando il governo centrale, addestrando il nuovo esercito e le forze di polizia irachene. In una battuta, rimettendo la politica al centro del conflitto.
La conclusione è amara: “la surge ha funzionato: ma nell’analisi finale è stato uno sforzo per salvare noi stessi”.
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