Articolo comparso sabato 18 aprile su L'Occidentale
Il 9 agosto 2006, Molly Moore, sul Washington Post, affermava: “(La seconda guerre Libanese, ndr.) sarà studiata in tutte le accademie militari del mondo come un nuovo tipo di guerra che richiede nuove e senza precedenti definizioni di come combattere e come vincere”.
Il conflitto tra Israele e le milizie paramilitari degli Hezbollah era cominciato il 12 luglio 2006 e doveva durare fino al 14 agosto, quando alle Nazioni Unite fu raggiunto un accordo per il cessate il fuoco.
Dopo trentatre giorni di duri combattimenti, costati ai militanti islamici un numero di uomini caduti tra i 500 e gli 800, e causato la morte di circa mille civili e 120 soldati ad Israele, Olmert e Peres avevano raggiunto un risultato insoddisfacente. Ogni loro aspettativa era andata delusa e gli obiettivi che si erano prefissi quando era iniziata l’offensiva - in risposta all’assalto ad una pattuglia israeliana che aveva provocato la morte di tre soldati, il ferimento di due e il rapimento di altri due militari – non erano stati raggiunti. Dei cinque dichiarati - distruggere il comando iraniano occidentale, restaurare la credibilità israeliana dopo il ritiro dal Libano del 2000, forzare il Libano a diventare uno stato responsabile capace di impedire le azioni di guerriglia che partivano dal suo territorio, indebolire fortemente il movimento Hezbollah e riportare i soldati sequestrati a casa – era stato raggiunto solamente, e in parte, l’azione di ridimensionamento delle milizie comandate da Nasrallah. Non certo però era stato incrinato il rapporto di questa organizzazione con la popolazione, anzi. Impegnandosi a fondo attraverso la distribuzione diretta di fondi, aiuti logistici e tecnici per la ricostruzione delle abitazioni distrutte dalle forze armate nemiche, si può tranquillamente affermare che Hezbollah è uscita più forte e radicata di prima del breve conflitto: agli occhi della popolazione del sud del Libano e di Beirut erano loro, come al solito, gli eroi in grado di resistere all’incomparabile forza dell’esercito israeliano colpevole di distruzioni senza senso.
Israele infatti aveva deciso un’escalation “opzionale” secondo le parole dello studioso di strategia Anthony H. Cordesman autore, con George Sullivan e William D. Sullivan, dell’importante libro “Lessons of the 2006 Israeli-Hezbollah War”. Il fatto è che nelle guerre non necessarie, cioè intraprese dagli stati non per difendere la propria esistenza, per garantire la sopravvivenza, non basta a dichiarare la vittoria: esse si giustificano solo dal successo, dal raggiungimento degli obiettivi a differenza delle guerre ingaggiate per legittima difesa e quindi necessarie. Al contrario, per Hezbollah la sola resistenza era sinonimo di vittoria come aveva ben capito Nasrallah quando in quei giorni affermò: “La vittoria di cui stiamo parlando è quando la resistenza continua”.
E’ una lezione amara che risiede nella storia delle guerre di questo tipo. Sono innumerevoli gli insegnamenti, ma in questo caso sembrano importanti per lo meno quattro punti. Il primo è stato detto ed ha al centro la differenza di significato della vittoria, la seconda è che il successo sul campo da parte dello stato invasore deve essere trasformato in vittoria strategica e quindi, per raggiungere questo risultato, la dimensione militare è insufficiente. L’ultimo punto ha mostrato che la fiducia nell’impiego della tecnologia, utilizzata per affrontare nemici convenzionali, può essere mal riposta nelle guerre asimmetriche, e condurre a cocenti delusioni sul piano politico in grado di annullare qualsiasi vantaggio militare.
La storia del conflitto è abbastanza semplice. Il leader di Hezbollah fin da subito aveva dichiarato che nessuna azione di guerra sarebbe servita a liberare i soldati rapiti perché la chiave della loro detenzione stava nel rilascio di quattro miliziani detenuti in prigioni israeliane. Ma Israele, sottoposta ad un lancio continuo di missili provenienti dal Libano meridionale, aveva optato, comprensibilmente, per una risposta dura che eliminasse in modo definitivo quella continua minaccia. Così era stata intrapresa un’escalation nell’intervento. Innanzitutto cercò di bloccare il lancio dei missili, poi bombardò l’aeroporto di Beirut, il 13 luglio seguì il blocco dei porti libanesi, il 14 luglio ecco il bombardamento dello stato maggiore Hezbollah, il 27 luglio vennero richiamate 30 mila riserve, il 1 agosto arrivò il turno degli attacchi con elicotteri 125 km all’interno del territorio libanese, nella valle della Bekaa, a cui Hezbloah rispose con il lancio di 200 missili, l’11 agosto si assistè al tentativo di ricacciare le milizie scite dietro il fiume Litani. A questo punto, dietro pressione internazionale per arrivare al cessate il fuoco, il 13 agosto fu raggiunta la tregua, poco dopo che era stato dato l’ordine di attacco a terra. Alla fine l’aviazione israeliana aveva compiuto 15.500 sortite, attaccando 7.000 obiettivi e l’esercito impiegato 100.000 carri e 30 mila soldati. Hezbollah, invece, lanciato qualcosa come quasi 4.000 missili nel territorio israeliano, dimostrando, per tutta la guerra, una capacità di colpire il nemico. Hezbollah era stata quindi capace di tenere testa ad uno dei migliori eserciti del mondo.
Lo scandalo all’interno di Israele, già durante la guerra, fu enorme e venne istituita una commissione di inchiesta affidata al giudice Winograd, da cui il nome della stessa, che accusò di insipienza politico militare sia la leadership politica che i vertici dell’esercito.
Prima di arrivare a esporre i limiti e gli errori, è bene sottolineare alcune peculiarità strutturali e costanti che riposano nella storia e geografia del paese che aiutano a comprendere meglio la condotta strategica. In primo luogo, Israele non può difendersi in profondità all’interno del proprio territorio a causa delle stesse dimensioni, quindi è ossessionato dalla difesa dei propri confini che può avvenire solo combattendo oltre gli stessi; in secondo luogo, a causa sia della sua storia sia del numero di abitanti, è estremamente sensibile alle perdite; infine, sempre per gli stessi motivi e per la tipologia peculiare del conflitto, Israele non può intraprendere azioni di “clear, hold and build”, perché queste richiedono l’impiego di troppo tempo, troppi uomini; queste operazioni, inoltre, hanno comunque sempre esposto lo stato israeliano a rappresaglie isostenibili, dimostrandone la vulnerabilità: a riprova di quanto appena detto, la guerra del Libano del 1980. Questi elementi restringono le possibilità d’azione di Gerusalemme che deve trovare una difficile e intelligente soluzione per bloccare un nemico sfuggente, ideologicamente motivato e, adesso, dotato anche di armi moderne, senza scadere nella impossibile barbarie.
La tentazione in questi casi è di trovare una scorciatoia, magari affidandosi alla tecnologia, errore in cui sono caduti spesso anche gli americani. Le debolezze maggiori riscontrate dai critici, infatti, furono le seguenti. Israele sperava di assestare un colpo chirurgico affidandosi all’aviazione, arma in cui detiene il dominio incontrastato, che in questo caso si rivelò inefficace e, una volta che i risultati cominciarono a mancare, anche gli obiettivi della stessa guerra diventarono più confusi. Il capo di Stato maggiore, il generale dell’aviazione Dan Halutz, non aveva ben capito la necessità di intraprendere una fase di operazioni terrestri fin dall’inizio con l’impiego della fanteria per ripulire la zona di confine dai gruppi di miliziani; quindi aveva sovrastimato le capacità dell’aviazione in una guerra asimmetrica. Ma i bombardamenti di Beirut erano stati un fallimento da un punto di vista politico mancando l’obiettivo di indurre il governo libanese, se non a disarmare Hezbollah, per lo meno a indurlo a prendere le distanze dal movimento scita, rivelando, di nuovo, nella dirigenza israeliana una scarsa comprensione della situazione libanese, dei rapporti complessi che intercorrono tra le forze politiche, le differenti confessioni e la Siria e l’Iran, in un intreccio confuso e non lineare. Anche l’intelligence israeliana era risultata al di sotto delle aspettative. Perché non era a conoscenza dei tipi di arma degli Hezbollah, delle sua capacità di combattimento, della sua organizzazione? Perché non aveva visto o aveva sottovalutato i trasferimenti di armi, il numero dei combattenti libanesi compresi quelli part time e il livello di addestramento?
La responsabilità più grande, però, è da imputare alla leadership del governo israeliano che mancò di preparazione militare, di non conoscenza del nemico e rivelò scarsa flessibilità e prontezza nell’adeguare le risposte alla realtà imprevista.
Anche questo conflitto ha dimostrato che la deterrenza è un fatto di percezioni che si basano in modo parziale sulla realtà e non sono date una volta per tutte, perchè evolvono con il tempo e le circostanze. E’ vero che Israele, anche se non ha vinto, ha dimostrato una forza di distruzione notevole, ma la speranza che essa potesse funzionare da deterrente contro il governo e la popolazione libanese si è rivelata falsa. Anzi, ha reso i libanesi ostili a Gerusalemme, come nota sempre Cordesman; infatti, l’uso della forza può essere percepito come eccessivo e ottenere l’effetto contrario da quello sperato, e fare innalzare la rabbia invece che la paura, finendo per funzionare da incentivo al reclutamento di nuovi volontari in sostituzione di quelli caduti. A chi hanno dato la colpa i libanesi dei danni subiti (1110 civili morti, 3700 feriti, 980.000 sfollati al massimo livello della guerra, da 2 a 6 miliardi di dollari di danni e 150.000 case distrutte)? Secondo l’indagine di un giornale francese riportato dall’analista americano, l’87 % della popolazione supportava i seguaci di Nasrallah contro Israele compresi i cattolici maroniti, anche se non erano d’accordo con la loro politica, né con il fatto che siano una milizia di parte armata.
Rimane la constatazione che è difficile capire come usare la deterrenza non contro stati, ma rivolta contro attori guidati da una ideologia fanatica ed estremista dove il realismo trova poco spazio. Quello che è certo è il fatto che l’uso della forza da sola non basta ad avere il sopravvento del nemico specialmente nelle nuove guerre ibride dove tutte le tattiche e tutte le armi sono impiegate simultaneamente. Né è sufficiente accusarlo di terrorismo e di non rispetto delle leggi di guerra, perché non porta uniformi, si nasconde tra la popolazione civile e, peggio, si fa scudo di donne e bambini. Se uno stato occidentale vuole avere credibilità su questo piano, deve riuscire ad agire di conseguenza, evitando di colpire i civili, dimostrando di farlo e smontando in tempo reale le falsità della propaganda avversaria. Queste infatti sono guerre politiche, dove la comunicazione, l’informazione, la propaganda sono uno strumento fondamentale per conquistare, o inimicarsi, un terzo attore potente, l’opinione pubblica internazionale, in grado di spostare il peso della bilancia. La soluzione risiede nella capacità di dare una risposta proporzionata e allo stesso tempo efficace. E’ un tema delicato e Israele deve stare attento. Se la comunità internazionale percepisce la sproporzione, come avvenne nel caso del Vietnam, è la fine. Israele deve evitare di cadere nella trappola di infrangere leggi internazionali o di interpretarle in modo ristretto, perché in questo modo non riesce ad impedire che il nemico privi loro delle capacità di combattere, togliendo la superiorità militare e l’iniziativa.
Nell’ultima guerra a Gaza, Israele ha imparato la lezione, disegnando una curva di apprendimento sorprendentemente breve. Hamas, a differenza dei cugini libanesi, è sempre stata percepita da Israele come una minaccia reale a causa del lancio continuo di missili su Sderot; questo ha fatto sì che il movimento palestinese fosse sempre monitorato con attenzione dai servizi e dalle forze speciali. Ma il dato più rilevante è stata la condotta di guerra; questa volta l’obiettivo era estremamente limitato e definito riassumibile nel voler ridurre le capacità di Hamas nell’infliggere danni ad Israele; fin dall’inizio inoltre, a differenza che in Libano, è stato previsto l’utilizzo di truppe di terra addestrate a combattere in ambiente urbano. Quindi un mix di intelligence, addestramento adeguato e strategie opportune ha reso possibile il risultato ottenuto: una tregua guerreggiata. Ancora non è la pace, ma in questo momento forse è il massimo a cui si può aspirare.
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