Articolo pubblicato su Ragionpolitica 22 aprile 2009
"Al di là della differente retorica e delle modalità diverse d’azione dalla amministrazione Bush, Obama non è certo un pacifista. Lo dimostra l’invio di nuove truppe in Afghanistan (17.000 uomini) e la richiesta, semi rifiutata, di compiere uno sforzo ulteriore ai pigri alleati della Nato. Il presidente americano coadiuvato dal generale Petraeus ha infatti deciso di cambiare strategia nelle operazioni in Afghanistan, dopo ben 8 anni di guerra. Prima che si arrivi a rubricare il conflitto afghano come una delle tante “guerre senza fine”, Obama ha scelto di impegnarsi cercando di stabilizzare i due paesi a rischio, uno dei quali, il Pakistan, detentore di armi nucleari. Ma la situazione non è semplice.
Davanti agli Stati Uniti stanno tre opzioni – secondo il professor Paul Rogers conoscitore a fondo della realtà asiatica ed esperto di relazioni internazionali all’univerisà di Bredford - tutte di non facile scelta. La prima sostiene che la guerra contro i Talebani, appoggiati da Al Qaida, non può essere vinta ma deve essere contenuta entro un rischio ragionevole. Quindi a Kabul devono rimanere un numero sufficiente di soldati (stime sostengono 60.000 uomini) per un numero indefinito di anni. La seconda opzione afferma che anch’ora la guerra può essere vinta, ma è necessario compiere un ulteriore sforzo militare raggiungendo la ragguardevole cifra di 100.000 soldati e impegnandosi a fondo nell’opera di ricostruzione del paese –fatto, incredibile a dirsi, che non è fino ad oggi avvenuto. La terza, la meno ortodossa, porta una tesi paradossale: sono gli eserciti occidentali la causa della cronicizzazione della guerra che non cesserà fino a quando essi rimarranno sul territorio afgano. Solo un loro ritiro ed una loro sostituzione con truppe di peace building dell’ONU provenienti da paesi mussulmani potrà porre una svolta al conflitto.
Quale scegliere? Come al solito la realtà offre una serie di dati a favore di ogni scelta. A vantaggio della prima ipotesi vi un dato incontrovertibile. Negli ultimi mesi sono aumentati gli attentati a Kabul e il Pakistan è stato raggiunto da un’ondata di violenza capeggiata dai talebani locali. Ma anche la seconda opzione ha frecce nel suo arco: non è forse vero che le truppe Nato e americane si trovano ad affrontare non più di 20000 insorgenti e per maggior parte nella zona meridionale del paese o a Kabul, a differenza dei sovietici che dovettero affrontare una resistenza diffusa e di massa? Si calcola che quella guerra causò la morte di circa un milione di persone, secondo l’analisi di Peter Bergen ("Graveyard Myths", International Herald Tribune, 30 marzo 2009).
Comunque sia, la situazione rimane irta di difficoltà e gli Stati Uniti devono affrontare una bruttissima crisi regionale. Cambiamenti epocali come la globalizzazione, regionali quali il risorgere del fondamentalismo islamico e la rivoluzione iraniana, crisi locali – si vedano ad esempio le guerre del Golfo, quelle afgane, la crisi israelo palestinese, le tensioni con l’Iran- si trovano per la prima volta uniti in una stessa unica grande cornice geografica che ha fatto saltare definitivamente le vecchie categorie di “Medio Oriente” , “Asia Centrale” e “Asia Meridionale”. I differenti conflitti, anche a causa della loro pervicacia, si sono inscatolati l’uno nell’altro rendendo la situazione un puzzle complicatissimo. Ne è un esempio il difficile e complicato rapporto tra Stati Uniti e Iran. Il regime degli Ayatollah è impegnato in un confronto-scontro su più fronti con gli Stati Uniti, che lo vede ora stare dalla parte degli Stati Uiniti, ora acerrimo nemico. Da una parte minaccia di distruzione Israele, costruisce l’atomica, arma e finanzia Hezbollah e Hamas; dall’altra, in Irak è ben contento della cacciata di Saddam e di veder al potere i suoi amici sciti, fatto fino a pochi anni fa inconcepibile. Ma gli iraniani furono anche ben contenti di vedere cacciati i Talebani, loro acerrimi nemici e così adesso la loro maggiore paura è che una eventuale ridimensionamento occidentale riporti al potere quel regime acerrimo nemico degli sciti e di quella minoranza nel paese; non solo: anche il confinante Pakistan nel caos, terra del fondamentalismo sunnita salafista e dotato di atomica, non è certo uno scenario allettante.
Quello che da lontanissimo sembra chiaro è che le differenti crisi ormai sono interconnesse, che una soluzione non potrà esservi se non sul piano regionale, che per ogni questione è necessario coinvolgere il maggior numero di partner e che anche l’unica e solitaria superpotenza da sola non può farcela ad affrontare in modo coerente e vittorioso più conflitti allo stesso tempo. Forse una soluzione sta nel porsi obiettivi più raggiungibili, vedendo nella garanzia di stabilità e sicurezza anche i suoi vantaggi, differenziando il piano di lungo periodo da quello di medio e breve e mischiando politiche di intervento con quelle di contenimento.
Le ricette non sono facili, ma anche Bush era più realista della sua retorica".
I palestinesi devono cambiare strada
1 anno fa
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