"Non ho nessuna intenzione di fare l'anticomunista ad oltranza dopo che i buoi sono scappati: sarebbe stupido. Ma penso che gli ex, come me, devono un po' ricordare a sè e agli altri il passato. Credo, anche, che il tramonto dei comunisti dai vertici del Partito Democratico, che hanno dovuto cedere la leadership agli ex-democristiani (si veda da noi il caso Renzi), dimostri il disastro rappresentato dal "non fare i conti" con la loro identità. Il secondo motivo è rappresentato dal fatto che ancora noi italiani non disponiamo di una storia composta degli stessi fatti; ancora ci sono, non due interpretazioni degli stessi, cosa ben ammissibile, ma storie composte da realtà diverse. E così la storia diventa interpretazione morale, terreno di scontro politico, succedaneo della guerra civile, sempre minacciata. Per questo, l'importanza dell'articolo di Farina (pubblicato su Libero, 24/03/09) e degli altri. "
La domenica mattina, specie in primavera, il bosco è profumato di asprezze, non so che fiori siano, ma se si va alle Malghe di Porzûs (comune di Attimis), e a Bosco Romagno, e ci si sofferma su quel che è accaduto lì, e si leggono i nomi sulla pietra, uno pensa che è questo l’odore buono della patria e del dare la vita per lei. Qui, in questi boschi friulani sono stati uccisi dei partigiani. Combatterono prima contro i fascisti e i nazisti. Quando seppero che i partigiani comunisti si erano alleati con gli jugoslavi per trasferire questa terra in dominio straniero, si opposero a essi, e furono sterminati.
La Commissione Cultura della Camera discuterà presto e, si spera, approverà una risoluzione per chiedere al governo di dichiarare questo sito monumento nazionale. Non costa niente. Il sito è già di proprietà della Provincia di Udine. Che cosa sia accaduto lì, nonostante un bel film dedicato alla vicenda da Renzo Martinelli, è ancora avvolto da parole ambigue. Si è cercato anche lì, nel nostro piccolo, di cambiare la verità storica, di sporcare con l’ambiguità una vicenda purissima.
Mi avevano invitato lì i partigiani della Brigata Osoppo. Mi hanno messo al collo il loro fazzoletto verde. E mi hanno chiesto di tenere un discorso. Avevo studiato la pratica, consultato storici. La verità era ed è così chiara... Ne ho fatto la base per chiedere quella cosa molto simbolica e solenne, forse retorica. Ma c’è bisogno qualche volta di un po’ di liturgia, quando si aggira la bella memoria che ci dà il gusto di essere uomini e persino italiani.
Trascrivo, vergognandomi un po’, gli appunti di quel che dissi, un po’ troppo pomposamente. «Qui c’è l’essenza senza cui non esiste popolo e non c’è patria. Su un cippo diciannove nomi. Non tanto di eroi, che è una parola troppo consumata dalla retorica e dai fumetti: soprattutto sono - anche se morti da ragazzi - i nostri padri martiri, i giovani padri della Patria, testimoni che esiste qualcosa persino più prezioso della vita. Ci provo a dire che cosa è più prezioso della vita: persona, figli, patria, popolo, pace. Ecco: pace».
Italiani fratricidi
Umberto Saba, che trasse linfa per la sua poesia in queste terre, scrisse nel 1945: «Gli italiani non sono parricidi: sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani... Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano alla base della loro storia (o della loro leggenda) un fratricidio». E come si fa a perdonare un fratricidio? Mi viene in mente un’affermazione del grande filosofo francese Jacques Derrida: «C’è chi non può o non deve perdonare. Ma c’è perdono, se mai ce n’è uno, solo dove c’è l’imperdonabile». Cosa si deve fare? Perdonare l’imperdonabile? E come si può?
(Non) sorprende ancora oggi leggere sui siti internet più noti questo aggettivo a proposito dell’eccidio di Porzûs: “controverso”. Quasi per gettare un’ombra su questi nostri martiri. Al massimo controverso è solo il mandante. Non il mandante in generale, ma i nomi precisi di chi davvero ordinò ai killer di agire.
La più recente critica storica dice: «I fatti di Porzûs non furono casuali, come per tanto tempo si è voluto sostenere, ma parte di una strategia volta ad ottenere il controllo di quell’area con ogni mezzo, non esclusa la pulizia etnica, che sarebbe continuata dopo la liberazione nei territori occupati dagli Jugoslavi» (Elena Aga-Rossi, Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin, Il Mulino, 2007).
L’ordine partì dagli sloveni o dal Partito comunista italiano, addirittura nei suoi vertici? Da entrambi. Moralmente possiamo dirlo. Non c’è dubbio. C’è una lettera di Palmiro Togliatti inequivocabile. Togliatti, segretario del Partito comunista italiano, ordinava al comando della brigata Garibaldi-Natisone di porsi alle dipendenze operative del IX Corpus sloveno; la lettera conteneva anche il testo dell’ordine del giorno da approvare.
L’ordine del Migliore
Eccolo: «I partigiani italiani riuniti il 7 novembre in occasione dell’anniversario della Grande Rivoluzione (la Rivoluzione russa del 1917, ndr) accettano entusiasticamente di dipendere operativamente dal IX Corpus sloveno, consapevoli che ciò potrà rafforzare la lotta contro i nazifascisti, accelerare la liberazione del Paese e instaurare anche in Italia, come già in Jugoslavia, il potere del popolo». Questo è tradimento della Patria. In senso tecnico e giuridico, i Tribunali hanno lasciato in sospeso la questione. In senso morale si può dire “tradimento”? Io rispondo sì.
Torno alla testarda realtà. Il contesto all’interno del quale vanno inquadrati i fatti di Porzûs è quello della guerra partigiana sul confine orientale. Fin dall’indomani dell’armistizio sorgono due formazioni partigiane di diverso orientamento politico. 1) Le formazioni Osoppo. Nascono in ambiente cattolico. Successivamente vi si aggregheranno tutte le forze non comuniste. La Divisione Osoppo era nata nella notte fra il 7 e l’8 marzo ’44, quando si erano incontrati al seminario di Udine don Ascanio De Luca, don Aldo Moretti e il parroco di Attimis, don Zani. In quella riunione era stata battezzata l’organizzazione clandestina con il nome del paese friulano, Osoppo, dove i patrioti risorgimentali combatterono gli austriaci. I partigiani che la componevano erano quasi tutti ex alpini, di tendenze democristiane, azioniste o liberali; i simboli della divisa erano il cappello con la penna d’aquila e il fazzoletto verde, «colore della speranza e delle nostre montagne, che ci distinguerà chiaramente dai fazzoletti rossi», come disse uno dei fondatori, Don De Luca.
2) Le formazioni Garibaldine. Tutti i quadri sono di appartenenza comunista e concepiscono la guerra partigiana non solo come la guerra per liberare l’Italia da tedeschi e fascisti, ma come occasione rivoluzionaria per instaurare in Italia un ordine sociale radicalmente diverso: quello bolscevico, ripeterono.
Le differenze tra le due formazioni non sono solo di carattere teorico, ma determinano alcune conseguenze.
1) Dal punto di vista garibaldino andavano considerati nemici non solo i fascisti e i nazisti, ma tutti coloro che si sarebbero potuti opporre all’instaurazione del nuovo ordine sociale. Quindi anche alleati e partigiani non comunisti. Da eliminare. 2) I garibaldini avevano una maggiore consonanza ideologica con i partigiani comunisti jugoslavi. Quando diventarono evidenti le pretese jugoslave sul Friuli, i comunisti si trovarono schiacciati tra fedeltà patriottica e fedeltà ideologica (problema peraltro che connota tutta l’azione dei vertici del Pci nel dopoguerra). Scelsero la fedeltà ideologica, era più forte l’appartenenza al partito che alla Patria.
Questa situazione non poteva che creare tensione tra le due formazioni. Per tutto il corso della guerra si susseguono tentativi di accordi, tradimenti, disarmi violenti di formazioni avversarie. Come raccontarono poi anche gli ufficiali alleati distaccati presso le formazioni partigiane, gli jugoslavi si fecero promotori di una violentissima campagna contro le formazioni Osoppo, denunciandole ai tedeschi, tendendo imboscate e istigando i garibaldini ad agire contro di loro. I quali (come dimostrano anche le lettere di Guido Pasolini al fratello Pier Paolo) fecero di tutto, prima ancora di passarli per le armi, affinché soccombessero negli attacchi dei nazifascisti e dei cosacchi. Gli jugoslavi si rendevano conto che le formazioni Osoppo erano l’ostacolo principale alle loro pretese sulla regione.
Nell’autunno del 1944 i garibaldini accettano di passare direttamente alle dipendenze del comando jugoslavo. Gli Osovani denunciano l’accordo e inviano molte relazioni allarmate sulla situazione della zona orientale. La campagna contro le formazioni Osoppo si fece sempre più aspra. In questo contesto matura l’eccidio di Porzûs, quando una squadra italiana dei GAP comunisti, sotto ordine diretto degli Jugoslavi, cattura e uccide il comando di una formazione Osoppo.
I responsabili
Il principale problema interpretativo è quello dei responsabili della strage. a) I responsabili diretti furono immediatamente individuati come membri di una formazione GAP garibaldina. b) Gran parte della responsabilità dell’ordine va sicuramente attribuita agli Jugoslavi. c) Quello che rimase fin da subito occultato è stato il ruolo del Partito comunista italiano. I vertici del Pci affermarono che si era trattato di un’iniziativa individuale della quale loro erano all’oscuro. Secondo alcuni storici i vertici del Pci invece avallarono l’ordine impartito dagli Jugoslavi. In assenza di una prova decisiva, è però lecito ritenere che la responsabilità dei comunisti italiani vada inquadrata in un contesto di connivenza almeno morale con le forze jugoslave. La lettera di Palmiro Togliatti citata prima è una specie di confessione previa senza se e senza ma.
Al di là della discussione sulle responsabilità penali, però, il punto storicamente interessante è quello della mentalità ideologica che permise la strage, mentalità della quale il Pci era sicuramente responsabile. Una mentalità fortemente ideologica all’interno della quale viene evidenziato un «nemico oggettivo» che deve essere eliminato per il raggiungimento di uno scopo. In questo contesto il nemico non è più un «uomo», ma un «ruolo». È il “nemico di classe”, il “fascista”, e in quanto tale può essere eliminato. La strage di Porzûs è in questo senso un episodio significativo di come questa mentalità, l’ideologia comunista, frutto maturo del ’900, si sia affermata e abbia condizionato tragicamente i rapporti tra gli uomini.
I principali responsabili garibaldini, sottoposti a processo nel dopoguerra, furono messi al sicuro dal Pci che li mandò parte in Slovenia e parte in Cecoslovacchia. Il comandante della formazione GAP materialmente responsabile della strage (Mario Toffanin, il “Giacca”) non si è mai pentito e non ha mai negato le sue responsabilità. È morto nel 1999.
Le scuse di Padovan
Nel 2001 vi fu uno storico incontro di riappacificazione tra il commissario politico delle formazioni Garibaldi (Vanni Padovan) e don Redento Bello, che era cappellano delle Osoppo. Padovan, che è morto nel gennaio del 2008, chiese scusa a nome dei garibaldini per la strage compiuta. Questo il suo intervento: «L’eccidio di Porzûs e del Bosco Romagno, dove furono trucidati 20 partigiani osovani, è stato un crimine di guerra. E chiedo formalmente scusa e perdono agli eredi delle vittime del barbaro eccidio». Usò però una formula ambigua: «Responsabilità oggettiva».
Ora è necessario riconoscere le responsabilità anche soggettive. Quello di Padovan è comunque un gesto importante, ma non ancora decisivo. Non si può pretendere una memoria condivisa, ma il rispetto dei fatti sì. E questo impone di cancellare almeno l’onta che fino alla fine il Giacca, comandante comunista che guidò la strage, ha gettato addosso agli eroi della Osoppo fino alla sua morte: un’infamia tristemente avallata da Sandro Pertini che gli concesse la grazia, che si è tradotta in una oscena benedizione della menzogna.
Riconoscere da parte di tutti questo luogo come monumento nazionale è una buona occasione per farla finita con la guerra civile latente che dura ancora, e per ricordarci delle nostre belle memorie: più dell’assassino conta chi ha dato la vita per l’ideale.
Ci vadano perciò le scolaresche in gita, c’è anche un bel bosco con questo profumo buono che è la libertà mescolata alle querce e ai ciclamini.
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